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I segreti di Mino Milani: gli scatti rubati, il «barcé» delle fughe sul Ticino, il rugby, i gatti e i memorabilia di Garibaldi
Corriere.it di domenica 19 febbraio 2023
A un anno dalla scomparsa del grande narratore setacciato l’archivio con migliaia di documenti. Le nipoti svelano il lato inedito del Salgari pavese

di Eleonora Lanzetti
I segreti di Mino Milani: gli scatti rubati, il «barcé» delle fughe sul Ticino, il rugby, i gatti e i memorabilia di Garibaldi

Mino Milani (foto di Marcella Milani)

Si apre il baule dei ricordi di Mino Milani. Fotografie inedite, scritti e tavole riemergono a un anno dalla morte del «Salgari pavese» scomparso all’età di 94 anni. L’archivio è ricavato nel giardino della sua casa museo in piazza San Pietro in Ciel d’Oro, a Pavia, e svela ora cimeli e materiale raccolto, catalogato e setacciato (i documenti sono migliaia) dalle nipoti Marcella e Maria Piera Milani. Questo, in parte, sarà il contenuto di un libro e di una mostra («Mino Milani dall’archivio di famiglia») che inaugurerà al Salone Teresiano della Biblioteca universitaria MiC il 24 febbraio. Un viaggio nella straordinaria vita dello scrittore mancato il 10 febbraio 2022: diari, tavole storiche, racconti a puntate per il Corriere dei Piccoli, letture e memorabilia svelano un Milani finora poco noto. Un’occasione per lettori e visitatori per scoprire aneddoti e curiosità, come la passione per la voga sul Ticino e quel barcé (l’imbarcazione stretta tipica pavese) a cui Mino aveva dato un nome, Piccolo Pèr; o l’amore per gli animali — gatti soprattutto — diventati personaggi di romanzi e novelle. Non solo. 

Mino Milani amava giocare a rugby, macinava film western in serate dedicate con gli amici, collezionava oggetti strambi purché avessero a che fare con Garibaldi e scalava cime dolomitiche. E poi quel rapporto speciale con gli affetti di casa e i luoghi simbolo: «il rifugio dell’anima» in Val Badia e la casa in collina, a Castana, la sua «Fort Apache», una grande proprietà con un vigneto, costruita con i proventi delle vendite di Tommy River, tra i suoi capolavori, nel 1968. Nelle immagini scattate in quegli anni, recuperate dalle sue raccolte, ci sono ritratti di amici e colleghi, insieme nei pomeriggi di primavera: Josè Pellegrini, direttora del Corrierino dal ’77 all’81, e gli illustratori Grazia Nidasio e Aldo di Gennaro, che con Milani ha lavorato fianco a fianco, per anni. «Durante la giornata non lo vedevo mai. Arrivava in redazione e si sentiva solo il ticchettio della macchina da scrivere — ha raccontato di Gennaro —. Scriveva sempre, incessantemente. Spuntava soltanto la sera prima di fare rientro a Pavia». Quella stessa macchina, pesantissima, usata al Corriere, fa ora parte degli oggetti da museo che sempre resteranno tra le pareti colme di libri del suo studio, presenti nel percorso espositivo, assieme a ritratti di famiglia, cimeli personali, arredi e contributi artistici come le dodici tavole realizzate dal maestro Marco Giusfredi e le riproduzioni delle opere di ventidue artisti internazionali.


 
 

 «Poco dopo la scomparsa di Mino la nostra famiglia ha dato vita a un progetto di recupero e valorizzazione di questo prezioso patrimonio fatto di tavole, disegni e fumetti, e ha fondato l’associazione Amici di Mino Milani — raccontano le nipoti, figlie del fratello Puccio —. Abbiamo pensato di omaggiare la figura dello scrittore, ma anche dell’uomo, con iniziative diverse: un libro fotografico-narrativo con la prefazione di Ferruccio de Bortoli; la mostra; un docufilm a cura del videomaker Marco Rognoni e dello scrittore Armando Barone (titolo “Mino Milani inedito”, ndr) e visite guidate nei luoghi dei suoi romanzi». Leggere il libro e visitare la mostra sarà come sedersi accanto alla poltrona di Milani, in quello studio sempre aperto a chiunque, e poi ascoltare racconti e avventure.

