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Una toccante recensione di *Alessandra* romanzo con cui Stefano Terra vinse nel 1974 il Premio Campiello ed ora ripubblicato dall'editore Gammarò
Osservatorio balcani e caucaso di sabato 29 aprile 2023
L’editore Gammarň, della Oltre Edizioni, torna a pubblicare “Alessandra”, il romanzo dello scrittore Stefano Terra. Nato a Torino nel 1917 e morto a Roma nel 1986, Stefano Terra – il cui vero nome era Giulio Tavernari - č oggi uno scrittore ingiustamente dimenticato. Ingiustamente perché č stato un grande scrittore

di Diego Zandel

L’editore Gammarò, della Oltre Edizioni, torna a pubblicare “Alessandra”, il romanzo dello scrittore Stefano Terra. Nato a Torino nel 1917 e morto a Roma nel 1986, Stefano Terra – il cui vero nome era Giulio Tavernari - è oggi uno scrittore ingiustamente dimenticato. Ingiustamente perché è stato un grande scrittore.

Lo scoprii tale proprio grazie alla lettura di “Alessandra”, romanzo con il quale vinse il Premio Campiello nel 1974. Non era quello il suo primo romanzo, ma, confesso, nei miei allora primi 26 anni di vita, era la prima volta che lo sentivo nominare. Acquistai il libro perché, avevo letto sui giornali, era ambientato in Grecia, a Rodi - ed io avevo una moglie di origine greca, di un’isola, Kos, appartenente allo stesso arcipelago di Rodi, il Dodecanneso - e alla stessa storia degli ultimi secoli.

"Alessandra", Stefano Terra
Gammarò editore, 2023

Presi a leggerlo e ne restai folgorato. Lo lessi, tra l’altro, in Grecia, a Kos, tanto da ritrovare, tornato a Roma, in successive aperture di quelle pagine, qualche granello di sabbia della spiaggia di Tigaki dove lo portavo con me, granelli di sabbia che accolsi come reliquie di un mondo che ormai avevo preso ad amare fin dalla prima volta che vi misi piede. Colto dalla nostalgia di tornarci, la alleviavo rileggendo qualche pagina di “Alessandra”, che la prosa di Stefano Terra riusciva a far lievitare tanto da rimandarmi l’eco di quel mondo, di quei cieli azzurri sui quali si rispecchiava il mare Egeo. Ci penso soltanto adesso, parlando di quel tempo, adesso che sono anziano, che allora ero giovane, poco meno che trentenne, eppure rimasi incantato da quella storia d’amore tra due anziani: Alessandra malata e lui, il protagonista in cui si rispecchia lo stesso Stefano Terra, l’inviato speciale, il corrispondente dai Balcani e dal Levante, come amava chiamare lui il Medio Oriente, il console onorario a Rodi con alle spalle una vita di avventuriero (“L’avventuriero timido” sarà il titolo di un suo libro di poesie, edito da Guanda) che l’accudisce tra i fantasmi della loro vita di lotte libertarie, tra anarchici e trotzkisti.

Cosa affascinava in quel giovane lettore dell’amore tra due anziani, due persone lontane dall’età, dai sentimenti che poteva provare lui? Credo che lo affascinasse il sogno di avere una vita piena come la loro, un’esistenza non comune, avventurosa, romanzesca, verrebbe da dire. Solo che quella esistenza, e il romanzo che la raccontava, a leggerlo, aveva un dono in più: l’afflato di una scrittura che afferrava il lettore alle viscere per trascinarlo dritto al cuore dalla prima all’ultima pagina.

“L’aeroporto dell’isola si chiama Maritza come il fiume della Tracia. La pista è in salita su uno sperone di argilla che si spinge alto sulla piana dei mulini a vento. Quella notte passai fra ulivi e oleandri illuminati dai fari…”

Sta di fatto che dopo la lettura di “Alessandra” andai in cerca degli altri suoi libri. Trovai con difficoltà altri due romanzi scritti in precedenza “La fortezza del Kalimegdan”, edito da Bompiani nel 1956 e “Calda come la colomba” del 1971 per lo stesso editore, al quale Terra sarebbe rimasto sempre fedele, tranne che per un breve periodo quando, convinto dal suo agente letterario Erich Linder, pubblicò un paio di romanzi tra il 1979 (“Le porte di ferro”) e i 1982 (“Albergo Minerva”).

E quei due romanzi, “La fortezza del Kalimegdan” e “Calda come la colomba”, furono non meno folgoranti di “Alessandra”. Non avrei trovato nessuno degli altri suoi precedenti libri: “Morte di italiani”, “Il ritorno del prigioniero”, “Sul ponte di Dragoti”, i libri di poesia, ma anche di reportage come “Il sorriso dell’imperatrice” con la bellissima Soraya in copertina e il sottotitolo “Viaggio in Grecia e nel Medio Oriente”, alcuni dei quali avrei recuperato negli anni sulle bancarelle o, più recentemente, su internet.

