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AVVENIRE: Vergarolla, così iniziò lo stragismo
 di domenica 7 febbraio 2016


Una foto in bianco e nero con un bambino in costume da bagno che sorride felice sulla spiaggia sotto un cielo radioso. Sul retro una scritta: Vergarolla, 18 agosto 1946, ore 12.30. Da brivido, a guardarla oggi: Antonio Fortunato, il bambino, non sapeva che meno di due ore dopo lì sarebbe scoppiato l’inferno. «Per fortuna nella gara di nuoto ho perso, così siamo tornati a casa. Appena entrati, abbiamo sentito a chilometri di distanza un’enorme esplosione, i vetri sono andati in frantumi... », racconta oggi che ha i capelli bianchi. Intanto un altro bambino di allora, Livio Rupillo, 6 anni, giocava sulla sabbia con la mamma. «Di lei non si è trovato niente, solo un dito con la vera nuziale. Non capirò mai come io sono sopravvissuto. Papà non era con noi, era in municipio a lavorare perché migliaia di persone chiedevano i documenti per scappare in Italia... anche se ci eravamo già in Italia! Ma l’andazzo era brutto, a Parigi si trattava sul nostro destino», spiega guardando fisso nella telecamera...

 

Sono una quindicina, tra testimoni diretti e storici, le persone intervistate nel documentario L’ultima spiaggia - Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo, diretto dal regista Alessandro Quadretti e scritto insieme allo storico Domenico Guzzo. Un coraggioso lavoro prodotto da Officinemedia grazie al sostegno economico del Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe) e con il contributo – attraverso una raccolta fondi – di Simone Cristicchi e del Circolo di cultura istroveneta 'Istria'. Se Guzzo è esperto di terrorismo, Quadretti conosce da vicino le vicende, poiché suo nonno fu gettato in foiba e suo padre è esule polesano, ma l’occhio del registra resta equidistante e lascia che a parlare (e sconvolgere) siano i fatti, le parole dei protagonisti, le evidenze lucidamente esposte dagli storici. L’ultima spiaggia, a settant’anni esatti dalla tragedia, rivela agli italiani quella che fu la prima strage della Repubblica e, con le sue almeno cento vittime, la più sanguinosa, più che alla stazione di Bologna o in piazza Fontana, eppure volutamente “dimenticata”.

 

Le voci dei sopravvissuti, ampiamente raccolte in questi anni da Avvenire, rimanevano pressoché inascoltate dal resto dei media e a oggi non c’è testo scolastico che menzioni Vergarolla, evento troppo scomodo per molti, ultimo atto con cui il maresciallo Tito, ormai in tempo di pace, puntava a de-italianizzare l’Istria e portare più a occidente possibile i propri confini. Dopo decenni di rimozione, di recente ad accendere i riflettori sull’attentato è stato il musical civile di Simone Cristicchi Magazzino 18, mentre nell’agosto del 2013 l’eurodeputata Laura Garavini annunciò un’interrogazione parlamentare e la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, parlò di «uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Ne seguì un’affollata e inedita commemorazione alla Camera nell’estate del 2014, che purtroppo non si è più ripetuta, ma certamente ha contribuito a squarciare la cortina del silenzio.

 

Torniamo al documentario. La spiaggia di Pola quella domenica era stracolma di famiglie, attratte dal bel tempo ma anche da una imponente manifestazione sportiva dal sapore patriottico: la guerra era finita da tempo, ma a Parigi le grandi potenze stavano decidendo della sorte delle nostre re- gioni adriatiche e la popolazione manifestava anche così la ferma determinazione a restare italiana. «Mio nonno, calzolaio paralitico, era già stato gettato in foiba, come mio zio – continua Livio Rupillo –. Non è stato mai trovato, oppure il corpo non era più riconoscibile ». Poi, nel ’46, Vergarolla, la mamma uccisa, ma anche l’amichetto Fulvio di 4 anni, i vicini di casa, il suo mondo: «Per anni mi ha ossessionato il disgusto, fino ad allora amavo i gabbiani, ma quel giorno li vedevo buttarsi sui pezzi sanguinolenti nel mare, sugli alberi. Per un bambino di sei anni è uno choc». Giuseppe Berdini e gli amici volevano vedere le gare da vicino, così per fortuna stavano in mare aperto a bordo di sei barche. «Prima abbiamo sentito uno sparo, subito dopo l’esplosione e in barca volarono pezzi di esseri umani... Perdemmo tuti i nostri cari». Lo hanno udito in molti quello “sparo” iniziale, in realtà l’innesco dei ventotto ordigni sparsi sulla spiaggia, grandi come bidoni. Erano lì da mesi, inoffensivi, disinnescati sotto il controllo degli anglo-americani. «Ci giocavamo sempre a cavalcioni – testimonia Claudio Bronzin, allora 12 anni –, le mamme ci stendevano gli asciugamani ad asciugare». Ma quel giorno qualcuno li aveva riattivati per fare strage e convincere gli italiani a lasciare Pola.

