Fiume, alcuni mesi dopo l’accordo di Dayton del 1995. Lo scrittore Bruno Lednaz accompagna la salma di suo padre che, gravemente malato, aveva espresso il desiderio di essere sepolto là dov’era nato, a Fiume, appunto, a quei tempi italiana. Bruno, giunto nella città, ora croata, scopre di dover attendere, forse a lungo, un posto al cimitero, prima di poter dare sepoltura al genitore. Accetta allora di accompagnare Srećko, marito di una sua cugina, a Gospić, capoluogo della regione della Lika, sempre in Croazia ma in parte ancora sotto il controllo dei Serbi. E qui la guerra non è ancora finita, lo testimoniano gli amici di Srećko, bellicosi compagni di viaggio in divisa e mimetica. Bruno si trova, suo malgrado, catapultato in mezzo alle violenze e ai pericoli di un conflitto non spento. Dalla scoperta di un bunker in cui sono accatastate armi e munizioni di ogni tipo in gran quantità, al rombo e alla distruzione provocati da un colpo di cannone, Bruno deve fare tesoro di tutto il suo coraggio, senza abbandonare quel po’ di lucidità che la tensione e la paura gli consentono. I suoi compagni, invece, sono avvezzi a quella guerra infinita e i loro animi sono induriti dagli eventi crudeli a cui hanno assistito e di cui sono stati protagonisti. Li corrobora e li sostiene la bottiglia di slivovica, la tipica e diffusa acquavite a base di prugne, insieme al sentimento mai sopito di appartenenza etnica che alimenta il loro odio nei confronti dei serbi. Così il gruppo si muove proprio verso la casa di una famiglia serba, risparmiata dal cannoneggiamento, che, senza remora alcuna, distrugge e saccheggia, spingendo la violenza fino allo stupro. Srećko non partecipa all’azione ed è subito consapevole del fatto che, nella mente e nel giudizio di Bruno, quel fatto non depone certo “a favore della causa croata a cui anche lui, come tutti, era devoto”…
Già uscito per Aragno editore nel 2002, questo romanzo ci riporta, nell’anno del suo trentennale, alla guerra nella ex Jugoslavia restituendone, come nota Andrea De Consoli nella presentazione, “con crudo e sorvegliato realismo voci, corpi, odori, suoni gesti”. Zandel, profondo conoscitore dei Balcani e co-autore del documentario di Rai Cinema Hotel Sarajevo, è nato da genitori fiumani esuli ed è cresciuto al Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Elementi autobiografici sono dunque presenti e vivi in questa come in altre sue opere. Addirittura, come ebbe a notare Raffaele Nigro in un suo articolo, Zandel dà al protagonista un cognome che è l’anagramma del suo. Bruno Lednaz, uomo colto, tranquillo, vissuto sempre in una dimensione ben lontana dall’odio etnico e dalle sue conseguenze, si trova ora catapultato nel mezzo di un conflitto duro, crudele, alieno da qualsiasi regola e da ogni sentimento di pietà, nel quale spesso il crimine è di inaudita e crudele gratuità. Bruno vive il conflitto dentro di sé, lo riconduce alla sua storia familiare, lo nutre nella mente, lo avverte nell’immediatezza dei suoi sentimenti. Gli tornano lucidi in mente episodi dell’infanzia, come la domanda che rivolgeva talvolta alla nonna: “Sei italiana o slava?”. E lei gli rispondeva: “Sono istriana”, ribadendo così la sua essenza, italiana e slava insieme. Lei, che parlava al nipotino in croato, donandogli la capacità di comprendere e di esprimersi in quella lingua, avrebbe mai immaginato che un giorno, in futuro, divenuto uomo quel bambino, la lingua dell’ava gli avrebbe consentito di sentirsi meno insicuro e meno impaurito, donandogli qualche conforto in una tragica situazione di guerra? I confini dell’odio, un bel romanzo in cui la biografia si fa storia, ci riserva, in chiusura, una sorpresa, un finale inatteso.
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