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*La catena spezzata* di Giorgetta Dorfles
Chiara Ricci di martedě 21 febbraio 2023
La Rubrica online “Piazza Navona” ha letto per voi La catena spezzata di Giorgetta Dorfles (Gammarň Edizioni). Un’antologia di racconti i cui protagonisti narrano la complessitŕ della vita ma anche il potere curativo di una carezza sull’anima. E non perdete l’Incontro con l’Autrice!

di Chiara Ricci
Sedici racconti ambientati sullo sfondo della città di Trieste narrano di altrettante e più esistenze che si
ritrovano a dove fare i conti con la lotta del vivere e la sua complessità. Non è un caso, infatti, che l’antologia
prenda il nome proprio da uno dei racconti ovvero La catena spezzata. In questi racconti tutte le vicende,
tutti i personaggi si trovano ad aver tra le mani una catena spezzata, una vite, una relazione o un legame
interrotti ma anche una vita arrivata a determinato momento da chiudere in attesa di un cambiamento
voluto, subito o necessario.
Giorgetta Dorfles riesce con grande delicatezza a narrare di questi animi turbati e precari che, pur
nella loro fragilità, manifesta sono di un coraggio e di una forza incalcolabili. Tutti i protagonisti di queste sedici
storie devono fare i conti con sé stessi, con le loro vite, le loro scelte, le loro decisioni prese o mancate.
Azzardate e coraggiose. Tutti affrontano il loro presente senza fuggire dimostrando ancora un coraggio da
leoni. Tanto nella passione quanto nella razionalità. Una dicotomia questa assai presente nei racconti di La
catena spezzata. E l’Autrice con la sua profonda sensibilità riesce a spingersi oltre il profondo animo
delle sue creature e delle loro storie che sembra conoscere così bene e a fondo da sembrare una voce inserita e
melodiosa di questo coro di vite ed esperienze.
La presenza d’animo della scrittrice, però, non deve trarre in inganno il Lettore poiché essa non risulta mai
invadente nei suoi riguardi ma sua complice e confidente. Una presenza/assenza di grande poesia e
importanza. Ciò lo si nota soprattutto in quei racconti dove con dolcezza e tenerezza narra della malattia sia
di un genitore e del rapporto che viene a (ri)crearsi o modificarsi tra questo e la sua prole sia di un uomo che
vedendosi impotente davanti all’ineluttabilità del male (pure se non accertato) decide di farla finita. Nel primo
caso la pudicizia, il non detto, gli sguardi narrati, i pensieri dall’uno e l’altro verso mostrano le difficoltà reali di una realtà vera, autentica, possibile, più o meno accettabile per il suo dolore e per tutto ciò che da questi
rapporti non è arrivato né nato. Nel secondo, invece, resta tanto rispetto e il dovere naturale di non giudicare.
Solo di “osservare” e capire.
Da qui non appare difficile comprendere perché l’Autrice abbia deciso di chiudere la sua antologia con il breve
racconto La cura in cui una giovane donna bionda estrae dal mare una piccola lumaca di mare e sembra
riversare su quest’ultima tutte le attenzioni e le carezze possibili. Tanto che l’osservatore di questa scena inizia a
chiedersi cos’è la cura, in cosa consiste, da dove deriva soprattutto quando, come in questo caso, si traduce in
attenzioni non richieste ma donate, elargite così… spontaneamente senza poterne avere nulla in cambio.
Forse questo atteggiamento è solo un modo di recuperare tutte quelle attenzioni non date quando era il
momento di donarle? Magari a un genitore malato o a un affetto in difficoltà… chissà.
Eppure è in questi semplici e incondizionati gesti che si nasconde tutto il senso della vita e anche
dell’antologia di Giorgetta Dorfles. Forse, nella vita l’unica cosa che davvero conta è l’amore in ogni sua
forma, manifestazione ed esternazione. Forse quell’attenzione in più, quella carezza o quello sguardo in più
possono fare la differenza. Forse la catena si spezzerà comunque e comunque richiederà un nuovo nodo da
fare e tanto lavoro per crearlo. Forse, però, la vita così può assumere un diverso senso e un più profondo
significato che si traducono in un continuo e perpetuo modo di cambiamento.
Ma nonostante la nostra meschina conformazione, mi piace pensare che ci sia qualcuno che osserva quei
miseri granelli di universo con lo stesso sguardo tenero e intenso, abbia cura di noi in modo imperscrutabile e,
con pazienza infinita, attenda che ci decidiamo a uscire dal nostro guscio per guardare al mondo e a noi stessi
con rinnovata consapevolezza. La giornata al mare è finita, dò una ultima occhiata alla fanciulla che coccola
la conchiglia appoggiata sulla coscia.
Ed è proprio questa coccola e, quindi, questa cura che Giorgetta Dorfles dona al suo Lettore. Con onestà,
delicatezza e sincerità. La sua scrittura così autentica e precisa lo dimostra.