 

Intere famiglie furono disintegrate, moltissimi i bambini. Questi i protagonisti. Ma il documentario affida agli storici il compito fondamentale di inserire i fatti in un contesto e motivare quanto avvenne. «Subito gli alleati aprirono un’inchiesta – dice Gaetano Dato –, le indagini erano coordinate dalla polizia britannica di Scotland Yard ed emerse senza alcun dubbio che non si trattò di un incidente, tesi fomentata da ambienti jugoslavi per decenni, ma di attentato doloso. Gli ordigni non potevano assolutamente esplodere, erano stati riattivati». «Il Trattato di pace non era ancora firmato», sottolinea Giuseppe Parlato, i polesani erano ancora convinti che Pola sarebbe rimasta all’Italia, per questo era urgente per Tito stroncare ogni speranza. Complice Togliatti con il Pci, che «in quegli stessi mesi facevano una dura campagna contro gli italiani d’Istria, accusati di essere fascisti»: sacrificava un’intera innocente popolazione al dovere di partito. «Vergarolla era stata preceduta da una serie di attentati anti-italiani sempre più serrati», ricorda Paolo Radivo, la tragedia era quasi annunciata. «L’esodo a quel punto fu clamoroso – aggiunge Raoul Pupo –. Se ne andò tutta la città, borghesi, proletari, pescatori, persino i morti».

 

Come Tito voleva. Tito, blandito dall’Occidente, Italia compresa, come il necessario contrappeso all’altro comunismo, quello di Stalin. La ragion di Stato affossava la giustizia e i morti di Vergarolla morirono una seconda volta. «Fu il prodromo dello stragismo d’Italia dei decenni a venire», conclude Giorgio Siboni... Il documentario si chiude con filmati d’epoca. Pola che si svuota. L’indescrivibile sguardo degli anziani dalla nave mentre fissano la città che sparisce all’orizzonte. «Il custode del cimitero colma i vuoti lasciati dalle bare», dice l’antica voce fuori campo mentre scorrono le immagini. Sembra un terremoto. Sembra l’Aquila. «La nostra fu una scelta doppiamente patriottica», mormora Lino Vivoda, un fratellino ucciso nella strage: «noi siamo italiani per scelta». E di nuovo Rupillo: «Papà mi mandò esule con una zia 18enne e mi raggiunse poi. Mi mancava la mamma appena morta. Alla patria abbiamo dato abbastanza, ma gratitudine mai avuta. Dopo 69 anni un attestato con una medaglietta. Ringrazio sentitamente».

 

IN ANTEPRIMA A “TERRA!” Del documentario L’ultima spiaggia verrà trasmessa una versione ridotta a 50 minuti domani sera alle 23.50, nello speciale di Terra! condotto da Toni Capuozzo su Retequattro, due giorni prima del Giorno del Ricordo. La versione originale sarà invece presentata in anteprima il 9 febbraio sera alla Sala San Luigi di Forlì e proseguirà il suo tour in varie città italiane: a Trieste giungerà il 12 febbraio alle 16.30 nella sede dell’Associazione delle Comunità Istriane ( via Belpoggio 29). Il video è rivolto con particolare attenzione alle scuole, a favore delle quali già molti Comuni e istituti in tutta Italia stanno prenotandone la visione ( gli interessati possono contattare info@ officinemedia. it).