Certo, su un lettore come me, nato in un campo profughi, figlio di esuli fiumani, vittime della Jugoslavia titina, e poi sposato a una ragazza di madre greca, perciò legato a filo doppio ai Balcani, i romanzi di Stefano Terra, interamente proiettati verso quel mondo, potevano avere facile presa se non altro per motivi ambientali e culturali. In realtà ciò che più mi avvinceva di essi era la pagina, la scrittura, quelle frasi brevi, come sospirate, venate di poesia, che schiudevano immagini che avevano la forza di un grande fotoreporter, di un Robert Capa, di uno Steve McCurry.

I romanzi, intessuti di memoria, investigavano la coscienza inquieta di personaggi solitari, sullo sfondo di quegli scenari in storie che si dipanavano tra personaggi che avevano il portato esistenziale dello stesso Stefano Terra e che ben presto si sarebbe ritrovato a frequentare un gruppo di giovani antifascisti torinesi. Da qui, dopo aver fatto esplodere una bomba carta durante una manifestazione fascista ed essere stato richiamato in Albania, prenderà le mosse la sua vita raminga.

Nel 1941 ripara al Cairo e ad Alessandria d’Egitto, prendendo a frequentare gli esuli di Giustizia e libertà, Aldo Garosci, Umberto Calosso, Paolo Vittorelli, la scrittrice Fausta Cialente, una storia che Terra racconterà in “La generazione che non perdona”, che avrebbe pubblicato al Cairo nel 1942 “quando Rommel arrivava a El Alamein e si bruciavano gli archivi nel cortile dell’ambasciata britannica”. Un libro che poi, nel 1945, Einaudi avrebbe ripubblicato con il titolo “Rancore”, per scelta di Franco Fortini, ma che poi tornò ad essere “La generazione che non perdona”, molti anni dopo, nel 1979, riproposto da Bompiani con in apertura un dialogo tra Terra e Franco Calamandrei, senatore della Repubblica, figlio del grande Piero Calamandrei, dialogo che io ebbi l’onore di redigere per desiderio dello stesso Terra. E poi, via via, altri libri: di racconti, romanzi, poesie, reportage, mentre si guadagnava la vita facendo il giornalista, ma non il topo di redazione, come si vantava, ma sempre in giro per il mondo, da inviato speciale – per l’Ansa, La stampa, la RAI - corrispondente prima da Parigi poi da Belgrado e i Balcani tutti, quindi Gerusalemme e infine da Atene e il Medio Oriente.

Già nell’immediato dopo guerra era a Belgrado dov’era rimasto tre anni (raccontati in “Tre anni con Tito”, nel 1953), libro che fu fatto sparire dalla circolazione dal Maresciallo che Terra aveva attaccato per Trieste. Sua moglie Emilia Srnić, una serba che lui conobbe a Belgrado, raccontava che l’ordine era quello di comprare tutte le copie in vendita nelle librerie italiane, operazione a cui si prestarono, oltre agli emissari di Tito, anche funzionari di Palazzo Chigi, per ragioni meramente diplomatiche, visto che c’era ancora in ballo, appunto, il futuro di Trieste.

Fu questo amore per i suoi libri, per il mondo che raccontava, a farmi avvicinare a lui per la voglia di conoscerlo di persona. Tante volte si dice che è meglio non conoscere gli scrittori dei libri che ami perché potresti restare deluso al punto da condizionare così il giudizio sulle sue stesse opere. Ma a me non è accaduto. Dal giorno in cui nei lontani anni Settanta l’ho conosciuto fino al 5 ottobre del 1986, il giorno in cui morì, non mi ha mai deluso (tra l’altro la moglie Emilia chiamò me all’alba, tanto eravamo legati, subito dopo aver avvertito la figlia Susanna, che Terra era appena deceduto).

Al funerale, avvenuto nella sala mortuaria dell’ospedale romano di Santo Spirito, con la moglie ed io c’erano solo altre due persone, due vecchi colleghi di Terra: Demetrio Volcic e Giulio Cattaneo. Nessun altro, per discrezione di Emilia, che non voleva dare eco alla morte del marito che nei giorni della malattia, già un po’ orso com’era di carattere, si era chiuso in se stesso, anche nei miei confronti, restio com’era nel farsi vedere sofferente. Ora, per suo espresso desiderio le sue ceneri riposano nella sua casa nell’Attica, sotto un ulivo e “con eucalipti, vigna adagiata sull’argilla, gatti dalla testa piccola e le volpi all’imbrunire”.