Incontro con l’Autrice

Come è avvenuto il suo incontro con la scrittura?
Forse il fatto di essere stata avviata alla lettura fin da bambina mi ha suggerito la possibilità di poter creare
anch’io delle storie. Infatti già da adolescente avevo iniziato a comporre delle poesie, che la poetessa triestina
Lina Galli aveva apprezzato, incoraggiandomi a continuare. I racconti sono arrivati più tardi, quando
ormai avevo varie esperienze di vita da cui trarre ispirazione.

Come è nato il progetto editoriale di La catena spezzata?
È stato in certo senso un prodotto della pandemia. Visto l’isolamento coatto ho pensato di ripescare dei
vecchi racconti per rielaborarli, scegliendo quelli che più aderivano a quel clima plumbeo, anche se non è
stato difficile… A quel punto per farne una raccolta dovevo aggiungerne altri. Il tema doveva restare
impostato su una chiave di basso e proprio il titolo di uno dei racconti, La catena spezzata appunto, mi
ha dato la traccia su cui proseguire.

Tra quelli contenuti ne La catena spezzata, qual è stato il racconto più complesso da ideare e
tradurre su carta? E perché?
Penso il racconto Canzoncine, che descrive gli ultimi anni del rapporto con mia madre, ormai segnata
dalla demenza senile. Intanto, dovendo rivivere dei momenti molto intensi emotivamente, non volevo
cadere nel patetico o nel morboso. Era anche difficile mantenere un equilibrio fra la descrizione del
decadimento mentale e la volontà di restituirle la sua dignità, nonostante tutto. Ho voluto mantenere un
punto di vista abbastanza distaccato, anche se ero direttamente coinvolta, per non cadere in una pura
autobiografia, senza valenze letterarie.

Tra i protagonisti di La catena spezzata vi è anche la città di Trieste. In che modo è stata
influenzata ma anche ispirata da questa sua amata città?
Poiché l’identità di Trieste è stata spezzata dalla storia rientrava perfettamente fra i vari personaggi. Una
città in bilico su un confine labile e minaccioso non può che stampare sui suoi abitanti un imprinting di
instabilità, se poi ci aggiungiamo l’impatto dirompente della bora non è strano che i triestini vengano
considerati dei mezzi matti. Per fortuna Basaglia è venuto a curarli e ad aprire le porte del manicomio, così i
matti sono stati liberati e sono potuti entrare anche nei miei racconti. Scherzi a parte, alcuni personaggi in
bilico fra normalità e follia derivano dalla mia frequentazione come volontaria in alcune strutture
legate alla nuova psichiatria.

Nei suoi racconti assai presenti sono il simbolico, l’onirico assieme a una profonda attenzione
per la psicologia dei personaggi. Qual è stata la difficoltà maggiore che ha riscontrato nel
rendere tutto questo attraverso uno stile armonioso e musicale?
Il mio modo di scrivere funziona in questo modo: lascio in sospeso un abbozzo di traccia, poi le parole e le
situazioni giuste compaiono da sole, spesso mentre cammino o alla mattina al risveglio, quindi non c’è
nessuna intenzione a priori di ottenere un determinato effetto. L’impostazione del racconto s’impone da
sola: è la magia della scrittura. L’unica fatica perciò sta nelle rifiniture e nelle varie revisioni a distanza
di tempo. Per approfondire l’aspetto psicologico dei personaggi posso dire che sono stata aiutata dai vari corsi
che ho fatto sul tema, compreso un diploma di Counseling acquisito in una scuola di psicoterapia.

C’è qualcosa che vorrebbe ancora “dire” a uno o più protagonisti della sua raccolta di racconti?
Non credo di avere taciuto qualcosa ai miei personaggi. Forse potrei dire a Cassandra di smettere di
prevedere alcunché e di affidarsi allo scorrere della vita.

Il suo essere fotografa e sceneggiatrice ha influenzato l’impostazione e la struttura dei suoi
racconti?
Suppongo che il fatto di aver acquisito una certa padronanza della scrittura attraverso il lavoro può aver
giovato anche alla creatività. Quanto alla fotografia, il fatto di riuscire a individuare un’inquadratura di per
sé significante anche in senso simbolico, può avermi instradato verso una scrittura che sappia incidere nella
realtà ma anche suggerirne le dimensioni nascoste.

