CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
ILMIOLIBRO.KATAWEB.IT: La civiltą č nata 7000 anni prima delle piramidi
 di venerdģ 13 maggio 2011


Lo sostiene l’archeologo Klaus Schmidt, che a Gobekli Tepe, in Turchia, ha trovato i più antichi templi costruiti dall’uomo, che, sorpresa, precedettero l’invenzione dell’agricoltura.

Sì, il paradiso terrestre esisteva e, anche se non c’entrano nulla serpenti e mele, l’abbiamo perduto. Nel momento in cui abbiamo deciso di rompere il patto con la natura. Questo sembra rivelare una delle più clamorose scoperte archeologiche degli ultimi anni, descritta dal suo autore, il tedesco Klaus Schmidt, del celebre Istituto archeologico di Berlino, nel saggio da oggi in libreria Costruirono i primi templi (Oltre edizioni, pp. 286, euro 24,50). L’edizione italiana è la prima in traduzione, quattro anni dopo quella tedesca. In altri Paesi il libro uscirà in settembre, ma non è prevista un’uscita in lingua inglese, pare per l’ostilità delle élite archeologiche anglosassoni, che mal digeriscono l’idea di dover completamente rivedere la ricostruzione della storia dell’umanità fin qui accettata.

“Il più importante sito archeologico del mondo”, come l’ha definito l’archeologo sudafricano David Lewis-Williams, si chiama Göbekli Tepe (la “collina panciuta”), ed è un modesto rilievo a nord della città turca di Urfa, vicino al confine siriano. La zona è la parte più settentrionale della cosiddetta “mezzaluna fertile”, l’area compresa fra Palestina, Turchia sud-orientale e Iraq. Qui, circa undicimila anni fa, tribù di cacciatori iniziarono a raccogliere e poi piantare cereali selvatici, inventando così l’agricoltura, e diedero il via a una serie di innovazioni – scrittura, città, monumenti, Stati – che avrebbero cambiato il destino dell’umanità.

Nel 1994 Klaus Schmidt, studiando siti neolitici nel Nord della mezzaluna fertile, andò a dare un’occhiata a Göbekli Tepe, già visitato, trenta anni prima, da una spedizione americana, che l’aveva liquidato come “cimitero medievale”. Schmidt capì che quelli che erano stati presi per lapidi tombali erano in realtà pilastri a T neolitici, cioè rappresentazioni stilizzate di persone, talvolta con volti, mani e una sorta di stola scolpiti. Ce n’erano a decine, dai due ai sette metri di lunghezza. Nelle successive stagioni di scavo, Schmidt e i colleghi turchi hanno dissotterrato e ricostruito quattro grandi cerchi megalitici, dai dieci ai trenta metri di diametro, composti da 43 pilastri a T e muri a secco, decorati da centinaia di bassorilievi, con serpenti, volpi, avvoltoi, cinghiali, gru, leoni, asini, tori, anatre, ibis, insetti, ragni e scorpioni. “In pratica, uno zoo dell’età della pietra” dice Schmidt, “anche se alcune figure potrebbero rappresentare sciamani che danzano vestiti da animali”. Sono state anche trovate statuette di uomini con il membro eretto, stipiti decorati con animali in altorilievo, misteriose cornici e anelli in calcare, mentre indagini con il georadar hanno rivelato che sulla collina sono sepolti altri sedici cerchi.

Il vero shock è arrivato dalla datazione delle ossa degli animali trovati nei vari strati archeologici, da cui si è scoperto che la realizzazione di Göbekli Tepe è iniziata undicimila anni fa, ed è continuata per 1500 anni, quando tutto è stato sepolto. In altre parole, quando i faraoni costruivano le piramidi di Giza e i celti Stonehenge, i cerchi megalitici di Göbekli Tepe erano già vecchi di sei-settemila anni. “I blocchi di calcare dei pilastri (anche di cinquanta tonnellate l’uno) sono stati estratti e scolpiti da migliaia di persone che non solo non conoscevano ancora ruota, ceramica o metalli, ma non avevano neanche inventato l’agricoltura o l’allevamento. Difatti abbiamo trovato sul posto solo punte di freccia e mucchi di ossa di animali selvatici, soprattutto gazzelle”. E questo contrasta con quanto si è sempre creduto, e cioè che l’agricoltura, con il surplus di cibo che produce, e un governo centrale, in grado di coordinare masse di lavoratori, siano condizioni necessarie per realizzare grandi monumenti. Ma le sorprese non finiscono qui. Sui pilastri, sotto le immagini principali, si trovano combinazioni di figure animali e simboli come la mezzaluna, il cerchio o una sorta di “h”. “L’aspetto richiama fortemente quello dei geroglifici egizi. Probabilmente si tratta di pittogrammi, dai quali le persone del luogo potevano trarre informazioni. Insomma, l’idea di base della scrittura risulta anticipata di migliaia di anni” dice Schmidt.

