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Quel legame di sangue fra odio e confini
Il Diario online di martedì 20 dicembre 2022
Uno scrittore catapultato, quasi per sbaglio, nel cratere ancora fumante di una guerradichiarata da poco conclusa ma che, come un incendio difficile da domare completamente, inrealtà si trascina per autocombustione in tanti focolai sparsi lungo le aree di confine...

di Valerio Di Donato
Uno scrittore catapultato, quasi per sbaglio, nel cratere ancora fumante di una guerradichiarata da poco conclusa ma che, come un incendio difficile da domare completamente, inrealtà si trascina per autocombustione in tanti focolai sparsi lungo le aree di confine, dove piùradicate restano le tensioni. Una guerra naturalmente orrenda, naturalmente drammatica,naturalmente insensata, come lo è ogni conflitto che vede nelle popolazioni civili le sue principali vittime.Ma quella che, nei primi mesi del 1996, incrocia la vita di Bruno Lednaz, ha la particolarità di bruciare scoriee – insieme – di preparare nuove miscele esplosive, appena al di là della porta di casa. Appena oltre Trieste.Fra la Croazia nazionalista di Tudjman e la Bosnia-Erzegovina pacificata a forza dagli accordi di Dayton. Citroviamo nella piccola galassia jugoslava, unico angolo dell’Est ex comunista incapace di una transizioneconcorde e concordata verso la democrazia.
Il viaggio che Diego Zandel propone, trent’anni dopo, con la ripubblicazione del romanzo “I confini dell’odio”(Gammarò edizioni 2022, pp. 168, euro 18,00), non è però un semplice invito a non dimenticare un passatoche si ostina a non finire mai (come dimostrano gli allarmi secessionisti giunti un anno fa dalla Bosnia enelle scorse settimane dal Kosovo), e neppure un cedimento al pessimismo dei cicli storici che si ripetonoimplacabilmente. E’, piuttosto, un monito ad andare oltre le apparenze dei patriottismi contrapposti. E’,anche, un inno al senso di umanità e all’amore che riescono a fiorire anche nei peggiori scenari di terrore edistruzione. Le guerre balcaniche degli anni Novanta, cellule impazzite nel corpo del comunismo morto dopoil 1989, hanno ancora molto da insegnare oggi, a conflitto russo-ucraino in corso.
E Zandel, figlio di una terra di confine storicamente importante e contrastata come Fiume, crocevia framondo tedesco-ungherese, italiano e slavo, lo sa bene.La biografia di Bruno Lednaz, arrivato nel capoluogodel Quarnaro dall’Italia con la salma del padre esule fiumano che aveva espresso il desiderio di esseresepolto là dove era nato, ricalca in parte la storia famigliare di Diego Zandel, nato in un campo profughidelle Marche dopo la fuga dei genitori da Fiume, diventata una città jugoslava. Ed è proprio la profondaconoscenza di una realtà tanto complessa, unita alle periodiche frequentazioni dei parenti rimasti a viverenella zona, che consente allo scrittore vero Diego di trasferirsi, con un naturale transfer psicologico, nelloscrittore immaginario Bruno. I due scrittori – o lo scrittore sdoppiato in due – scoprono, così, insieme, tuttele contraddizioni della pace apparenteimposta dagli americani a croati, serbi e bosgnacchi (i bosniacimusulmani).
La trama incalzante in cui Bruno si trova trascinato, di punto in bianco, accompagnando il marito di unacugina fiumana in una sperduta località al confine fra Croazia e Bosnia per sistemare una normale faccendadi famiglia, consente all’autore di illuminare gli aspetti più sconcertanti e le pratiche più torbide e vili messein atto nelle guerre balcaniche. Come le spedizioni punitive in questo o quel villaggio per “fargliela pagare”alla vittima di turno – solitamente donne o vecchi isolati e indifesi – croata, serba o musulmana che sia.Come il ricorso sistematico – e devastante – allo stupro etnico delle donne dell’etnia avversa, in cui si sonoparticolarmente distinti i serbi ai danni delle donne musulmane. O come l’inconfessabile business del trafficodi armi, l’unica attività in cui neppure l’odio e il disprezzo reciproco ha mai impedito il saldarsi di feconde“fratellanze criminali” fra nemici.
In questo coacervo di regolamenti di conti rimasti in sospeso e affari sporchi in vista di nuovi conflittinell’area jugoslava, Diego Zandel riesce a tratteggiare con efficace nettezza i diversi ruoli e profili deipersonaggi, come pure a inchiodare alla loro responsabilità politici e istituzioni. Ci sono i paramilitari, ferocimanovali al servizio dei signori della guerra per sbrigare il lavoro sporco (razzie, massacri, pulizie etniche),ma anche i combattenti idealisti nel nome della patria. O semplicemente i difensori dell’umanità più debole.Bruno è fra questi. Inorridisce davanti alle violenze e agli abusi ai quali assiste e che cerca, quando e comepuò, di impedire. C’è, nella sua ambigua posizione, anche la Sfor, la Forza multinazionale della Natoincaricata di sorvegliare sull’applicazione degli Accordi di Dayton, che rigide regole di ingaggio rendono difrequente un’arma spuntata.
