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Maurizio Lo Re, «Il settimo mare»
Antologia Militare di domenica 13 novembre 2022
Sull’esile filo di reticenti racconti familiari corrosi dal tempo, e poi di una paziente ricerca volta a verificarli e completarli, Maurizio Lo Re ritorna, in questo “Il settimo mare”, sulle tragiche vicende italiane nelle ore... drammatiche del secondo conflitto mondiale

di Mauro Conciatori
Sull’esile filo di reticenti racconti familiari corrosi dal tempo, e poi di una paziente ricerca volta a verificarli e completarli, Maurizio Lo Re ritorna, in questo “Il settimo mare”, sulle tragiche vicende italiane nelle ore drammatiche del secondo conflitto mondiale. Ancora una volta egli si misura, in maniera convicente, con gli stilemi del romanzo storico, aggiornandoli con penna personalissima e approfondita ricerca preliminare sulle fonti.
Un serrato racconto di guerra incrocia infatti le vicende personali e familiari del Secondo Capo Cannoniere Mario Lo Re; sconvolge un microcosmo pacato e in fondo ordinario fatto di umani timori, dubbi, speranze («una storia semplice»); travolge ogni pur tenace tentativo di ricondurre a ragione e a misura umana i titanici avvenimenti circostanti; e infine scaraventa la vicenda del protagonista in una dimensione di dramma epico che la frantuma e ne disperderà persino la memoria.
I precedenti affreschi storico-psicologici di Maurizio Lo Re avevano andamento e tempi sovente sinfonici. Questa è invece sostanzialmente una sonata eroica, con sapiente uso di cupi tempi sincopati alternati a preziosi “larghetti”: scelta e sviluppo di un unico tema principale, attraverso pennellate espressioniste. Alla fine, resta la sensazione di un racconto sull’inesorabilità, che emargina e poi travolge gli altri temi, in modo, appunto, inesorabile.
La vicenda incalza al ritmo di uno sbalorditivo tour de force narrativo. Il lettore è inchiodato al testo. Ancor prima che dallo snodarsi delle vicende, iI dramma emerge dal magistrale rovesciarsi dei piani narrativi e delle prospettive temporali; nonchè dallo sdoppiarsi interno e esterno dell’io narrante. Con raffinata intuizione stilistica, l’io/tu narrante viene chiamato a descrivere più volte la sua stessa morte, fino a quel punto estremo in cui nessuno può per definizione percepire l’attimo del proprio trapasso. La meccanica è talmente convincente da celare il paziente, artigianale lavoro di scomposizione e ricomposizione del narrato cui evidentemente l’autore ha proceduto.
Lo spessore dell’opera sta, a nostro modo di vedere, proprio nel severo semplificarsi di spunti e personaggi collaterali per andare all’essenziale del dramma, asciugando ogni aneddotica. Lo sballottamento dei personaggi dentro la realtà tocca la sua acme anche rispetto ai precedenti libri di Lo Re; la cupa drammaticità dello sfondo schiaccia la loro ricerca di un ancoraggio etico nelle contraddizioni fra legge degli uomini e legge di natura. Qui, l’esito dello scontro fra razionalità individuale e dramma storico è scontato sin dapprincipio: è chiaro che lo sfondo annienterà le recite di tutti questi personaggi, come avvenne a Jenny Cozzi nel primo capitolo del precedente Gli amici di Leuwen (2009, Milano, Lampi di Stampa).