Ma a cosa serviva questo complesso monumentale? “È ormai impossibile ricostruire il mondo simbolico e spirituale degli uomini di Göbekli Tepe, ma tutto, lì, parla di sacro. L’assenza di raffigurazioni femminili (persino gli animali delle immagini sono maschi) e la predominanza di rappresentazioni di specie pericolose o legate alla morte violenta, così come le statuette falliche, mi fanno pensare che si trattasse di un tempio per i defunti, forse anche un luogo iniziatico, dove i giovani apprendevano i miti”. Una sorta di cattedrale neolitica, insomma, capostipite di tutti i luoghi di culto dell’umanità.

Le enormi dimensioni dell’impresa, secondo Schmidt, devono aver prodotto un “effetto collaterale” sconvolgente. “Per mantenere le migliaia di persone che costruivano il monumento, a un certo punto la caccia non deve essere più bastata. A pochi chilometri da Göbekli Tepe, c’è il monte Karaca Da, il luogo dove sono stati rinvenuti i capostipiti selvatici del grano coltivato. Da quei campi naturali di cereali gli uomini devono aver cominciato a raccogliere i semi, per avere un cibo abbondante e facile da conservare. Poi, dalla raccolta, si è passati alla coltivazione”. Secondo Schmidt, quindi, è stato il primo dei monumenti umani ad aver spinto verso l’agricoltura, non questa verso i monumenti, come si pensava. Nel mondo spopolato uscito da appena due millenni dalla glaciazione, Göbekli Tepe, con la sua ricchezza di acque, pascoli, foreste e prede, doveva essere il paradiso dei cacciatori-raccoglitori.

Nel momento in cui fu inventata l’agricoltura, per quel paradiso fu però la fine. Gli uomini, fino ad allora in equilibrio con l’ambiente, cominciarono ad addomesticare o sterminare gli animali che minacciavano i raccolti, a tagliare i boschi, dissodare i terreni, bruciare erbe selvatiche e costruire villaggi vicino ai campi. La loro società egualitaria si stratificò in contadini, guerrieri, capi e sacerdoti. Comparvero conflitti per la terra, schiavitù, epidemie. E nuovi sanguinari dèi scalzarono gli idoli animali. A un certo punto la nuova società agricola deve aver deciso di cancellare l’antico santuario sotto metri di terra.

Insomma Göbekli Tepe potrebbe essere il luogo dove l’uomo ha abbandonato il “paradiso terrestre” per entrare nell’era dell'”e tu coltiverai la terra con il sudore della fronte”. Un cambio vantaggioso per molti versi, ma non per tutti…

[leggi l'articolo originale su http://ilmiolibro.kataweb.it]




SCHEDA LIBRO   |   Segnala  |  Ufficio Stampa


CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
 - venerdģ 13 maggio 2011


Lo sostiene l’archeologo Klaus Schmidt, che a Gobekli Tepe, in Turchia, ha trovato i più antichi templi costruiti dall’uomo, che, sorpresa, precedettero l’invenzione dell’agricoltura.

Sì, il paradiso terrestre esisteva e, anche se non c’entrano nulla serpenti e mele, l’abbiamo perduto. Nel momento in cui abbiamo deciso di rompere il patto con la natura. Questo sembra rivelare una delle più clamorose scoperte archeologiche degli ultimi anni, descritta dal suo autore, il tedesco Klaus Schmidt, del celebre Istituto archeologico di Berlino, nel saggio da oggi in libreria Costruirono i primi templi (Oltre edizioni, pp. 286, euro 24,50). L’edizione italiana è la prima in traduzione, quattro anni dopo quella tedesca. In altri Paesi il libro uscirà in settembre, ma non è prevista un’uscita in lingua inglese, pare per l’ostilità delle élite archeologiche anglosassoni, che mal digeriscono l’idea di dover completamente rivedere la ricostruzione della storia dell’umanità fin qui accettata.

“Il più importante sito archeologico del mondo”, come l’ha definito l’archeologo sudafricano David Lewis-Williams, si chiama Göbekli Tepe (la “collina panciuta”), ed è un modesto rilievo a nord della città turca di Urfa, vicino al confine siriano. La zona è la parte più settentrionale della cosiddetta “mezzaluna fertile”, l’area compresa fra Palestina, Turchia sud-orientale e Iraq. Qui, circa undicimila anni fa, tribù di cacciatori iniziarono a raccogliere e poi piantare cereali selvatici, inventando così l’agricoltura, e diedero il via a una serie di innovazioni – scrittura, città, monumenti, Stati – che avrebbero cambiato il destino dell’umanità.

Nel 1994 Klaus Schmidt, studiando siti neolitici nel Nord della mezzaluna fertile, andò a dare un’occhiata a Göbekli Tepe, già visitato, trenta anni prima, da una spedizione americana, che l’aveva liquidato come “cimitero medievale”. Schmidt capì che quelli che erano stati presi per lapidi tombali erano in realtà pilastri a T neolitici, cioè rappresentazioni stilizzate di persone, talvolta con volti, mani e una sorta di stola scolpiti. Ce n’erano a decine, dai due ai sette metri di lunghezza. Nelle successive stagioni di scavo, Schmidt e i colleghi turchi hanno dissotterrato e ricostruito quattro grandi cerchi megalitici, dai dieci ai trenta metri di diametro, composti da 43 pilastri a T e muri a secco, decorati da centinaia di bassorilievi, con serpenti, volpi, avvoltoi, cinghiali, gru, leoni, asini, tori, anatre, ibis, insetti, ragni e scorpioni. “In pratica, uno zoo dell’età della pietra” dice Schmidt, “anche se alcune figure potrebbero rappresentare sciamani che danzano vestiti da animali”. Sono state anche trovate statuette di uomini con il membro eretto, stipiti decorati con animali in altorilievo, misteriose cornici e anelli in calcare, mentre indagini con il georadar hanno rivelato che sulla collina sono sepolti altri sedici cerchi.

