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L’ORDINE INFRANTO Maria Teresa Casella
Il passaparola dei libri di lunedģ 21 novembre 2022
“Infranto l’ordine della mia vita, tentai per un certo tempo di ripristinarlo. Non mi riuscģ. A quell’ordine dovetti rinunciare e allora conobbi la mia forza, scoprendomi pił solida di quanto avessi immaginato”

di Cristina Costa

“Infranto l’ordine della mia vita, tentai per un certo tempo di ripristinarlo. Non mi riuscì. A quell’ordine dovetti rinunciare e allora conobbi la mia forza, scoprendomi più solida di quanto avessi immaginato”

E’ Marta che parla, una ragazza qualunque, di una famiglia perbene.

Ma da subito si percepisce che qualcosa non quadra, si legge che sotto questa apparente normalità c’è altro.

Marta sembra vivere in bilico, in attesa che qualcosa di brutto possa accadere, non si sente appartenere a ciò che la circonda, la sua vita non la sente sua, è assurdo, lo so, ma spesso le sensazioni dicono molto più delle parole.

Eppure saranno le parole ascoltate per caso, senza volere, che travolgeranno la sua vita, il suo ordine, la famiglia, lo studio, le relazioni con gli altri, tutto va in cortocircuito, si rompe, subisce un arresto.

Marta è costretta a resettare sé stessa.

 

 

 

“Non volevo morire, ma non amavo abbastanza la vita, almeno fino a quando dovetti lottare per salvarmela”

Inizialmente si annienta, si distrugge, si scompone, come in una sorta di big bang esplode e implode insieme, per poi pian piano ricostruirsi, nel corpo e soprattutto nell’anima.

“Un giorno mi vidi riflessa in una vetrina e mi riconobbi a malapena. Resistere fino a che avessi capito che piega dare alla mia vita: questa era la mia priorità”

E lo fa in un campo rom!

Forse è proprio di questo che ha bisogno, ha bisogno di ripartire da zero, di imparare a badare a sé stessa, di lottare per sé stessa, di vedere il mondo con altri occhi, di conquistare i suoi spazi, e non di dover contare sempre su qualcuno. Nel campo di Zaclina, Marta capisce cosa vuol diventare da grande, impara a rendersi utile, mette a frutto le sue conoscenze, conquista la fiducia degli altri grazie ai suoi meriti.

Marta impara a convivere con la fame e il freddo e lo sporco.

Nel campo riconquista il senso di appartenenza, che non ha mai sentito in famiglia.

E’ sicuramente una gagè con un futuro incerto, ma con loro ritrova la sua forza e si sente finalmente orgogliosa di sé.

Si toglie tutte quelle sovrastrutture e condizionamenti che le hanno imposto e impara a vivere anche di emozioni.

L’autrice mi ha raccontato una comunità, con le sue regole, le sue gerarchie, il suo modo di vivere e spesso sopravvivere, le sue tradizioni, i suoi riti ancestrali, le sue passioni, i colori, la musica.

Un mondo che viene descritto con tanto realismo e verità, nei suoi lati luminosi e in quelli oscuri.

 

 

 

“Il concetto di tempo per i rom è legato all’esperienza del presente, non c’è progettualità dell’esistenza. Un anziano del clan mi disse una volta che la differenza tra un rom e un gagè è la stessa che passa tra l’orologio e il tempo: l’orologio segna i secondi, i minuti, le ore, e tu sei certo che dopo le tre vengano le quattro, e poi le cinque., Il tempo invece è la pioggia, la neve, il sole e il vento, e tu non sai mai quello che verrà.”

L’ordine infranto è un romanzo commovente, che parla di disperazione, di abbandono, di rotture, di discese, ma anche e soprattutto di forza, di rivelazione, determinazione, passione, amore, generosità, voglia di riscatto e di amicizia.

E’ un libro che pone domande: a cosa si è disposti a rinunciare per trovare il proprio ordine? Per cosa vale la pena lottare? Quali sono le nostre priorità? Chi dice che la vita debba avere per forza un ordine?

Marta ha rischiato tutto, anche la vita, ma il suo ordine infranto l’ha resa migliore.