[leggi l'articolo originale su Avvenire.it]


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 - domenica 7 febbraio 2016


Una foto in bianco e nero con un bambino in costume da bagno che sorride felice sulla spiaggia sotto un cielo radioso. Sul retro una scritta: Vergarolla, 18 agosto 1946, ore 12.30. Da brivido, a guardarla oggi: Antonio Fortunato, il bambino, non sapeva che meno di due ore dopo lì sarebbe scoppiato l’inferno. «Per fortuna nella gara di nuoto ho perso, così siamo tornati a casa. Appena entrati, abbiamo sentito a chilometri di distanza un’enorme esplosione, i vetri sono andati in frantumi... », racconta oggi che ha i capelli bianchi. Intanto un altro bambino di allora, Livio Rupillo, 6 anni, giocava sulla sabbia con la mamma. «Di lei non si è trovato niente, solo un dito con la vera nuziale. Non capirò mai come io sono sopravvissuto. Papà non era con noi, era in municipio a lavorare perché migliaia di persone chiedevano i documenti per scappare in Italia... anche se ci eravamo già in Italia! Ma l’andazzo era brutto, a Parigi si trattava sul nostro destino», spiega guardando fisso nella telecamera...

 

Sono una quindicina, tra testimoni diretti e storici, le persone intervistate nel documentario L’ultima spiaggia - Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo, diretto dal regista Alessandro Quadretti e scritto insieme allo storico Domenico Guzzo. Un coraggioso lavoro prodotto da Officinemedia grazie al sostegno economico del Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe) e con il contributo – attraverso una raccolta fondi – di Simone Cristicchi e del Circolo di cultura istroveneta 'Istria'. Se Guzzo è esperto di terrorismo, Quadretti conosce da vicino le vicende, poiché suo nonno fu gettato in foiba e suo padre è esule polesano, ma l’occhio del registra resta equidistante e lascia che a parlare (e sconvolgere) siano i fatti, le parole dei protagonisti, le evidenze lucidamente esposte dagli storici. L’ultima spiaggia, a settant’anni esatti dalla tragedia, rivela agli italiani quella che fu la prima strage della Repubblica e, con le sue almeno cento vittime, la più sanguinosa, più che alla stazione di Bologna o in piazza Fontana, eppure volutamente “dimenticata”.

 

Le voci dei sopravvissuti, ampiamente raccolte in questi anni da Avvenire, rimanevano pressoché inascoltate dal resto dei media e a oggi non c’è testo scolastico che menzioni Vergarolla, evento troppo scomodo per molti, ultimo atto con cui il maresciallo Tito, ormai in tempo di pace, puntava a de-italianizzare l’Istria e portare più a occidente possibile i propri confini. Dopo decenni di rimozione, di recente ad accendere i riflettori sull’attentato è stato il musical civile di Simone Cristicchi Magazzino 18, mentre nell’agosto del 2013 l’eurodeputata Laura Garavini annunciò un’interrogazione parlamentare e la presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, parlò di «uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Ne seguì un’affollata e inedita commemorazione alla Camera nell’estate del 2014, che purtroppo non si è più ripetuta, ma certamente ha contribuito a squarciare la cortina del silenzio.

 

Torniamo al documentario. La spiaggia di Pola quella domenica era stracolma di famiglie, attratte dal bel tempo ma anche da una imponente manifestazione sportiva dal sapore patriottico: la guerra era finita da tempo, ma a Parigi le grandi potenze stavano decidendo della sorte delle nostre re- gioni adriatiche e la popolazione manifestava anche così la ferma determinazione a restare italiana. «Mio nonno, calzolaio paralitico, era già stato gettato in foiba, come mio zio – continua Livio Rupillo –. Non è stato mai trovato, oppure il corpo non era più riconoscibile ». Poi, nel ’46, Vergarolla, la mamma uccisa, ma anche l’amichetto Fulvio di 4 anni, i vicini di casa, il suo mondo: «Per anni mi ha ossessionato il disgusto, fino ad allora amavo i gabbiani, ma quel giorno li vedevo buttarsi sui pezzi sanguinolenti nel mare, sugli alberi. Per un bambino di sei anni è uno choc». Giuseppe Berdini e gli amici volevano vedere le gare da vicino, così per fortuna stavano in mare aperto a bordo di sei barche. «Prima abbiamo sentito uno sparo, subito dopo l’esplosione e in barca volarono pezzi di esseri umani... Perdemmo tuti i nostri cari». Lo hanno udito in molti quello “sparo” iniziale, in realtà l’innesco dei ventotto ordigni sparsi sulla spiaggia, grandi come bidoni. Erano lì da mesi, inoffensivi, disinnescati sotto il controllo degli anglo-americani. «Ci giocavamo sempre a cavalcioni – testimonia Claudio Bronzin, allora 12 anni –, le mamme ci stendevano gli asciugamani ad asciugare». Ma quel giorno qualcuno li aveva riattivati per fare strage e convincere gli italiani a lasciare Pola.