Lei è giornalista, poetessa, sceneggiatrice, autrice di racconti e di romanzi. In quale stile e
genere di scrittura sente di essere più a suo agio? E perché?
Siccome amo esprimermi in modo sintetico, e non so dilungarmi troppo nelle descrizioni, sicuramente la
poesia e i racconti sono il mio registro più congeniale. D’altro canto nel giornalismo ho potuto esplicare la
mia curiosità verso le persone, intervistando molti personaggi di rilievo, ma anche indagando alcuni
fenomeni del costume con una serie di inchieste, corredando il tutto con delle fotografie.

Non dobbiamo dimenticare anche la sua fotografia: quanto è importante il rapporto tra
immagine e parola?
Per me sono due cose strettamente collegate, infatti nelle mie mostre fotografiche i titoli non erano meno
significativi delle immagini, e anche un mio libro di poesie è “illustrato” dalle mie foto. Per sfruttare ancora
meglio questa connessione, per me naturale, nel 2006 ho realizzato una serie di video poesie dal titolo
Inclusioni, che è stata proiettata in alcune rassegne nazionali.

Quali sono gli Autori e le opere che hanno influenzato e formato il suo essere scrittrice e lettrice?
Penso che le influenze siano perlopiù inconsapevoli, per cui sta alla critica individuarle. Posso descrivere un
po’ a grandi linee il mio percorso di lettrice: da giovane amavo molto Proust, Dostoevskij (identificazione
con L’idiota) e naturalmente Svevo. Fra gli italiani mi hanno probabilmente ispirato Buzzati, Calvino e
Giuseppe Pontiggia. Più recentemente ho scoperto i racconti di Elizabeth Strout e di Anthony Doerr
assieme al piccolo gioiello di Silvio D’Arzo (Casa d’altri); altri autori che ho trovato interessanti possono
essere Colum McCann, Romain Gary e David Foster Wallace.

Quali sono i suoi prossimi impegni professionali ed editoriali?
Come giornalista collaboro a un blog per l’Aris, un’associazione di volontariato che vuol promuovere
l’invecchiamento attivo. Riguardo alla mia produzione ho invece già pronta una nuova silloge di poesie
che devo rivedere; poi inizierò la ricerca di un editore.



leggi l'articolo integrale su Chiara Ricci
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Chiara Ricci - martedě 21 febbraio 2023
La Rubrica online “Piazza Navona” ha letto per voi La catena spezzata di Giorgetta Dorfles (Gammarň Edizioni). Un’antologia di racconti i cui protagonisti narrano la complessitŕ della vita ma anche il potere curativo di una carezza sull’anima. E non perdete l’Incontro con l’Autrice!

