Solo nei romanzi e nei film le pistole si nascondono sotto le camicie. Anche se non oliate e ingrassate, le armi da sparo restano oggetti che sporcano, nessuno si esporrebbe al rischio di macchiare gli indumenti di ricambio. Antonio estrae il caricatore dal calcio della semiautomatica e ripone l’uno e l’altra sotto un paio di camicie ripiegate: non a caso siamo in un libro, Balestrieri è il protagonista del noir esotico I guardiani di Wirikuta di Giancarlo Narciso. Un gran bel prodotto, il titolo d’esordio di uno scrittore noto da anni, pubblicato in nuova edizione a febbraio dalle liguri Oltre Edizioni (2022, Sestri Levante, 208 pagine), nella collana I gialli Oltre, diretta da Diego Zandel.
La vicenda narrata si svolge in Messico, dove l’avventuriero italiano Antonio Balestrieri va a caccia di un tesoro, ostacolato da avversari insidiosi quanto lui e da forze ancestrali. Azione e suspense ricordano scrittori come Bruno Traven, dal suo Il tesoro della Sierra Madre è nato l’omonimo film del 1948, diretto da John Huston e interpretato da Humphrey Bogart.
La nota bibliografica in quarta di copertina ricorda che Narciso vanta una cifra internazionale e che questo suo primo romanzo è uscito nel 1994, per i tipi della “mitica casa editrice Granata Press, fondata a Bologna dal compianto Luigi Bernardi”. Milanese, classe 1947, ammette di essere un distratto, difetto off limits per chi scrive. In compenso è un viaggiatore compulsivo e soprattutto un curioso, dote acconcia alla bisogna letteraria. Anche la sua vita è stata un’avventura, sicché sa bene di cosa parla. Ha completato per tre volte il giro del mondo, due nella direzione seguita dal Phileas Fogg di Jules Verne e una sulla rotta occidentale di Magellano. Si è stabilito a lungo in Estremo Oriente, a Tokyo, Kathmandu, Singapore, in Indonesia, anche in Kuwait e a Città del Messico. Chissà se ha navigato su carghi battenti bandiera liberiana, ma di certo si è mantenuto facendo di tutto, l’interprete, il dirigente d’azienda, il reporter, la comparsa.
Il demone della scrittura lo ha stregato negli anni Novanta, quando ha messo radici sul Garda (a parte qualche parentesi indonesiana sull’isola di Lombok) e sono nati i romanzi Granata Press, non solo Wirikuta anche il secondo, Le zanzare di Zanzibar (1995). Non pochi i riconoscimenti per la sua narrativa: il Premio Tedeschi nel 1998 per Singapore Sling e nel 2006 lo Scerbanenco con il romanzo Incontro a Daunanda. Con lo pseudonimo Jack Morisco, ha firmato inoltre per Segretissimo Mondadori la serie di spionaggio Banshee, nome in codice di Oliver McKeown, il miglior agente segreto della Città-Stato di Singapore.
La critica mette in risalto quanto sia difficile distinguere il confine tra realtà e fantasia nei romanzi di Giancarlo Narciso. Tanto più in questo, redatto quando non era stato ancora fuorviato dalla suggestione di abbandonare la sua cifra personale tanto originale per seguire il manierismo del noir all’italiana. Il romanzo pubblicato all’inizio dell’anno da Oltre è l’auto riscrittura, nemmeno tanto superficiale, del suo primo lavoro. Considera il risultato soddisfacente — d’altra parte dopo oltre un quarto di secolo di successi è scrittore maturo — e si dice impressionato dalla bella copertina, un disegno coloratissimo a tema quasi metafisico.
Il romanzo è stato ispirato dalle sue esperienze di viaggi in destinazioni esotiche e anche dal luogo in cui l’ha scritto, una cittadina sperduta e disabitata in una Sierra del Messico settentrionale, di quelle dove non sarebbe una sorpresa trovarsi circondati da presenze spettrali.
Non semplici fantasmi, ma antiche leggende animistiche locali segnano la trama. Che dire altrimenti della Irumari, la donna volpe, reincarnazione in un corpo animale dello spirito di una bella ragazza uccisa per amore o gelosia. Si lascia vedere con l’aspetto umano solo di notte, quando scende dai monti a cacciare gli uomini, che seduce e poi elimina. Lo raccontano le leggende degli indiani Huicholes, che vivono vicino alla costa del Pacifico, ma raggiungono a piedi l’area sacra di Wirikuta, per scalare il Quemado, la montagna dove vive il Grande Cervo, il signore di tutti gli dei.
È nel Messico centrale, tra le catene montuose della Sierra Madre Orientale, vicino alla cittadina di Real de Catorce, un tempo raggiunta da tantissimi cercatori d’oro, ma decaduta e spopolata dopo la chiusura delle miniere di metallo prezioso, una dopo l’altra, perché inaridite. Si parla di una fortuna in oro, sepolta in un luogo indicato da una mappa introvabile e vigilato dai guardiani del tesoro, fantasmi di nativi che appaiono soltanto a quanti abbiano le mani già sporche di sangue. È un tesoro maledetto, chi cerca di prenderlo può solo uccidere per l’oro o essere ucciso.
Antonio raggiunge Real e interroga tutti, il sindaco, i due improbabili unici poliziotti in servizio, il parroco, i pochissimi abitanti... ma nessuno è in grado di dargli risposte sulle due persone ch’è venuto a cercare dall’Italia. Per lui diventano importati tre donne: Alessia, Alice, Amanda.
Dicono che a Wirikuta ci sia una porta. Chi viene accolto sulla soglia e preso saldamente per mano dal Grande Cervo, è condotto alla salvezza dei terreni di caccia celesti. Che dolore invece per chi la varca in solitudine, è condannato a vagare in eterno, “nella sofferenza di non sapersi più riconoscere, confuso fra mille e mille sogni cristallizzati nella frattura del tempo”.
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