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Osservatorio balcani e caucaso - sabato 29 aprile 2023
L’editore Gammarň, della Oltre Edizioni, torna a pubblicare “Alessandra”, il romanzo dello scrittore Stefano Terra. Nato a Torino nel 1917 e morto a Roma nel 1986, Stefano Terra – il cui vero nome era Giulio Tavernari - č oggi uno scrittore ingiustamente dimenticato. Ingiustamente perché č stato un grande scrittore

di Diego Zandel

L’editore Gammarò, della Oltre Edizioni, torna a pubblicare “Alessandra”, il romanzo dello scrittore Stefano Terra. Nato a Torino nel 1917 e morto a Roma nel 1986, Stefano Terra – il cui vero nome era Giulio Tavernari - è oggi uno scrittore ingiustamente dimenticato. Ingiustamente perché è stato un grande scrittore.

Lo scoprii tale proprio grazie alla lettura di “Alessandra”, romanzo con il quale vinse il Premio Campiello nel 1974. Non era quello il suo primo romanzo, ma, confesso, nei miei allora primi 26 anni di vita, era la prima volta che lo sentivo nominare. Acquistai il libro perché, avevo letto sui giornali, era ambientato in Grecia, a Rodi - ed io avevo una moglie di origine greca, di un’isola, Kos, appartenente allo stesso arcipelago di Rodi, il Dodecanneso - e alla stessa storia degli ultimi secoli.

"Alessandra", Stefano Terra
Gammarò editore, 2023

Presi a leggerlo e ne restai folgorato. Lo lessi, tra l’altro, in Grecia, a Kos, tanto da ritrovare, tornato a Roma, in successive aperture di quelle pagine, qualche granello di sabbia della spiaggia di Tigaki dove lo portavo con me, granelli di sabbia che accolsi come reliquie di un mondo che ormai avevo preso ad amare fin dalla prima volta che vi misi piede. Colto dalla nostalgia di tornarci, la alleviavo rileggendo qualche pagina di “Alessandra”, che la prosa di Stefano Terra riusciva a far lievitare tanto da rimandarmi l’eco di quel mondo, di quei cieli azzurri sui quali si rispecchiava il mare Egeo. Ci penso soltanto adesso, parlando di quel tempo, adesso che sono anziano, che allora ero giovane, poco meno che trentenne, eppure rimasi incantato da quella storia d’amore tra due anziani: Alessandra malata e lui, il protagonista in cui si rispecchia lo stesso Stefano Terra, l’inviato speciale, il corrispondente dai Balcani e dal Levante, come amava chiamare lui il Medio Oriente, il console onorario a Rodi con alle spalle una vita di avventuriero (“L’avventuriero timido” sarà il titolo di un suo libro di poesie, edito da Guanda) che l’accudisce tra i fantasmi della loro vita di lotte libertarie, tra anarchici e trotzkisti.

Cosa affascinava in quel giovane lettore dell’amore tra due anziani, due persone lontane dall’età, dai sentimenti che poteva provare lui? Credo che lo affascinasse il sogno di avere una vita piena come la loro, un’esistenza non comune, avventurosa, romanzesca, verrebbe da dire. Solo che quella esistenza, e il romanzo che la raccontava, a leggerlo, aveva un dono in più: l’afflato di una scrittura che afferrava il lettore alle viscere per trascinarlo dritto al cuore dalla prima all’ultima pagina.

“L’aeroporto dell’isola si chiama Maritza come il fiume della Tracia. La pista è in salita su uno sperone di argilla che si spinge alto sulla piana dei mulini a vento. Quella notte passai fra ulivi e oleandri illuminati dai fari…”

Sta di fatto che dopo la lettura di “Alessandra” andai in cerca degli altri suoi libri. Trovai con difficoltà altri due romanzi scritti in precedenza “La fortezza del Kalimegdan”, edito da Bompiani nel 1956 e “Calda come la colomba” del 1971 per lo stesso editore, al quale Terra sarebbe rimasto sempre fedele, tranne che per un breve periodo quando, convinto dal suo agente letterario Erich Linder, pubblicò un paio di romanzi tra il 1979 (“Le porte di ferro”) e i 1982 (“Albergo Minerva”).

E quei due romanzi, “La fortezza del Kalimegdan” e “Calda come la colomba”, furono non meno folgoranti di “Alessandra”. Non avrei trovato nessuno degli altri suoi precedenti libri: “Morte di italiani”, “Il ritorno del prigioniero”, “Sul ponte di Dragoti”, i libri di poesia, ma anche di reportage come “Il sorriso dell’imperatrice” con la bellissima Soraya in copertina e il sottotitolo “Viaggio in Grecia e nel Medio Oriente”, alcuni dei quali avrei recuperato negli anni sulle bancarelle o, più recentemente, su internet.