“I confini dell’odio” è un libro d’azione, dalla prima all’ultima pagina. Sa prendere il lettore con un ritmoincalzante e asciutto. Ma è anche un libro di riflessione. Di partecipazione emotiva ai drammi individuali chesi consumano nella grande tragedia collettiva della guerra. Bruno (alias Diego) soffre davanti al profondotrauma psicologico e affettivo che colpisce il suo compagno d’avventura Boris, pilota delle forze specialicroate, quando viene a scoprire chi è veramente e come agisce il padre, alto papavero del governo diZagabria. “Mio padre. Porto tutte le sue colpe. Altro che guerra patriottica!”, urla a un certo punto,disperandosi, il giovane pilota.
Bruno si immedesima nell’angoscia e nell’orgoglio ferito di Zlata, una bella ragazza bosniaca musulmana,che si rifiuta di prostituirsi ai mercanti d’armi riunitisi in una base segreta in Croazia. Bruno si indigna per lavacua prosopopea e l’umiliante inettitudine dei soldati della Sfor, di presidio a Mostar – divisa fra parteOvest croata ed Est musulmana – ai quali Bruno, Boris e Zlata chiedono protezione dopo una rocambolescafuga fra le montagne. Bruno si commuove per la generosità della gente più umile, che ti allunga la manoper salvarti nei momenti di massimo pericolo, senza nulla chiedere in cambio. “
Zbogom
, addio”, saluta congli occhi umidi il pescatore dalmata Grga, abbracciandolo come un padre, prima di confondersi nella mareadi profughi che attendono l’imbarco per Fiume.
I confini alimentano l’odio, certo. Ma anche l’odio rafforza i confini trasformandoli in barriere ostili. Ilpassato che rimanda ai Balcani ce lo ricorda. Il presente che ci sbatte in faccia giorno dopo giorno, dal 24febbraio scorso, il dramma dell’Ucraina, ne è la conferma. Ieri come oggi, sono i confini, fisici e mentali, ipeggiori nemici della pace.


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Uno scrittore catapultato, quasi per sbaglio, nel cratere ancora fumante di una guerradichiarata da poco conclusa ma che, come un incendio difficile da domare completamente, inrealtà si trascina per autocombustione in tanti focolai sparsi lungo le aree di confine...

di Valerio Di Donato
Uno scrittore catapultato, quasi per sbaglio, nel cratere ancora fumante di una guerradichiarata da poco conclusa ma che, come un incendio difficile da domare completamente, inrealtà si trascina per autocombustione in tanti focolai sparsi lungo le aree di confine, dove piùradicate restano le tensioni. Una guerra naturalmente orrenda, naturalmente drammatica,naturalmente insensata, come lo è ogni conflitto che vede nelle popolazioni civili le sue principali vittime.Ma quella che, nei primi mesi del 1996, incrocia la vita di Bruno Lednaz, ha la particolarità di bruciare scoriee – insieme – di preparare nuove miscele esplosive, appena al di là della porta di casa. Appena oltre Trieste.Fra la Croazia nazionalista di Tudjman e la Bosnia-Erzegovina pacificata a forza dagli accordi di Dayton. Citroviamo nella piccola galassia jugoslava, unico angolo dell’Est ex comunista incapace di una transizioneconcorde e concordata verso la democrazia.
Il viaggio che Diego Zandel propone, trent’anni dopo, con la ripubblicazione del romanzo “I confini dell’odio”(Gammarò edizioni 2022, pp. 168, euro 18,00), non è però un semplice invito a non dimenticare un passatoche si ostina a non finire mai (come dimostrano gli allarmi secessionisti giunti un anno fa dalla Bosnia enelle scorse settimane dal Kosovo), e neppure un cedimento al pessimismo dei cicli storici che si ripetonoimplacabilmente. E’, piuttosto, un monito ad andare oltre le apparenze dei patriottismi contrapposti. E’,anche, un inno al senso di umanità e all’amore che riescono a fiorire anche nei peggiori scenari di terrore edistruzione. Le guerre balcaniche degli anni Novanta, cellule impazzite nel corpo del comunismo morto dopoil 1989, hanno ancora molto da insegnare oggi, a conflitto russo-ucraino in corso.