Il vero shock è arrivato dalla datazione delle ossa degli animali trovati nei vari strati archeologici, da cui si è scoperto che la realizzazione di Göbekli Tepe è iniziata undicimila anni fa, ed è continuata per 1500 anni, quando tutto è stato sepolto. In altre parole, quando i faraoni costruivano le piramidi di Giza e i celti Stonehenge, i cerchi megalitici di Göbekli Tepe erano già vecchi di sei-settemila anni. “I blocchi di calcare dei pilastri (anche di cinquanta tonnellate l’uno) sono stati estratti e scolpiti da migliaia di persone che non solo non conoscevano ancora ruota, ceramica o metalli, ma non avevano neanche inventato l’agricoltura o l’allevamento. Difatti abbiamo trovato sul posto solo punte di freccia e mucchi di ossa di animali selvatici, soprattutto gazzelle”. E questo contrasta con quanto si è sempre creduto, e cioè che l’agricoltura, con il surplus di cibo che produce, e un governo centrale, in grado di coordinare masse di lavoratori, siano condizioni necessarie per realizzare grandi monumenti. Ma le sorprese non finiscono qui. Sui pilastri, sotto le immagini principali, si trovano combinazioni di figure animali e simboli come la mezzaluna, il cerchio o una sorta di “h”. “L’aspetto richiama fortemente quello dei geroglifici egizi. Probabilmente si tratta di pittogrammi, dai quali le persone del luogo potevano trarre informazioni. Insomma, l’idea di base della scrittura risulta anticipata di migliaia di anni” dice Schmidt.

Ma a cosa serviva questo complesso monumentale? “È ormai impossibile ricostruire il mondo simbolico e spirituale degli uomini di Göbekli Tepe, ma tutto, lì, parla di sacro. L’assenza di raffigurazioni femminili (persino gli animali delle immagini sono maschi) e la predominanza di rappresentazioni di specie pericolose o legate alla morte violenta, così come le statuette falliche, mi fanno pensare che si trattasse di un tempio per i defunti, forse anche un luogo iniziatico, dove i giovani apprendevano i miti”. Una sorta di cattedrale neolitica, insomma, capostipite di tutti i luoghi di culto dell’umanità.

Le enormi dimensioni dell’impresa, secondo Schmidt, devono aver prodotto un “effetto collaterale” sconvolgente. “Per mantenere le migliaia di persone che costruivano il monumento, a un certo punto la caccia non deve essere più bastata. A pochi chilometri da Göbekli Tepe, c’è il monte Karaca Da, il luogo dove sono stati rinvenuti i capostipiti selvatici del grano coltivato. Da quei campi naturali di cereali gli uomini devono aver cominciato a raccogliere i semi, per avere un cibo abbondante e facile da conservare. Poi, dalla raccolta, si è passati alla coltivazione”. Secondo Schmidt, quindi, è stato il primo dei monumenti umani ad aver spinto verso l’agricoltura, non questa verso i monumenti, come si pensava. Nel mondo spopolato uscito da appena due millenni dalla glaciazione, Göbekli Tepe, con la sua ricchezza di acque, pascoli, foreste e prede, doveva essere il paradiso dei cacciatori-raccoglitori.

Nel momento in cui fu inventata l’agricoltura, per quel paradiso fu però la fine. Gli uomini, fino ad allora in equilibrio con l’ambiente, cominciarono ad addomesticare o sterminare gli animali che minacciavano i raccolti, a tagliare i boschi, dissodare i terreni, bruciare erbe selvatiche e costruire villaggi vicino ai campi. La loro società egualitaria si stratificò in contadini, guerrieri, capi e sacerdoti. Comparvero conflitti per la terra, schiavitù, epidemie. E nuovi sanguinari dèi scalzarono gli idoli animali. A un certo punto la nuova società agricola deve aver deciso di cancellare l’antico santuario sotto metri di terra.

Insomma Göbekli Tepe potrebbe essere il luogo dove l’uomo ha abbandonato il “paradiso terrestre” per entrare nell’era dell'”e tu coltiverai la terra con il sudore della fronte”. Un cambio vantaggioso per molti versi, ma non per tutti…

[leggi l'articolo originale su http://ilmiolibro.kataweb.it]


SCHEDA LIBRO   |   Stampa   |   Segnala  |  Ufficio Stampa

TUTTI GLI EVENTI

OGT newspaper
oggi
02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

LEGGI TUTTO