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I confini dell’odio, un grande romanzo mitteleuropeo
L'incontro di giovedě 6 ottobre 2022
Nel trentennale della guerra nella ex Jugoslavia, l’editore Gammarň ripropone il romanzo di Diego Zandel “I confini dell’odio” che uscě originariamente nel 2002 per i tipi dell’editore piemontese Aragno. Per l’occasione pubblichiamo l’introduzione alla nuova edizione del romanzo di Andrea Di Consoli che con Zandel ha partecipato alla realizzazione del docufilm “Hotel Sarajevo” prodotto da Clipper Media e da Cinecittŕ con Rai Cinema.

di Andrea Di Consoli

I confini dell’odio, un grande romanzo mitteleuropeo di guerra

Di quel groviglio che sono i Balcani, o meglio del riverbero italiano ai confini orientali di quel feroce guazzabuglio che, per dirla con Churchill, “produce più storia di quanta ne possa consumare”, Diego Zandel è, nella letteratura italiana a cavallo tra fine ‘900 e primi del secolo nuovo, uno degli scrittori più intensi e appassionati.

Il miglior romanzo italiano sulle guerre nell’ex Jugoslavia

Con I confini dell’odio, che fu pubblicato nel 2002 dalla casa editrice allora diretta dal compianto Raffaele Crovi, Zandel ha scritto il miglior romanzo italiano sulle guerre scoppiate nella ex Jugoslavia post-titina. Probabilmente poteva farlo soltanto lui, fedele com’è sempre stato alla sua condizione di figlio di esuli fiumani. Una vicenda che ha raccontato e sviscerato con lucida rabbia nell’arco dell’intera sua esistenza. Le ultime guerre balcaniche degli anni ’90 – e si spera davvero che possano essere realmente le ultime – sono per Zandel l’occasione per provare a chiudere una “questione privata”. Questione che non è scorretto allargare alla definizione di “questione italiana”.

Guerre assurde ai confini dell’Italia

Perché quelle guerre assurde – assurde perché aggrovigliate fino ai limiti dell’insensatezza – riguardano in parte anche l’Italia. Non solo per la vicinanza geografica e per il famigerato intervento Nato nel quale fummo convintamente coinvolti, almeno a livello parlamentare. Ma perché le ferite e le morti subite dopo la seconda guerra mondiale al confine orientale, benché a lungo rimosse, sono parte della nostra frastagliata identità nazionale. Quando infatti la guerra scoppiò furono tanti tra coloro che vissero la tragedia dell’esodo a sentire riaperta una ferita profonda. E ad avvertire un oscuro richiamo per popoli, terre e lingue che erano state abbandonate per non soccombere, ma che pure rimanevano in una parte recondita della coscienza come tasselli colorati di un antico mosaico identitario.

Bruno Lednaz ci restituisce voci, corpi, odori, suoni, gesti

Di quella guerra Zandel, con il personaggio Bruno Lednaz, restituisce con crudo e sorvegliato realismo voci, corpi, odori, suoni, gesti. Quasi voluttuosamente, si direbbe, come di chi sente di poter esorcizzare un dolore solo tornando nel luogo dov’è sorto. In quelle terre Lednaz ci torna per onorare una precisa richiesta del padre morente: essere seppellito nella terra dalla quale la Storia lo costrinse a fuggire. Ma tornare significa per Lednaz sentire l’oscuro richiamo delle origini, al punto di trovarsi come risucchiato nelle dinamiche più feroci della guerra. Siamo, nel romanzo, alla fine del conflitto. Ma siamo anche nel momento peggiore della “pace”, quando rancori, stanchezze e vendette si manifestano in un clima ubriaco, ai limiti dell’allucinazione.

Così distante e così vicino

Nessuno ha chiesto a Lednaz di entrare in quel groviglio – lui è solo uno scrittore che vive a Roma e che è tornato in Croazia per seppellire il padre. Ma una forza tellurica lo fa vacillare, tanto che l’inconscio della Storia s’impossessa di lui. È evidente che Lednaz – uomo mite, colto, ormai distante da quell’ossessione etnica – provi orrore per la guerra – e della guerra, con orrore, vedrà gli aspetti più agghiaccianti.Torture, paura, stupro, vendetta, crimine gratuito, ecc. Ma Lednaz, forse senza saperlo, non vuole altro che entrarci, perché lì è il suo brodo psicologico. Lì l’eco della sua prima lingua perduta, lì il segreto di ogni vicenda privata.