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Corriere.it - domenica 19 febbraio 2023
A un anno dalla scomparsa del grande narratore setacciato l’archivio con migliaia di documenti. Le nipoti svelano il lato inedito del Salgari pavese

di Eleonora Lanzetti
I segreti di Mino Milani: gli scatti rubati, il «barcé» delle fughe sul Ticino, il rugby, i gatti e i memorabilia di Garibaldi

Mino Milani (foto di Marcella Milani)

Si apre il baule dei ricordi di Mino Milani. Fotografie inedite, scritti e tavole riemergono a un anno dalla morte del «Salgari pavese» scomparso all’età di 94 anni. L’archivio è ricavato nel giardino della sua casa museo in piazza San Pietro in Ciel d’Oro, a Pavia, e svela ora cimeli e materiale raccolto, catalogato e setacciato (i documenti sono migliaia) dalle nipoti Marcella e Maria Piera Milani. Questo, in parte, sarà il contenuto di un libro e di una mostra («Mino Milani dall’archivio di famiglia») che inaugurerà al Salone Teresiano della Biblioteca universitaria MiC il 24 febbraio. Un viaggio nella straordinaria vita dello scrittore mancato il 10 febbraio 2022: diari, tavole storiche, racconti a puntate per il Corriere dei Piccoli, letture e memorabilia svelano un Milani finora poco noto. Un’occasione per lettori e visitatori per scoprire aneddoti e curiosità, come la passione per la voga sul Ticino e quel barcé (l’imbarcazione stretta tipica pavese) a cui Mino aveva dato un nome, Piccolo Pèr; o l’amore per gli animali — gatti soprattutto — diventati personaggi di romanzi e novelle. Non solo. 

Mino Milani amava giocare a rugby, macinava film western in serate dedicate con gli amici, collezionava oggetti strambi purché avessero a che fare con Garibaldi e scalava cime dolomitiche. E poi quel rapporto speciale con gli affetti di casa e i luoghi simbolo: «il rifugio dell’anima» in Val Badia e la casa in collina, a Castana, la sua «Fort Apache», una grande proprietà con un vigneto, costruita con i proventi delle vendite di Tommy River, tra i suoi capolavori, nel 1968. Nelle immagini scattate in quegli anni, recuperate dalle sue raccolte, ci sono ritratti di amici e colleghi, insieme nei pomeriggi di primavera: Josè Pellegrini, direttora del Corrierino dal ’77 all’81, e gli illustratori Grazia Nidasio e Aldo di Gennaro, che con Milani ha lavorato fianco a fianco, per anni. «Durante la giornata non lo vedevo mai. Arrivava in redazione e si sentiva solo il ticchettio della macchina da scrivere — ha raccontato di Gennaro —. Scriveva sempre, incessantemente. Spuntava soltanto la sera prima di fare rientro a Pavia». Quella stessa macchina, pesantissima, usata al Corriere, fa ora parte degli oggetti da museo che sempre resteranno tra le pareti colme di libri del suo studio, presenti nel percorso espositivo, assieme a ritratti di famiglia, cimeli personali, arredi e contributi artistici come le dodici tavole realizzate dal maestro Marco Giusfredi e le riproduzioni delle opere di ventidue artisti internazionali.


 
 

 «Poco dopo la scomparsa di Mino la nostra famiglia ha dato vita a un progetto di recupero e valorizzazione di questo prezioso patrimonio fatto di tavole, disegni e fumetti, e ha fondato l’associazione Amici di Mino Milani — raccontano le nipoti, figlie del fratello Puccio —. Abbiamo pensato di omaggiare la figura dello scrittore, ma anche dell’uomo, con iniziative diverse: un libro fotografico-narrativo con la prefazione di Ferruccio de Bortoli; la mostra; un docufilm a cura del videomaker Marco Rognoni e dello scrittore Armando Barone (titolo “Mino Milani inedito”, ndr) e visite guidate nei luoghi dei suoi romanzi». Leggere il libro e visitare la mostra sarà come sedersi accanto alla poltrona di Milani, in quello studio sempre aperto a chiunque, e poi ascoltare racconti e avventure.

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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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