di Chiara Ricci
Sedici racconti ambientati sullo sfondo della città di Trieste narrano di altrettante e più esistenze che si
ritrovano a dove fare i conti con la lotta del vivere e la sua complessità. Non è un caso, infatti, che l’antologia
prenda il nome proprio da uno dei racconti ovvero La catena spezzata. In questi racconti tutte le vicende,
tutti i personaggi si trovano ad aver tra le mani una catena spezzata, una vite, una relazione o un legame
interrotti ma anche una vita arrivata a determinato momento da chiudere in attesa di un cambiamento
voluto, subito o necessario.
Giorgetta Dorfles riesce con grande delicatezza a narrare di questi animi turbati e precari che, pur
nella loro fragilità, manifesta sono di un coraggio e di una forza incalcolabili. Tutti i protagonisti di queste sedici
storie devono fare i conti con sé stessi, con le loro vite, le loro scelte, le loro decisioni prese o mancate.
Azzardate e coraggiose. Tutti affrontano il loro presente senza fuggire dimostrando ancora un coraggio da
leoni. Tanto nella passione quanto nella razionalità. Una dicotomia questa assai presente nei racconti di La
catena spezzata. E l’Autrice con la sua profonda sensibilità riesce a spingersi oltre il profondo animo
delle sue creature e delle loro storie che sembra conoscere così bene e a fondo da sembrare una voce inserita e
melodiosa di questo coro di vite ed esperienze.
La presenza d’animo della scrittrice, però, non deve trarre in inganno il Lettore poiché essa non risulta mai
invadente nei suoi riguardi ma sua complice e confidente. Una presenza/assenza di grande poesia e
importanza. Ciò lo si nota soprattutto in quei racconti dove con dolcezza e tenerezza narra della malattia sia
di un genitore e del rapporto che viene a (ri)crearsi o modificarsi tra questo e la sua prole sia di un uomo che
vedendosi impotente davanti all’ineluttabilità del male (pure se non accertato) decide di farla finita. Nel primo
caso la pudicizia, il non detto, gli sguardi narrati, i pensieri dall’uno e l’altro verso mostrano le difficoltà reali di una realtà vera, autentica, possibile, più o meno accettabile per il suo dolore e per tutto ciò che da questi
rapporti non è arrivato né nato. Nel secondo, invece, resta tanto rispetto e il dovere naturale di non giudicare.
Solo di “osservare” e capire.
Da qui non appare difficile comprendere perché l’Autrice abbia deciso di chiudere la sua antologia con il breve
racconto La cura in cui una giovane donna bionda estrae dal mare una piccola lumaca di mare e sembra
riversare su quest’ultima tutte le attenzioni e le carezze possibili. Tanto che l’osservatore di questa scena inizia a
chiedersi cos’è la cura, in cosa consiste, da dove deriva soprattutto quando, come in questo caso, si traduce in
attenzioni non richieste ma donate, elargite così… spontaneamente senza poterne avere nulla in cambio.
Forse questo atteggiamento è solo un modo di recuperare tutte quelle attenzioni non date quando era il
momento di donarle? Magari a un genitore malato o a un affetto in difficoltà… chissà.
Eppure è in questi semplici e incondizionati gesti che si nasconde tutto il senso della vita e anche
dell’antologia di Giorgetta Dorfles. Forse, nella vita l’unica cosa che davvero conta è l’amore in ogni sua
forma, manifestazione ed esternazione. Forse quell’attenzione in più, quella carezza o quello sguardo in più
possono fare la differenza. Forse la catena si spezzerà comunque e comunque richiederà un nuovo nodo da
fare e tanto lavoro per crearlo. Forse, però, la vita così può assumere un diverso senso e un più profondo
significato che si traducono in un continuo e perpetuo modo di cambiamento.
Ma nonostante la nostra meschina conformazione, mi piace pensare che ci sia qualcuno che osserva quei
miseri granelli di universo con lo stesso sguardo tenero e intenso, abbia cura di noi in modo imperscrutabile e,
con pazienza infinita, attenda che ci decidiamo a uscire dal nostro guscio per guardare al mondo e a noi stessi
con rinnovata consapevolezza. La giornata al mare è finita, dò una ultima occhiata alla fanciulla che coccola
la conchiglia appoggiata sulla coscia.
Ed è proprio questa coccola e, quindi, questa cura che Giorgetta Dorfles dona al suo Lettore. Con onestà,
delicatezza e sincerità. La sua scrittura così autentica e precisa lo dimostra.

Incontro con l’Autrice

Come è avvenuto il suo incontro con la scrittura?
Forse il fatto di essere stata avviata alla lettura fin da bambina mi ha suggerito la possibilità di poter creare
anch’io delle storie. Infatti già da adolescente avevo iniziato a comporre delle poesie, che la poetessa triestina
Lina Galli aveva apprezzato, incoraggiandomi a continuare. I racconti sono arrivati più tardi, quando
ormai avevo varie esperienze di vita da cui trarre ispirazione.

Come è nato il progetto editoriale di La catena spezzata?
È stato in certo senso un prodotto della pandemia. Visto l’isolamento coatto ho pensato di ripescare dei
vecchi racconti per rielaborarli, scegliendo quelli che più aderivano a quel clima plumbeo, anche se non è
stato difficile… A quel punto per farne una raccolta dovevo aggiungerne altri. Il tema doveva restare
impostato su una chiave di basso e proprio il titolo di uno dei racconti, La catena spezzata appunto, mi
ha dato la traccia su cui proseguire.

Tra quelli contenuti ne La catena spezzata, qual è stato il racconto più complesso da ideare e
tradurre su carta? E perché?
Penso il racconto Canzoncine, che descrive gli ultimi anni del rapporto con mia madre, ormai segnata
dalla demenza senile. Intanto, dovendo rivivere dei momenti molto intensi emotivamente, non volevo
cadere nel patetico o nel morboso. Era anche difficile mantenere un equilibrio fra la descrizione del
decadimento mentale e la volontà di restituirle la sua dignità, nonostante tutto. Ho voluto mantenere un
punto di vista abbastanza distaccato, anche se ero direttamente coinvolta, per non cadere in una pura
autobiografia, senza valenze letterarie.