E Zandel, figlio di una terra di confine storicamente importante e contrastata come Fiume, crocevia framondo tedesco-ungherese, italiano e slavo, lo sa bene.La biografia di Bruno Lednaz, arrivato nel capoluogodel Quarnaro dall’Italia con la salma del padre esule fiumano che aveva espresso il desiderio di esseresepolto là dove era nato, ricalca in parte la storia famigliare di Diego Zandel, nato in un campo profughidelle Marche dopo la fuga dei genitori da Fiume, diventata una città jugoslava. Ed è proprio la profondaconoscenza di una realtà tanto complessa, unita alle periodiche frequentazioni dei parenti rimasti a viverenella zona, che consente allo scrittore vero Diego di trasferirsi, con un naturale transfer psicologico, nelloscrittore immaginario Bruno. I due scrittori – o lo scrittore sdoppiato in due – scoprono, così, insieme, tuttele contraddizioni della pace apparenteimposta dagli americani a croati, serbi e bosgnacchi (i bosniacimusulmani).
La trama incalzante in cui Bruno si trova trascinato, di punto in bianco, accompagnando il marito di unacugina fiumana in una sperduta località al confine fra Croazia e Bosnia per sistemare una normale faccendadi famiglia, consente all’autore di illuminare gli aspetti più sconcertanti e le pratiche più torbide e vili messein atto nelle guerre balcaniche. Come le spedizioni punitive in questo o quel villaggio per “fargliela pagare”alla vittima di turno – solitamente donne o vecchi isolati e indifesi – croata, serba o musulmana che sia.Come il ricorso sistematico – e devastante – allo stupro etnico delle donne dell’etnia avversa, in cui si sonoparticolarmente distinti i serbi ai danni delle donne musulmane. O come l’inconfessabile business del trafficodi armi, l’unica attività in cui neppure l’odio e il disprezzo reciproco ha mai impedito il saldarsi di feconde“fratellanze criminali” fra nemici.
In questo coacervo di regolamenti di conti rimasti in sospeso e affari sporchi in vista di nuovi conflittinell’area jugoslava, Diego Zandel riesce a tratteggiare con efficace nettezza i diversi ruoli e profili deipersonaggi, come pure a inchiodare alla loro responsabilità politici e istituzioni. Ci sono i paramilitari, ferocimanovali al servizio dei signori della guerra per sbrigare il lavoro sporco (razzie, massacri, pulizie etniche),ma anche i combattenti idealisti nel nome della patria. O semplicemente i difensori dell’umanità più debole.Bruno è fra questi. Inorridisce davanti alle violenze e agli abusi ai quali assiste e che cerca, quando e comepuò, di impedire. C’è, nella sua ambigua posizione, anche la Sfor, la Forza multinazionale della Natoincaricata di sorvegliare sull’applicazione degli Accordi di Dayton, che rigide regole di ingaggio rendono difrequente un’arma spuntata.
“I confini dell’odio” è un libro d’azione, dalla prima all’ultima pagina. Sa prendere il lettore con un ritmoincalzante e asciutto. Ma è anche un libro di riflessione. Di partecipazione emotiva ai drammi individuali chesi consumano nella grande tragedia collettiva della guerra. Bruno (alias Diego) soffre davanti al profondotrauma psicologico e affettivo che colpisce il suo compagno d’avventura Boris, pilota delle forze specialicroate, quando viene a scoprire chi è veramente e come agisce il padre, alto papavero del governo diZagabria. “Mio padre. Porto tutte le sue colpe. Altro che guerra patriottica!”, urla a un certo punto,disperandosi, il giovane pilota.
Bruno si immedesima nell’angoscia e nell’orgoglio ferito di Zlata, una bella ragazza bosniaca musulmana,che si rifiuta di prostituirsi ai mercanti d’armi riunitisi in una base segreta in Croazia. Bruno si indigna per lavacua prosopopea e l’umiliante inettitudine dei soldati della Sfor, di presidio a Mostar – divisa fra parteOvest croata ed Est musulmana – ai quali Bruno, Boris e Zlata chiedono protezione dopo una rocambolescafuga fra le montagne. Bruno si commuove per la generosità della gente più umile, che ti allunga la manoper salvarti nei momenti di massimo pericolo, senza nulla chiedere in cambio. “
Zbogom
, addio”, saluta congli occhi umidi il pescatore dalmata Grga, abbracciandolo come un padre, prima di confondersi nella mareadi profughi che attendono l’imbarco per Fiume.
I confini alimentano l’odio, certo. Ma anche l’odio rafforza i confini trasformandoli in barriere ostili. Ilpassato che rimanda ai Balcani ce lo ricorda. Il presente che ci sbatte in faccia giorno dopo giorno, dal 24febbraio scorso, il dramma dell’Ucraina, ne è la conferma. Ieri come oggi, sono i confini, fisici e mentali, ipeggiori nemici della pace.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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