Ma questo destino segnato nulla toglie alla tensione narrativa, che avvince come in un thrilling. L’acme del dramma si situa forse nell’incubo del capitano John Linton, in cui l’atto finale è prefigurato, immaginato e non vissuto: la dimensione onirica, l’assenza di suoni aggiungono alla vicenda una dismisura che dilata la dimensione dei fatti. Elevano ad ennesima potenza il ritmo narrativo. La medesima, violentissima scena verrà poi ridescritta, dentro la realtà, con gli occhi di Mario / Tu narrante, in un geniale calembour di rimandi al precedente sogno («L’aria fetida che promana dalle stive si mischia con un forte odore di cordite. Dallo squarcio slabbrato sulla lamiera della fiancata escono uomini vivi Maurizio Lo Re • Il settimo mare [Mauro Conciatori] 761 e morti, interi o a brandelli, braccia, gambe, budella e dita amputate, in un mare rosa di sangue: alcuni si affacciano alla spaccatura aperta dal siluro e l’acqua che entra impetuosa li ricaccia indietro, con le carni straziate dalle lamiere contorte e taglienti della falla»).
Maurizio Lo Re è, come al solito, molto attento ai dettagli. La ricostruzione delle rotte navali, così come la narrazione degli scontri, rivela un’attenta verifica dei dati tecnici. Anche le vicende immaginarie sono cioè basate su un approfondito studio, e pertanto risultano nettamente verosimili. L’inserimento nel testo di ritagli di giornale e fotografie d’epoca accentua l’immediata credibiltà del narrato. Alla trama fanno da sfondo sapide pennellate di luoghi differenti ma tutti immersi nella cupa atmosfera della guerra, il cui pesante effluvio si taglia a fette tanto a Tripoli quanto a Palermo, a Milano ma anche sul mare. E, ancora una volta, il treno si conferma per Lo Re felice espediente narrativo, per incisive carrellate neo-realistiche sull’anormale normalità dei paesaggi fisici e psicologici del nostro Paese in guerra.
Alcuni dei personaggi collaterali sono tratti dalla vita reale; le loro vicende sono immaginarie ma la loro esistenza è storicamente documentata. Inoltre, come già in altri lavori di Lo Re, anche qui irrompono a sorpresa i protagonisti di precedenti romanzi, con un ruolo di comparse, nel rispetto dei loro caratteri, ma in un contesto del tutto inatteso; e questo produce (in chi ha letto i libri precedenti) un effetto talvolta di familiarità, talaltra di spaesamento. D’altra parte, riflette il protagonista del romanzo, «la realtà sembra un gioco di specchi, di rimandi” e “ogni cosa può essere collegata a qualcos’altro, l’esistenza di ognuno è un infinito rimando, da un giorno a un altro, da una persona a un’altra, dalla tua città a un paese straniero, da una parola a una diversa, da un concetto a un’immagine. Tutto è legato da un impercettibile filo di misteriose rispondenze».
Svariati personaggi raccontano e mettono in scena, ciascuno dal proprio punto di vista, la predetta tematica del conflitto fra obbedienza a una norma politicosociale e sentire della propria coscienza. La reiterazione potenzia la tematica e accentua il senso di inesorabilità degli esiti.
Come in ogni romanzo storico, l’autore evoca indirettamente complessi problemi storici, suggerendo interrogativi euristici che lascia giustamente irrisolti, all’attenzione e all’impregiudicata valutazione del lettore. La narrazione ci riporta perciò a classici temi storiografici, per quanto in un’ottica letteraria anzichè scientifica: la preparazione dell’Italia a un vasto conflitto; il grado di razionalità, inevitabilità o avventurismo della scelta mussoliniana di entrarvi; la complessiva coerenza della politica estera di Mussolini (e in generale dello stesso regime) rispetto agli interessi di lungo periodo del Paese; il rilievo della guerra dei convogli e di quella dell’intelligence nello sviluppo dello scontro mediterraneo e di quello generale; il grado, la natura e la solidità del consenso per il regime; l’impatto delle leggi razziali; e infine le risorse etiche, materiali e politiche che restavano agli Italiani per misurarsi con lo sconfinato dramma che li aveva travolti e con le imminenti, tragiche prove che ancora li attendevano.
In conclusione, una lettura avvincente, e un intelligente invito, per tutti, a riaprire e ripercorrere il non banale libro di famiglia di un Paese spesso smemorato.


