Il Piccolo di domenica 22 maggio 2022
Esce per Gammarň edizioni il “Diario Diplomatico”, biografia del funzionario fiumano dal dopoguerra all’indipendenza della Croazia
di Pierluigi Sabatti
Un civil servant con la schiena dritta. Damir Grubiša racconta nel suo “Diario Diplomatico - Un fiumano a Roma” (Gammarò edizioni, Sestri Levante, pagg. 291, euro 21) la sua vita di uomo al servizio delle istituzioni, quelle della Jugoslavia prima e della Croazia poi.
Grubiša, ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia, è il primo esule a ricoprire questo incarico. Infatti da piccolissimo (è nato nel ’46) era stato con la madre in campo profughi a Vicenza. Lo racconta lui stesso in questo suo diario che, bisogna dire, è poco diplomatico perché scopre tanti altarini che non piaceranno alle cancellerie dei due Paesi, visto che Grubiša ha conosciuto i vertici politici italiani e croati, come nota lo scrittore Diego Zandel. Episodi anche imbarazzanti che rendono la lettura avvincente e gustosa.
Grubiša nasce a Fiume da padre croato, di ascendenze slovene da parte materna (una Godina di Servola, orgogliosamente triestina) e italiane da parte di madre, i toscani Masi e Franceschini. Il padre, dirigente del Silurificio finisce nel mirino del partito per una serie di scelte economiche troppo aperte, viene “esiliato” a Lussino a occuparsi del cantiere. Lui stesso suggerisce alla moglie di portare il bambino in Italia, dove peraltro si rifugia buona parte dei famigliari di lei. Ma vivere ammassati in uno stanzone di una caserma di Vicenza è duro. Al piccolo rubano pure un palloncino. Non si può continuare, inoltre, per il padre è finita la “quarantena” e la famiglia si riunisce a Fiume. Certo che con queste esperienze alle spalle, Damir Grubiša, che parla uno splendido italiano, ha una sensibilità molto particolare sulle questioni di frontiera e ben conosce la cultura dell’altra sponda dell’Adriatico, come testimoniano le sue pubblicazioni da docente universitario, in particolare dedicate a Machiavelli, di cui è un attento studioso.
La sua carriera diplomatica comincia nel 1986 quando viene proposto come console a Trieste. Incarico delicato e importante, fortemente ambìto da Lubiana, vista la forte minoranza slovena in città. L’energica intromissione del membro della Presidenza collettiva, lo sloveno Stane Dolanc, “l’uomo forte” della Jugoslavia che controllava i servizi segreti, esclude la Croazia e il suo candidato. Al quale viene proposto come «premio di consolazione - racconta Grubiša – il posto di direttore del Centro jugoslavo di informazione e cultura a New York. E così iniziò la mia “carriera diplomatica” e io diventai un “quadro idoneo” del sistema ».
Ma la Jugoslavia è ormai sulla strada della dissoluzione, nonostante la buona volontà di alcuni politici europei, come Gianni De Michelis che Grubiša apprezza molto nonostante la sue stravaganze, la Federativa si frantuma. E si tratta di costruire la nuova Croazia, Grubiša si occupa di quello che conosce meglio: la diplomazia e come capo di gabinetto del ministero degli Esteri promuove una riforma del settore, sul modello di quella che era la diplomazia di epoca jugoslava che preparava fior di personalità (basta pensare al ruolo della Federativa come leader dei “non allineati” una terza via tra il mondo comunista e quello capitalista che forse… ma la storia non si fa con i se).
Però nella “democratura” di Tudjman non c’è posto per lui e nel 1992 viene “allontanato – scrive - con una pedata nel sedere da parte dei governanti nazionalisti della Croazia”.
Non sono anni facili né per lui, né per sua moglie, giudice, cacciata via perché nell’ultimo censimento della Federativa si era dichiarata “jugoslava”. Grubiša vince un concorso all’Istituto di relazioni internazionali di Zagabria, grazie alle sue qualifiche. Concorso taroccato in favore di un candidato gradito al regime di Tudjman, ma la manovra era stata bloccata dalla direttrice Nada Švob Djokic. Entrambi saranno poi relegati a compiti secondari.
«Però - racconta sempre Grubiša - avevo vinto un bando per un programma di ricerca dall’Istituto per la pace degli Usa e l’ambasciatore americano Peter Galbraith aveva protestato quando l’amministrazione voleva revocare questo programma e riuscii a sopravvivere. Naturalmente, senza avanzamenti di carriera, così rimasi, nei dieci anni all’Istituto, un semplice “ricercatore” e dividevo l’ufficio con la direttrice deposta».
Tudjman muore e al governo arrivano i socialdemocratici, alla presidenza della repubblica Ivo Josipović, suo collega all’università, lo vuole ambasciatore a Roma nel ‘92. Finalmente Grubiša può attuare la sua politica adriatica, basata sul dialogo e la cultura. Può realizzare alla luce del sole quell’incontro con gli esuli, già avviato in precedenza da un altro ambasciatore croato proveniente dalle nostre terre, l’istriano Drago Kraljević, che Grubiša apprezza a tal punto da dare a questo suo diario il sottotitolo di “Un fiumano a Roma”, come Kraljević aveva intitolato il proprio libro “Un istriano a Roma”, echeggiando entrambi lo splendido film del ’54 con Sordi. I rapporti con la Società di studi fiumani e il Museo di Fiume nella capitale italiana sono solidi, pieni di iniziative e di esempio per gli altri sodalizi dei profughi.
