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«Vernice fresca» di Luca Rondolini
SALTINARIA.IT di domenica 22 novembre 2015


Undici racconti calati in una realtà quotidiana spessa e densa, domestica, resa materica dall’uso di una lingua spicciola, perfino dialettale; eppure queste storie, come istantanee, paiono essere sospese, talora in bilico tra sogno e realtà: pensieri, momenti di una stessa persona come episodi, o uno zoom che scorre veloce tra angoli diversi di un paese?

Presentato a Umbria Libri 2015, Venerdì 13 novembre

Vernice fresca è il titolo di un racconto che dà il nome alla raccolta è presentata come 11 racconti, 11 storie imperfette, dense, crude, tra eros, nostalgia e un’ironia strisciante che a tratti regala alle pagine un’insolita freschezza, piena di umanità. L’idea di questi fotogrammi, che potrebbero essere stati scattati in momenti diversi di una stessa vita, allucinazioni, sogni a occhi aperti o chiusi, divagazioni della mente, è che dietro ci sia una stessa anima: potrebbero essere storie e personaggi diversi ma anche varianti, episodi di una stessa persona. Racconto certamente nutrito di un sensibilità maschile, a metà tra un racconto di iniziazione senza formazione e cronache di giornate ordinarie dove dei brani sono strappati, colti in fragrante, senza l’idea che togliendo qualcosa ci sia una frattura: sono storie senza trame dove un giorno può essere unico o essere indifferente, accanto a tanti altri. I personaggi infatti ci appaiono fluidi, irregolari senza riuscire ad essere immorali. Nella vita – si intuisce più che spiegare - che si barcamenino alla meno peggio nei meandri del quotidiano con il loro carico di insicurezze e ossessioni che, lungi dal risolversi nel corso delle vicende, rimangono incastrate nelle pieghe della vita a tracciare nell’insieme una sorta di romanzo di deformazione. A fare da contrappeso a questa rarefazione un po’ allucinante e straniante più che conturbante – attraversata da una sensualità focosa ma sbrigativa e impacciata – c’è una contestualizzazione sociale indovinata: l’immagine che emerge per me è una realtà di paese, una vita modesta, dove il dialetto perugino marca il territorio e segna i personaggi con una certa umiltà. E’ da rimarcare questo senso di irrisolutezza di storie, rapporti dove non c’è però un vero precipitare. Nessun senso di catastrofe se non di ineluttabilità. Anche i sentimenti, al di là dell’impellenza del desiderio, si colorano solo di malinconia: dolore e gioia sembrano non albergarvi eppure non c’è indifferenza né qualunquismo nei personaggi di Rondolini. La sorpresa nasce da quel lato oscuro eppure domestico che si nasconde nel retrobottega di uomini di tutti i giorni, di vite tranquille eppure in subbuglio. Si alternano i piani dell’azione e della fantasia del personaggio, come due immagini che cinematograficamente chiedono un cambio di scena, due telecamere diverse, una ripresa a colori e una in bianco e nero, certamente più vicino alla sceneggiatura che alla riflessione intima della scrittura, tanto che il dialogo resta in secondo piano. E’ in questi momenti che l’autore sembra entrare dentro e autorappresentarsi con una nota di struggente malinconia che segue sempre il desiderio.
Una nota interessante della scrittura è la commistione scelta apparentemente casuale nel linguaggio come avviene proprio nella vita: linguaggio crudo, banale, quindi fantasie poetiche che salgono con parole liriche, per poi distendersi in versi che creano anche una discontinuità grafica, tra l’italiano e l’influsso dialettale.

Luca Rondolini è nato a Perugia nel 1977, dove vive. È laureato in lettere e ha conseguito il dottorato in Italianistica con un lavoro sulla narrativa di Federigo Tozzi. Insegna materie letterarie nelle scuole secondarie. Ha recitato con il CUT di Perugia, per la regia di Roberto Ruggieri, e con Filippo Timi e il Teatro Stabile dell’Umbria. Da molti anni scrive versi e racconti, finora inediti.