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Sull’esile filo di reticenti racconti familiari corrosi dal tempo, e poi di una paziente ricerca volta a verificarli e completarli, Maurizio Lo Re ritorna, in questo “Il settimo mare”, sulle tragiche vicende italiane nelle ore... drammatiche del secondo conflitto mondiale

di Mauro Conciatori
Sull’esile filo di reticenti racconti familiari corrosi dal tempo, e poi di una paziente ricerca volta a verificarli e completarli, Maurizio Lo Re ritorna, in questo “Il settimo mare”, sulle tragiche vicende italiane nelle ore drammatiche del secondo conflitto mondiale. Ancora una volta egli si misura, in maniera convicente, con gli stilemi del romanzo storico, aggiornandoli con penna personalissima e approfondita ricerca preliminare sulle fonti.
Un serrato racconto di guerra incrocia infatti le vicende personali e familiari del Secondo Capo Cannoniere Mario Lo Re; sconvolge un microcosmo pacato e in fondo ordinario fatto di umani timori, dubbi, speranze («una storia semplice»); travolge ogni pur tenace tentativo di ricondurre a ragione e a misura umana i titanici avvenimenti circostanti; e infine scaraventa la vicenda del protagonista in una dimensione di dramma epico che la frantuma e ne disperderà persino la memoria.
I precedenti affreschi storico-psicologici di Maurizio Lo Re avevano andamento e tempi sovente sinfonici. Questa è invece sostanzialmente una sonata eroica, con sapiente uso di cupi tempi sincopati alternati a preziosi “larghetti”: scelta e sviluppo di un unico tema principale, attraverso pennellate espressioniste. Alla fine, resta la sensazione di un racconto sull’inesorabilità, che emargina e poi travolge gli altri temi, in modo, appunto, inesorabile.
La vicenda incalza al ritmo di uno sbalorditivo tour de force narrativo. Il lettore è inchiodato al testo. Ancor prima che dallo snodarsi delle vicende, iI dramma emerge dal magistrale rovesciarsi dei piani narrativi e delle prospettive temporali; nonchè dallo sdoppiarsi interno e esterno dell’io narrante. Con raffinata intuizione stilistica, l’io/tu narrante viene chiamato a descrivere più volte la sua stessa morte, fino a quel punto estremo in cui nessuno può per definizione percepire l’attimo del proprio trapasso. La meccanica è talmente convincente da celare il paziente, artigianale lavoro di scomposizione e ricomposizione del narrato cui evidentemente l’autore ha proceduto.
Lo spessore dell’opera sta, a nostro modo di vedere, proprio nel severo semplificarsi di spunti e personaggi collaterali per andare all’essenziale del dramma, asciugando ogni aneddotica. Lo sballottamento dei personaggi dentro la realtà tocca la sua acme anche rispetto ai precedenti libri di Lo Re; la cupa drammaticità dello sfondo schiaccia la loro ricerca di un ancoraggio etico nelle contraddizioni fra legge degli uomini e legge di natura. Qui, l’esito dello scontro fra razionalità individuale e dramma storico è scontato sin dapprincipio: è chiaro che lo sfondo annienterà le recite di tutti questi personaggi, come avvenne a Jenny Cozzi nel primo capitolo del precedente Gli amici di Leuwen (2009, Milano, Lampi di Stampa).