Sono passati due anni dal concerto dei tre Presidenti (Napolitano, lo sloveno Türk e Josipović) a Trieste e i rapporti tra i due Paesi raggiungono vertici di serenità. Certo rimangono irrisolti alcuni dossier come i beni abbandonati, la commissione storica, però molte diffidenze e incomprensioni sono state superate grazie a questo fiumano e alla sua città, tornata ad essere protagonista come capitale della cultura 2020 con il programma “Il porto della diversità” realizzato nonostante il Covid.
Grubiša, ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia, è il primo esule a ricoprire questo incarico. Infatti da piccolissimo (è nato nel ’46) era stato con la madre in campo profughi a Vicenza. Lo racconta lui stesso in questo suo diario che, bisogna dire, è poco diplomatico perché scopre tanti altarini che non piaceranno alle cancellerie dei due Paesi, visto che Grubiša ha conosciuto i vertici politici italiani e croati, come nota lo scrittore Diego Zandel. Episodi anche imbarazzanti che rendono la lettura avvincente e gustosa.
Grubiša nasce a Fiume da padre croato, di ascendenze slovene da parte materna (una Godina di Servola, orgogliosamente triestina) e italiane da parte di madre, i toscani Masi e Franceschini. Il padre, dirigente del Silurificio finisce nel mirino del partito per una serie di scelte economiche troppo aperte, viene “esiliato” a Lussino a occuparsi del cantiere. Lui stesso suggerisce alla moglie di portare il bambino in Italia, dove peraltro si rifugia buona parte dei famigliari di lei. Ma vivere ammassati in uno stanzone di una caserma di Vicenza è duro. Al piccolo rubano pure un palloncino. Non si può continuare, inoltre, per il padre è finita la “quarantena” e la famiglia si riunisce a Fiume. Certo che con queste esperienze alle spalle, Damir Grubiša, che parla uno splendido italiano, ha una sensibilità molto particolare sulle questioni di frontiera e ben conosce la cultura dell’altra sponda dell’Adriatico, come testimoniano le sue pubblicazioni da docente universitario, in particolare dedicate a Machiavelli, di cui è un attento studioso.
La sua carriera diplomatica comincia nel 1986 quando viene proposto come console a Trieste. Incarico delicato e importante, fortemente ambìto da Lubiana, vista la forte minoranza slovena in città. L’energica intromissione del membro della Presidenza collettiva, lo sloveno Stane Dolanc, “l’uomo forte” della Jugoslavia che controllava i servizi segreti, esclude la Croazia e il suo candidato. Al quale viene proposto come «premio di consolazione - racconta Grubiša – il posto di direttore del Centro jugoslavo di informazione e cultura a New York. E così iniziò la mia “carriera diplomatica” e io diventai un “quadro idoneo” del sistema ».
Ma la Jugoslavia è ormai sulla strada della dissoluzione, nonostante la buona volontà di alcuni politici europei, come Gianni De Michelis che Grubiša apprezza molto nonostante la sue stravaganze, la Federativa si frantuma. E si tratta di costruire la nuova Croazia, Grubiša si occupa di quello che conosce meglio: la diplomazia e come capo di gabinetto del ministero degli Esteri promuove una riforma del settore, sul modello di quella che era la diplomazia di epoca jugoslava che preparava fior di personalità (basta pensare al ruolo della Federativa come leader dei “non allineati” una terza via tra il mondo comunista e quello capitalista che forse… ma la storia non si fa con i se).
Però nella “democratura” di Tudjman non c’è posto per lui e nel 1992 viene “allontanato – scrive - con una pedata nel sedere da parte dei governanti nazionalisti della Croazia”.
Non sono anni facili né per lui, né per sua moglie, giudice, cacciata via perché nell’ultimo censimento della Federativa si era dichiarata “jugoslava”. Grubiša vince un concorso all’Istituto di relazioni internazionali di Zagabria, grazie alle sue qualifiche. Concorso taroccato in favore di un candidato gradito al regime di Tudjman, ma la manovra era stata bloccata dalla direttrice Nada Švob Djokic. Entrambi saranno poi relegati a compiti secondari.
«Però - racconta sempre Grubiša - avevo vinto un bando per un programma di ricerca dall’Istituto per la pace degli Usa e l’ambasciatore americano Peter Galbraith aveva protestato quando l’amministrazione voleva revocare questo programma e riuscii a sopravvivere. Naturalmente, senza avanzamenti di carriera, così rimasi, nei dieci anni all’Istituto, un semplice “ricercatore” e dividevo l’ufficio con la direttrice deposta».
Tudjman muore e al governo arrivano i socialdemocratici, alla presidenza della repubblica Ivo Josipović, suo collega all’università, lo vuole ambasciatore a Roma nel ‘92. Finalmente Grubiša può attuare la sua politica adriatica, basata sul dialogo e la cultura. Può realizzare alla luce del sole quell’incontro con gli esuli, già avviato in precedenza da un altro ambasciatore croato proveniente dalle nostre terre, l’istriano Drago Kraljević, che Grubiša apprezza a tal punto da dare a questo suo diario il sottotitolo di “Un fiumano a Roma”, come Kraljević aveva intitolato il proprio libro “Un istriano a Roma”, echeggiando entrambi lo splendido film del ’54 con Sordi. I rapporti con la Società di studi fiumani e il Museo di Fiume nella capitale italiana sono solidi, pieni di iniziative e di esempio per gli altri sodalizi dei profughi.
Sono passati due anni dal concerto dei tre Presidenti (Napolitano, lo sloveno Türk e Josipović) a Trieste e i rapporti tra i due Paesi raggiungono vertici di serenità. Certo rimangono irrisolti alcuni dossier come i beni abbandonati, la commissione storica, però molte diffidenze e incomprensioni sono state superate grazie a questo fiumano e alla sua città, tornata ad essere protagonista come capitale della cultura 2020 con il programma “Il porto della diversità” realizzato nonostante il Covid.
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