Buona lettura!



leggi l'articolo integrale su Il passaparola dei libri
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“Infranto l’ordine della mia vita, tentai per un certo tempo di ripristinarlo. Non mi riuscģ. A quell’ordine dovetti rinunciare e allora conobbi la mia forza, scoprendomi pił solida di quanto avessi immaginato”

di Cristina Costa

“Infranto l’ordine della mia vita, tentai per un certo tempo di ripristinarlo. Non mi riuscì. A quell’ordine dovetti rinunciare e allora conobbi la mia forza, scoprendomi più solida di quanto avessi immaginato”

E’ Marta che parla, una ragazza qualunque, di una famiglia perbene.

Ma da subito si percepisce che qualcosa non quadra, si legge che sotto questa apparente normalità c’è altro.

Marta sembra vivere in bilico, in attesa che qualcosa di brutto possa accadere, non si sente appartenere a ciò che la circonda, la sua vita non la sente sua, è assurdo, lo so, ma spesso le sensazioni dicono molto più delle parole.

Eppure saranno le parole ascoltate per caso, senza volere, che travolgeranno la sua vita, il suo ordine, la famiglia, lo studio, le relazioni con gli altri, tutto va in cortocircuito, si rompe, subisce un arresto.

Marta è costretta a resettare sé stessa.

 

 

 

“Non volevo morire, ma non amavo abbastanza la vita, almeno fino a quando dovetti lottare per salvarmela”

Inizialmente si annienta, si distrugge, si scompone, come in una sorta di big bang esplode e implode insieme, per poi pian piano ricostruirsi, nel corpo e soprattutto nell’anima.

“Un giorno mi vidi riflessa in una vetrina e mi riconobbi a malapena. Resistere fino a che avessi capito che piega dare alla mia vita: questa era la mia priorità”

E lo fa in un campo rom!

Forse è proprio di questo che ha bisogno, ha bisogno di ripartire da zero, di imparare a badare a sé stessa, di lottare per sé stessa, di vedere il mondo con altri occhi, di conquistare i suoi spazi, e non di dover contare sempre su qualcuno. Nel campo di Zaclina, Marta capisce cosa vuol diventare da grande, impara a rendersi utile, mette a frutto le sue conoscenze, conquista la fiducia degli altri grazie ai suoi meriti.

Marta impara a convivere con la fame e il freddo e lo sporco.

Nel campo riconquista il senso di appartenenza, che non ha mai sentito in famiglia.

E’ sicuramente una gagè con un futuro incerto, ma con loro ritrova la sua forza e si sente finalmente orgogliosa di sé.

Si toglie tutte quelle sovrastrutture e condizionamenti che le hanno imposto e impara a vivere anche di emozioni.

L’autrice mi ha raccontato una comunità, con le sue regole, le sue gerarchie, il suo modo di vivere e spesso sopravvivere, le sue tradizioni, i suoi riti ancestrali, le sue passioni, i colori, la musica.

Un mondo che viene descritto con tanto realismo e verità, nei suoi lati luminosi e in quelli oscuri.

 

 

 

“Il concetto di tempo per i rom è legato all’esperienza del presente, non c’è progettualità dell’esistenza. Un anziano del clan mi disse una volta che la differenza tra un rom e un gagè è la stessa che passa tra l’orologio e il tempo: l’orologio segna i secondi, i minuti, le ore, e tu sei certo che dopo le tre vengano le quattro, e poi le cinque., Il tempo invece è la pioggia, la neve, il sole e il vento, e tu non sai mai quello che verrà.”

L’ordine infranto è un romanzo commovente, che parla di disperazione, di abbandono, di rotture, di discese, ma anche e soprattutto di forza, di rivelazione, determinazione, passione, amore, generosità, voglia di riscatto e di amicizia.

E’ un libro che pone domande: a cosa si è disposti a rinunciare per trovare il proprio ordine? Per cosa vale la pena lottare? Quali sono le nostre priorità? Chi dice che la vita debba avere per forza un ordine?

Marta ha rischiato tutto, anche la vita, ma il suo ordine infranto l’ha resa migliore.

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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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