Ilaria Guidantoni
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Undici racconti calati in una realtà quotidiana spessa e densa, domestica, resa materica dall’uso di una lingua spicciola, perfino dialettale; eppure queste storie, come istantanee, paiono essere sospese, talora in bilico tra sogno e realtà: pensieri, momenti di una stessa persona come episodi, o uno zoom che scorre veloce tra angoli diversi di un paese?

Presentato a Umbria Libri 2015, Venerdì 13 novembre

Vernice fresca è il titolo di un racconto che dà il nome alla raccolta è presentata come 11 racconti, 11 storie imperfette, dense, crude, tra eros, nostalgia e un’ironia strisciante che a tratti regala alle pagine un’insolita freschezza, piena di umanità. L’idea di questi fotogrammi, che potrebbero essere stati scattati in momenti diversi di una stessa vita, allucinazioni, sogni a occhi aperti o chiusi, divagazioni della mente, è che dietro ci sia una stessa anima: potrebbero essere storie e personaggi diversi ma anche varianti, episodi di una stessa persona. Racconto certamente nutrito di un sensibilità maschile, a metà tra un racconto di iniziazione senza formazione e cronache di giornate ordinarie dove dei brani sono strappati, colti in fragrante, senza l’idea che togliendo qualcosa ci sia una frattura: sono storie senza trame dove un giorno può essere unico o essere indifferente, accanto a tanti altri. I personaggi infatti ci appaiono fluidi, irregolari senza riuscire ad essere immorali. Nella vita – si intuisce più che spiegare - che si barcamenino alla meno peggio nei meandri del quotidiano con il loro carico di insicurezze e ossessioni che, lungi dal risolversi nel corso delle vicende, rimangono incastrate nelle pieghe della vita a tracciare nell’insieme una sorta di romanzo di deformazione. A fare da contrappeso a questa rarefazione un po’ allucinante e straniante più che conturbante – attraversata da una sensualità focosa ma sbrigativa e impacciata – c’è una contestualizzazione sociale indovinata: l’immagine che emerge per me è una realtà di paese, una vita modesta, dove il dialetto perugino marca il territorio e segna i personaggi con una certa umiltà. E’ da rimarcare questo senso di irrisolutezza di storie, rapporti dove non c’è però un vero precipitare. Nessun senso di catastrofe se non di ineluttabilità. Anche i sentimenti, al di là dell’impellenza del desiderio, si colorano solo di malinconia: dolore e gioia sembrano non albergarvi eppure non c’è indifferenza né qualunquismo nei personaggi di Rondolini. La sorpresa nasce da quel lato oscuro eppure domestico che si nasconde nel retrobottega di uomini di tutti i giorni, di vite tranquille eppure in subbuglio. Si alternano i piani dell’azione e della fantasia del personaggio, come due immagini che cinematograficamente chiedono un cambio di scena, due telecamere diverse, una ripresa a colori e una in bianco e nero, certamente più vicino alla sceneggiatura che alla riflessione intima della scrittura, tanto che il dialogo resta in secondo piano. E’ in questi momenti che l’autore sembra entrare dentro e autorappresentarsi con una nota di struggente malinconia che segue sempre il desiderio.
Una nota interessante della scrittura è la commistione scelta apparentemente casuale nel linguaggio come avviene proprio nella vita: linguaggio crudo, banale, quindi fantasie poetiche che salgono con parole liriche, per poi distendersi in versi che creano anche una discontinuità grafica, tra l’italiano e l’influsso dialettale.

Luca Rondolini è nato a Perugia nel 1977, dove vive. È laureato in lettere e ha conseguito il dottorato in Italianistica con un lavoro sulla narrativa di Federigo Tozzi. Insegna materie letterarie nelle scuole secondarie. Ha recitato con il CUT di Perugia, per la regia di Roberto Ruggieri, e con Filippo Timi e il Teatro Stabile dell’Umbria. Da molti anni scrive versi e racconti, finora inediti.

Ilaria Guidantoni
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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