Ma questo destino segnato nulla toglie alla tensione narrativa, che avvince come in un thrilling. L’acme del dramma si situa forse nell’incubo del capitano John Linton, in cui l’atto finale è prefigurato, immaginato e non vissuto: la dimensione onirica, l’assenza di suoni aggiungono alla vicenda una dismisura che dilata la dimensione dei fatti. Elevano ad ennesima potenza il ritmo narrativo. La medesima, violentissima scena verrà poi ridescritta, dentro la realtà, con gli occhi di Mario / Tu narrante, in un geniale calembour di rimandi al precedente sogno («L’aria fetida che promana dalle stive si mischia con un forte odore di cordite. Dallo squarcio slabbrato sulla lamiera della fiancata escono uomini vivi Maurizio Lo Re • Il settimo mare [Mauro Conciatori] 761 e morti, interi o a brandelli, braccia, gambe, budella e dita amputate, in un mare rosa di sangue: alcuni si affacciano alla spaccatura aperta dal siluro e l’acqua che entra impetuosa li ricaccia indietro, con le carni straziate dalle lamiere contorte e taglienti della falla»).
Maurizio Lo Re è, come al solito, molto attento ai dettagli. La ricostruzione delle rotte navali, così come la narrazione degli scontri, rivela un’attenta verifica dei dati tecnici. Anche le vicende immaginarie sono cioè basate su un approfondito studio, e pertanto risultano nettamente verosimili. L’inserimento nel testo di ritagli di giornale e fotografie d’epoca accentua l’immediata credibiltà del narrato. Alla trama fanno da sfondo sapide pennellate di luoghi differenti ma tutti immersi nella cupa atmosfera della guerra, il cui pesante effluvio si taglia a fette tanto a Tripoli quanto a Palermo, a Milano ma anche sul mare. E, ancora una volta, il treno si conferma per Lo Re felice espediente narrativo, per incisive carrellate neo-realistiche sull’anormale normalità dei paesaggi fisici e psicologici del nostro Paese in guerra.
Alcuni dei personaggi collaterali sono tratti dalla vita reale; le loro vicende sono immaginarie ma la loro esistenza è storicamente documentata. Inoltre, come già in altri lavori di Lo Re, anche qui irrompono a sorpresa i protagonisti di precedenti romanzi, con un ruolo di comparse, nel rispetto dei loro caratteri, ma in un contesto del tutto inatteso; e questo produce (in chi ha letto i libri precedenti) un effetto talvolta di familiarità, talaltra di spaesamento. D’altra parte, riflette il protagonista del romanzo, «la realtà sembra un gioco di specchi, di rimandi” e “ogni cosa può essere collegata a qualcos’altro, l’esistenza di ognuno è un infinito rimando, da un giorno a un altro, da una persona a un’altra, dalla tua città a un paese straniero, da una parola a una diversa, da un concetto a un’immagine. Tutto è legato da un impercettibile filo di misteriose rispondenze».
Svariati personaggi raccontano e mettono in scena, ciascuno dal proprio punto di vista, la predetta tematica del conflitto fra obbedienza a una norma politicosociale e sentire della propria coscienza. La reiterazione potenzia la tematica e accentua il senso di inesorabilità degli esiti.
Come in ogni romanzo storico, l’autore evoca indirettamente complessi problemi storici, suggerendo interrogativi euristici che lascia giustamente irrisolti, all’attenzione e all’impregiudicata valutazione del lettore. La narrazione ci riporta perciò a classici temi storiografici, per quanto in un’ottica letteraria anzichè scientifica: la preparazione dell’Italia a un vasto conflitto; il grado di razionalità, inevitabilità o avventurismo della scelta mussoliniana di entrarvi; la complessiva coerenza della politica estera di Mussolini (e in generale dello stesso regime) rispetto agli interessi di lungo periodo del Paese; il rilievo della guerra dei convogli e di quella dell’intelligence nello sviluppo dello scontro mediterraneo e di quello generale; il grado, la natura e la solidità del consenso per il regime; l’impatto delle leggi razziali; e infine le risorse etiche, materiali e politiche che restavano agli Italiani per misurarsi con lo sconfinato dramma che li aveva travolti e con le imminenti, tragiche prove che ancora li attendevano.
In conclusione, una lettura avvincente, e un intelligente invito, per tutti, a riaprire e ripercorrere il non banale libro di famiglia di un Paese spesso smemorato.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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