Il senso di appartenenza e i confini della ragione

E dunque da un lato è solo uno scrittore italiano che è casualmente testimone di vicende vissute quasi inconsapevolmente. Dall’altro è parte in causa in quella follia di odio e di rancore, anche se in maniera contrastata e delicata, perché nei confronti di quelle terre prova un misto di odio e di oscura attrazione identitaria e psicologica. A quest’altezza si compie l’aspetto più interessante del romanzo, ovvero questo partecipare allo stesso tempo da estraneo e da “appartenente” a una vicenda di guerra d’inaudita ferocia e intensità, d’una poesia mai sganciata da un umile vero, e da una rigorosa adesione ai fatti militari e geopolitici.

Una guerra intima che nasconde un segreto

Zandel fa un’operazione di struggente intensità psicologica. Affianca per qualche giorno, turbato e come stordito da una forza superiore, i fratelli che non ha mai avuto. Lui non è come loro, e tuttavia i legami sono profondi, e sono come segnati da un’oscura ragione di sangue. Lednaz vive fino in fondo tuti gli orrori di quella guerra, e ovviamente ne uscirà segnato e stravolto. Ma in fondo è una guerra intima, e sprofondarvi così totalmente è come un esorcismo – come per un figlio di deportati tedeschi ebrei sentir parlare la lingua tedesca. Lingua che fa sì sentire dolore, ma che è anche come una risposta: la risposta (il segreto) che solo il tuo carnefice conosce.

Raggiungere la libertà attraverso una catarsi

Svevianamente, Lednaz disubbidisce al padre e, al termine di questo viaggio negli inferi e tra i fantasmi della Storia, deciderà di riportare la bara in Italia. È un gesto simbolico forte, una disubbidienza clamorosa. Ma Lednaz decide al posto suo, e decide che la Storia non è ancora riuscita a sanare le antiche ferite, perché quella terra non è ancora casa per chi fu costretto a lasciarla nel peggiore dei modi nel secondo dopoguerra. Nonostante questo, però, Lednaz vivrà nella terra dell’odio istinti e sentimenti che probabilmente non pensava di poter provare. Senza mai perdere la sua civiltà, egli ragiona da soldato, impara le leggi della difesa e della fuga. Vive una fratellanza viscerale, riscopre un istinto sessuale feroce e si abbevera di paesaggi e parole aspre e dure che sono parte del suo inconscio famigliare.

Da tutto questo non potrà che scappare, e finalmente raggiungere la libertà di là dall’Adriatico. Ma da italiano particolare, per sempre compromesso con i grovigli dei Balcani.

L’universo femminile che tiene insieme famiglie spezzate

Ci sono pagine di questo romanzo di potente icasticità. E si pensa a certe scene di paura, di fuga, di violenza, ma anche a certe pagine dedicate all’universo femminile slavo, che commuovono per come sanno restituire durezza, bellezza e una disarmante destino di violenza e di tragedia. Troppo difficile in così poche righe spiegare quanto e perché le donne furono vittime in quelle guerre. Ma quel mescolamento di sangue, di morte e di piacere criminale fu come un devastante incesto tra famiglie improvvisamente impazzite da un odio euforico e allucinato.

Un romanzo militare, d’azione e complesso

Con I confini dell’odio Diego Zandel ha scritto un romanzo “di trama” ma anche di profonda complessità psicologica e di puntuale realismo storico. Un “romanzo militare” per trama e “azione”, ma mitteleuropeo per spessore introspettivo e stilistico. Pure, un romanzo profondamente morale, segnato com’è da un lancinante suicidio per un tradimento paterno per corruzione.

Il Male è solo Miseria…

E forse, in ultima istanza, è proprio questo a depotenziare e in parte dissolvere gli ossessivi fantasmi storici e identitari di Lednaz. La presa d’atto che la Storia, anche la più oscura e crudele, alla fine non è mai figlia di un superiore mito primigenio, ma sempre e solo della feroce e avida miseria umana. Alla resa dei conti solo questo guarisce. La presa d’atto che il Male non esiste, perché a guardarlo bene negli occhi il Male è solo Miseria.