 

Intere famiglie furono disintegrate, moltissimi i bambini. Questi i protagonisti. Ma il documentario affida agli storici il compito fondamentale di inserire i fatti in un contesto e motivare quanto avvenne. «Subito gli alleati aprirono un’inchiesta – dice Gaetano Dato –, le indagini erano coordinate dalla polizia britannica di Scotland Yard ed emerse senza alcun dubbio che non si trattò di un incidente, tesi fomentata da ambienti jugoslavi per decenni, ma di attentato doloso. Gli ordigni non potevano assolutamente esplodere, erano stati riattivati». «Il Trattato di pace non era ancora firmato», sottolinea Giuseppe Parlato, i polesani erano ancora convinti che Pola sarebbe rimasta all’Italia, per questo era urgente per Tito stroncare ogni speranza. Complice Togliatti con il Pci, che «in quegli stessi mesi facevano una dura campagna contro gli italiani d’Istria, accusati di essere fascisti»: sacrificava un’intera innocente popolazione al dovere di partito. «Vergarolla era stata preceduta da una serie di attentati anti-italiani sempre più serrati», ricorda Paolo Radivo, la tragedia era quasi annunciata. «L’esodo a quel punto fu clamoroso – aggiunge Raoul Pupo –. Se ne andò tutta la città, borghesi, proletari, pescatori, persino i morti».

 

Come Tito voleva. Tito, blandito dall’Occidente, Italia compresa, come il necessario contrappeso all’altro comunismo, quello di Stalin. La ragion di Stato affossava la giustizia e i morti di Vergarolla morirono una seconda volta. «Fu il prodromo dello stragismo d’Italia dei decenni a venire», conclude Giorgio Siboni... Il documentario si chiude con filmati d’epoca. Pola che si svuota. L’indescrivibile sguardo degli anziani dalla nave mentre fissano la città che sparisce all’orizzonte. «Il custode del cimitero colma i vuoti lasciati dalle bare», dice l’antica voce fuori campo mentre scorrono le immagini. Sembra un terremoto. Sembra l’Aquila. «La nostra fu una scelta doppiamente patriottica», mormora Lino Vivoda, un fratellino ucciso nella strage: «noi siamo italiani per scelta». E di nuovo Rupillo: «Papà mi mandò esule con una zia 18enne e mi raggiunse poi. Mi mancava la mamma appena morta. Alla patria abbiamo dato abbastanza, ma gratitudine mai avuta. Dopo 69 anni un attestato con una medaglietta. Ringrazio sentitamente».

 

IN ANTEPRIMA A “TERRA!” Del documentario L’ultima spiaggia verrà trasmessa una versione ridotta a 50 minuti domani sera alle 23.50, nello speciale di Terra! condotto da Toni Capuozzo su Retequattro, due giorni prima del Giorno del Ricordo. La versione originale sarà invece presentata in anteprima il 9 febbraio sera alla Sala San Luigi di Forlì e proseguirà il suo tour in varie città italiane: a Trieste giungerà il 12 febbraio alle 16.30 nella sede dell’Associazione delle Comunità Istriane ( via Belpoggio 29). Il video è rivolto con particolare attenzione alle scuole, a favore delle quali già molti Comuni e istituti in tutta Italia stanno prenotandone la visione ( gli interessati possono contattare info@ officinemedia. it).


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OGT newspaper
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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