Certo, su un lettore come me, nato in un campo profughi, figlio di esuli fiumani, vittime della Jugoslavia titina, e poi sposato a una ragazza di madre greca, perciò legato a filo doppio ai Balcani, i romanzi di Stefano Terra, interamente proiettati verso quel mondo, potevano avere facile presa se non altro per motivi ambientali e culturali. In realtà ciò che più mi avvinceva di essi era la pagina, la scrittura, quelle frasi brevi, come sospirate, venate di poesia, che schiudevano immagini che avevano la forza di un grande fotoreporter, di un Robert Capa, di uno Steve McCurry.

I romanzi, intessuti di memoria, investigavano la coscienza inquieta di personaggi solitari, sullo sfondo di quegli scenari in storie che si dipanavano tra personaggi che avevano il portato esistenziale dello stesso Stefano Terra e che ben presto si sarebbe ritrovato a frequentare un gruppo di giovani antifascisti torinesi. Da qui, dopo aver fatto esplodere una bomba carta durante una manifestazione fascista ed essere stato richiamato in Albania, prenderà le mosse la sua vita raminga.

Nel 1941 ripara al Cairo e ad Alessandria d’Egitto, prendendo a frequentare gli esuli di Giustizia e libertà, Aldo Garosci, Umberto Calosso, Paolo Vittorelli, la scrittrice Fausta Cialente, una storia che Terra racconterà in “La generazione che non perdona”, che avrebbe pubblicato al Cairo nel 1942 “quando Rommel arrivava a El Alamein e si bruciavano gli archivi nel cortile dell’ambasciata britannica”. Un libro che poi, nel 1945, Einaudi avrebbe ripubblicato con il titolo “Rancore”, per scelta di Franco Fortini, ma che poi tornò ad essere “La generazione che non perdona”, molti anni dopo, nel 1979, riproposto da Bompiani con in apertura un dialogo tra Terra e Franco Calamandrei, senatore della Repubblica, figlio del grande Piero Calamandrei, dialogo che io ebbi l’onore di redigere per desiderio dello stesso Terra. E poi, via via, altri libri: di racconti, romanzi, poesie, reportage, mentre si guadagnava la vita facendo il giornalista, ma non il topo di redazione, come si vantava, ma sempre in giro per il mondo, da inviato speciale – per l’Ansa, La stampa, la RAI - corrispondente prima da Parigi poi da Belgrado e i Balcani tutti, quindi Gerusalemme e infine da Atene e il Medio Oriente.

Già nell’immediato dopo guerra era a Belgrado dov’era rimasto tre anni (raccontati in “Tre anni con Tito”, nel 1953), libro che fu fatto sparire dalla circolazione dal Maresciallo che Terra aveva attaccato per Trieste. Sua moglie Emilia Srnić, una serba che lui conobbe a Belgrado, raccontava che l’ordine era quello di comprare tutte le copie in vendita nelle librerie italiane, operazione a cui si prestarono, oltre agli emissari di Tito, anche funzionari di Palazzo Chigi, per ragioni meramente diplomatiche, visto che c’era ancora in ballo, appunto, il futuro di Trieste.

Fu questo amore per i suoi libri, per il mondo che raccontava, a farmi avvicinare a lui per la voglia di conoscerlo di persona. Tante volte si dice che è meglio non conoscere gli scrittori dei libri che ami perché potresti restare deluso al punto da condizionare così il giudizio sulle sue stesse opere. Ma a me non è accaduto. Dal giorno in cui nei lontani anni Settanta l’ho conosciuto fino al 5 ottobre del 1986, il giorno in cui morì, non mi ha mai deluso (tra l’altro la moglie Emilia chiamò me all’alba, tanto eravamo legati, subito dopo aver avvertito la figlia Susanna, che Terra era appena deceduto).

Al funerale, avvenuto nella sala mortuaria dell’ospedale romano di Santo Spirito, con la moglie ed io c’erano solo altre due persone, due vecchi colleghi di Terra: Demetrio Volcic e Giulio Cattaneo. Nessun altro, per discrezione di Emilia, che non voleva dare eco alla morte del marito che nei giorni della malattia, già un po’ orso com’era di carattere, si era chiuso in se stesso, anche nei miei confronti, restio com’era nel farsi vedere sofferente. Ora, per suo espresso desiderio le sue ceneri riposano nella sua casa nell’Attica, sotto un ulivo e “con eucalipti, vigna adagiata sull’argilla, gatti dalla testa piccola e le volpi all’imbrunire”.



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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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