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Nel trentennale della guerra nella ex Jugoslavia, l’editore Gammarň ripropone il romanzo di Diego Zandel “I confini dell’odio” che uscě originariamente nel 2002 per i tipi dell’editore piemontese Aragno. Per l’occasione pubblichiamo l’introduzione alla nuova edizione del romanzo di Andrea Di Consoli che con Zandel ha partecipato alla realizzazione del docufilm “Hotel Sarajevo” prodotto da Clipper Media e da Cinecittŕ con Rai Cinema.

di Andrea Di Consoli

I confini dell’odio, un grande romanzo mitteleuropeo di guerra

Di quel groviglio che sono i Balcani, o meglio del riverbero italiano ai confini orientali di quel feroce guazzabuglio che, per dirla con Churchill, “produce più storia di quanta ne possa consumare”, Diego Zandel è, nella letteratura italiana a cavallo tra fine ‘900 e primi del secolo nuovo, uno degli scrittori più intensi e appassionati.

Il miglior romanzo italiano sulle guerre nell’ex Jugoslavia

Con I confini dell’odio, che fu pubblicato nel 2002 dalla casa editrice allora diretta dal compianto Raffaele Crovi, Zandel ha scritto il miglior romanzo italiano sulle guerre scoppiate nella ex Jugoslavia post-titina. Probabilmente poteva farlo soltanto lui, fedele com’è sempre stato alla sua condizione di figlio di esuli fiumani. Una vicenda che ha raccontato e sviscerato con lucida rabbia nell’arco dell’intera sua esistenza. Le ultime guerre balcaniche degli anni ’90 – e si spera davvero che possano essere realmente le ultime – sono per Zandel l’occasione per provare a chiudere una “questione privata”. Questione che non è scorretto allargare alla definizione di “questione italiana”.

Guerre assurde ai confini dell’Italia

Perché quelle guerre assurde – assurde perché aggrovigliate fino ai limiti dell’insensatezza – riguardano in parte anche l’Italia. Non solo per la vicinanza geografica e per il famigerato intervento Nato nel quale fummo convintamente coinvolti, almeno a livello parlamentare. Ma perché le ferite e le morti subite dopo la seconda guerra mondiale al confine orientale, benché a lungo rimosse, sono parte della nostra frastagliata identità nazionale. Quando infatti la guerra scoppiò furono tanti tra coloro che vissero la tragedia dell’esodo a sentire riaperta una ferita profonda. E ad avvertire un oscuro richiamo per popoli, terre e lingue che erano state abbandonate per non soccombere, ma che pure rimanevano in una parte recondita della coscienza come tasselli colorati di un antico mosaico identitario.

Bruno Lednaz ci restituisce voci, corpi, odori, suoni, gesti

Di quella guerra Zandel, con il personaggio Bruno Lednaz, restituisce con crudo e sorvegliato realismo voci, corpi, odori, suoni, gesti. Quasi voluttuosamente, si direbbe, come di chi sente di poter esorcizzare un dolore solo tornando nel luogo dov’è sorto. In quelle terre Lednaz ci torna per onorare una precisa richiesta del padre morente: essere seppellito nella terra dalla quale la Storia lo costrinse a fuggire. Ma tornare significa per Lednaz sentire l’oscuro richiamo delle origini, al punto di trovarsi come risucchiato nelle dinamiche più feroci della guerra. Siamo, nel romanzo, alla fine del conflitto. Ma siamo anche nel momento peggiore della “pace”, quando rancori, stanchezze e vendette si manifestano in un clima ubriaco, ai limiti dell’allucinazione.

Così distante e così vicino

Nessuno ha chiesto a Lednaz di entrare in quel groviglio – lui è solo uno scrittore che vive a Roma e che è tornato in Croazia per seppellire il padre. Ma una forza tellurica lo fa vacillare, tanto che l’inconscio della Storia s’impossessa di lui. È evidente che Lednaz – uomo mite, colto, ormai distante da quell’ossessione etnica – provi orrore per la guerra – e della guerra, con orrore, vedrà gli aspetti più agghiaccianti.Torture, paura, stupro, vendetta, crimine gratuito, ecc. Ma Lednaz, forse senza saperlo, non vuole altro che entrarci, perché lì è il suo brodo psicologico. Lì l’eco della sua prima lingua perduta, lì il segreto di ogni vicenda privata.