Tra i protagonisti di La catena spezzata vi è anche la città di Trieste. In che modo è stata
influenzata ma anche ispirata da questa sua amata città?
Poiché l’identità di Trieste è stata spezzata dalla storia rientrava perfettamente fra i vari personaggi. Una
città in bilico su un confine labile e minaccioso non può che stampare sui suoi abitanti un imprinting di
instabilità, se poi ci aggiungiamo l’impatto dirompente della bora non è strano che i triestini vengano
considerati dei mezzi matti. Per fortuna Basaglia è venuto a curarli e ad aprire le porte del manicomio, così i
matti sono stati liberati e sono potuti entrare anche nei miei racconti. Scherzi a parte, alcuni personaggi in
bilico fra normalità e follia derivano dalla mia frequentazione come volontaria in alcune strutture
legate alla nuova psichiatria.

Nei suoi racconti assai presenti sono il simbolico, l’onirico assieme a una profonda attenzione
per la psicologia dei personaggi. Qual è stata la difficoltà maggiore che ha riscontrato nel
rendere tutto questo attraverso uno stile armonioso e musicale?
Il mio modo di scrivere funziona in questo modo: lascio in sospeso un abbozzo di traccia, poi le parole e le
situazioni giuste compaiono da sole, spesso mentre cammino o alla mattina al risveglio, quindi non c’è
nessuna intenzione a priori di ottenere un determinato effetto. L’impostazione del racconto s’impone da
sola: è la magia della scrittura. L’unica fatica perciò sta nelle rifiniture e nelle varie revisioni a distanza
di tempo. Per approfondire l’aspetto psicologico dei personaggi posso dire che sono stata aiutata dai vari corsi
che ho fatto sul tema, compreso un diploma di Counseling acquisito in una scuola di psicoterapia.

C’è qualcosa che vorrebbe ancora “dire” a uno o più protagonisti della sua raccolta di racconti?
Non credo di avere taciuto qualcosa ai miei personaggi. Forse potrei dire a Cassandra di smettere di
prevedere alcunché e di affidarsi allo scorrere della vita.

Il suo essere fotografa e sceneggiatrice ha influenzato l’impostazione e la struttura dei suoi
racconti?
Suppongo che il fatto di aver acquisito una certa padronanza della scrittura attraverso il lavoro può aver
giovato anche alla creatività. Quanto alla fotografia, il fatto di riuscire a individuare un’inquadratura di per
sé significante anche in senso simbolico, può avermi instradato verso una scrittura che sappia incidere nella
realtà ma anche suggerirne le dimensioni nascoste.

Lei è giornalista, poetessa, sceneggiatrice, autrice di racconti e di romanzi. In quale stile e
genere di scrittura sente di essere più a suo agio? E perché?
Siccome amo esprimermi in modo sintetico, e non so dilungarmi troppo nelle descrizioni, sicuramente la
poesia e i racconti sono il mio registro più congeniale. D’altro canto nel giornalismo ho potuto esplicare la
mia curiosità verso le persone, intervistando molti personaggi di rilievo, ma anche indagando alcuni
fenomeni del costume con una serie di inchieste, corredando il tutto con delle fotografie.

Non dobbiamo dimenticare anche la sua fotografia: quanto è importante il rapporto tra
immagine e parola?
Per me sono due cose strettamente collegate, infatti nelle mie mostre fotografiche i titoli non erano meno
significativi delle immagini, e anche un mio libro di poesie è “illustrato” dalle mie foto. Per sfruttare ancora
meglio questa connessione, per me naturale, nel 2006 ho realizzato una serie di video poesie dal titolo
Inclusioni, che è stata proiettata in alcune rassegne nazionali.

Quali sono gli Autori e le opere che hanno influenzato e formato il suo essere scrittrice e lettrice?
Penso che le influenze siano perlopiù inconsapevoli, per cui sta alla critica individuarle. Posso descrivere un
po’ a grandi linee il mio percorso di lettrice: da giovane amavo molto Proust, Dostoevskij (identificazione
con L’idiota) e naturalmente Svevo. Fra gli italiani mi hanno probabilmente ispirato Buzzati, Calvino e
Giuseppe Pontiggia. Più recentemente ho scoperto i racconti di Elizabeth Strout e di Anthony Doerr
assieme al piccolo gioiello di Silvio D’Arzo (Casa d’altri); altri autori che ho trovato interessanti possono
essere Colum McCann, Romain Gary e David Foster Wallace.

Quali sono i suoi prossimi impegni professionali ed editoriali?
Come giornalista collaboro a un blog per l’Aris, un’associazione di volontariato che vuol promuovere
l’invecchiamento attivo. Riguardo alla mia produzione ho invece già pronta una nuova silloge di poesie
che devo rivedere; poi inizierò la ricerca di un editore.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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