Il senso di appartenenza e i confini della ragione

E dunque da un lato è solo uno scrittore italiano che è casualmente testimone di vicende vissute quasi inconsapevolmente. Dall’altro è parte in causa in quella follia di odio e di rancore, anche se in maniera contrastata e delicata, perché nei confronti di quelle terre prova un misto di odio e di oscura attrazione identitaria e psicologica. A quest’altezza si compie l’aspetto più interessante del romanzo, ovvero questo partecipare allo stesso tempo da estraneo e da “appartenente” a una vicenda di guerra d’inaudita ferocia e intensità, d’una poesia mai sganciata da un umile vero, e da una rigorosa adesione ai fatti militari e geopolitici.

Una guerra intima che nasconde un segreto

Zandel fa un’operazione di struggente intensità psicologica. Affianca per qualche giorno, turbato e come stordito da una forza superiore, i fratelli che non ha mai avuto. Lui non è come loro, e tuttavia i legami sono profondi, e sono come segnati da un’oscura ragione di sangue. Lednaz vive fino in fondo tuti gli orrori di quella guerra, e ovviamente ne uscirà segnato e stravolto. Ma in fondo è una guerra intima, e sprofondarvi così totalmente è come un esorcismo – come per un figlio di deportati tedeschi ebrei sentir parlare la lingua tedesca. Lingua che fa sì sentire dolore, ma che è anche come una risposta: la risposta (il segreto) che solo il tuo carnefice conosce.

Raggiungere la libertà attraverso una catarsi

Svevianamente, Lednaz disubbidisce al padre e, al termine di questo viaggio negli inferi e tra i fantasmi della Storia, deciderà di riportare la bara in Italia. È un gesto simbolico forte, una disubbidienza clamorosa. Ma Lednaz decide al posto suo, e decide che la Storia non è ancora riuscita a sanare le antiche ferite, perché quella terra non è ancora casa per chi fu costretto a lasciarla nel peggiore dei modi nel secondo dopoguerra. Nonostante questo, però, Lednaz vivrà nella terra dell’odio istinti e sentimenti che probabilmente non pensava di poter provare. Senza mai perdere la sua civiltà, egli ragiona da soldato, impara le leggi della difesa e della fuga. Vive una fratellanza viscerale, riscopre un istinto sessuale feroce e si abbevera di paesaggi e parole aspre e dure che sono parte del suo inconscio famigliare.

Da tutto questo non potrà che scappare, e finalmente raggiungere la libertà di là dall’Adriatico. Ma da italiano particolare, per sempre compromesso con i grovigli dei Balcani.

L’universo femminile che tiene insieme famiglie spezzate

Ci sono pagine di questo romanzo di potente icasticità. E si pensa a certe scene di paura, di fuga, di violenza, ma anche a certe pagine dedicate all’universo femminile slavo, che commuovono per come sanno restituire durezza, bellezza e una disarmante destino di violenza e di tragedia. Troppo difficile in così poche righe spiegare quanto e perché le donne furono vittime in quelle guerre. Ma quel mescolamento di sangue, di morte e di piacere criminale fu come un devastante incesto tra famiglie improvvisamente impazzite da un odio euforico e allucinato.

Un romanzo militare, d’azione e complesso

Con I confini dell’odio Diego Zandel ha scritto un romanzo “di trama” ma anche di profonda complessità psicologica e di puntuale realismo storico. Un “romanzo militare” per trama e “azione”, ma mitteleuropeo per spessore introspettivo e stilistico. Pure, un romanzo profondamente morale, segnato com’è da un lancinante suicidio per un tradimento paterno per corruzione.

Il Male è solo Miseria…

E forse, in ultima istanza, è proprio questo a depotenziare e in parte dissolvere gli ossessivi fantasmi storici e identitari di Lednaz. La presa d’atto che la Storia, anche la più oscura e crudele, alla fine non è mai figlia di un superiore mito primigenio, ma sempre e solo della feroce e avida miseria umana. Alla resa dei conti solo questo guarisce. La presa d’atto che il Male non esiste, perché a guardarlo bene negli occhi il Male è solo Miseria.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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