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AVVENIRE: Don Gnocchi, cosģ aiutava i partigiani
 di martedģ 19 aprile 2016


Se è vero che, recependo il decreto luogotenenziale dell’agosto 1945 che gerarchizzava le tipologie partigiane (combattenti, patrioti, benemeriti..., in alto la Resistenza in armi, in basso quella civile), per molto tempo anche gli storici hanno lavorato con queste distinzioni, è pur vero che in molte vicende personali non mancano sovrapposizioni, commistioni, contaminazioni – sia nelle motivazioni delle scelte fatte, sia nei diversi ruoli vissuti – ma con un loro peso rilevante nella «conta dei salvati», come finalmente si riconosce.

Tra queste vicende spicca quella di un prete soccorritore di perseguitati, educatore alla libertà, difensore dello Stato legittimo e partigiano cristiano, poi diventato celebre per una grande opera che oggi porta il suo nome, le cui premesse – oltre che dalla sua storia di sofferenze tra gli alpini agonizzanti della «Julia» – si trovano in questo periodo della sua vita: don Carlo Gnocchi. E proprio a questi anni spesi nel sacrificio per la libertà e la dignità, costellati di gesti di solidarietà e di resistenza alla dittatura, è dedicato il volume di Daniele Corbetta Ribelle per amore. Don Gnocchi nella resistenza (Oltre Edizioni, pagine. 338, euro 18), che – scrive monsignor Angelo Bazzari, presidente della Fondazione Don Gnocchi, aprendo l’opera – affronta senza pregiudiziali la questione del ruolo giocato dal Beato in quel contesto.

Una questione che a lungo è parsa tutt’altro che chiara. Innanzitutto per un antifascismo nel suo caso non dichiarato, eppure vissuto – fuori da ogni ideologia – come ambito di testimonianza evangelica. Poi per il percorso alle sue spalle: non solo mai disconosciuto, ma considerato motivo di riconoscenza quale campo di apostolato offertogli. Prima la lunga azione religiosa nelle organizzazioni giovanili del Partito – Opera Balilla e Milizia Universitaria – su ordine dell’arcivescovo di Milano, cardinale Tosi e mai accettando la tessera fascista.

Poi, dopo aver chiesto di essere arruolato nel Regio Esercito (e non nella Milizia), l’esperienza di cappellano volontario, partito per stare accanto a tanti giovani chiamati alle armi, con i quali condivise la campagna di Grecia, facendosi degradare per le sue denunce in seguito a quanto visto perpetrare dal Partito ai danni dei soldati e solo grazie ad alte influenze politiche ed ecclesiastiche riuscendo a ripartire come volontario, cappellano tra gli alpini per le campagne di guerra di Albania e Russia. Anche in quel caso mosso – come scrisse al cardinale Ildefonso Schuster – «non da ragioni passeggere o comunque umane, né tanto meno entusiasmi od esaltazioni politiche e patriottiche» bensì solo dall’«insistenza di una voce interiore, che oserei chiamare vocazione».

Infine, tornando in Italia dopo la drammatica ritirata dal fronte russo, la militanza antitedesca e antifascista come i suoi alpini. Una scelta che in apparenza potrebbe definirsi tardiva, ma solo se letta isolando la volontà di don Gnocchi di essere presente, con generosità, accanto al popolo, nelle ore più tragiche. In ogni caso, questo nuovo libro di Corbetta non offre solo il filo rosso che lega e può giustificare i successivi passaggi esistenziali di un arco cronologico, bensì ricostruisce con documenti e testimonianze dirette – sgombrando il terreno da incauti giudizi – le azioni concrete del prete ambrosiano fattosi apostolo del dolore innocente, e poi imprenditore della carità.
Lo ritroviamo tra i partigiani bianchi, l’organizzazione di Visconti di Modrone, le Fiamme Verdi, i Carabinieri fedeli al governo legittimo... Rileggiamo i suoi spostamenti tra Milano, la Brianza, la Val d’Ossola, il Ticino, Lugano come membro della Resistenza, non dimenticando che, per la sua attività a favore di ebrei e partigiani, don Gnocchi fu incarcerato a San Vittore e liberato grazie all’intervento del cardinale Schuster.

«Dopo l’8 settembre tornai alla mia vita civile, entrando clandestinamente nelle formazioni partigiane delle Fiamme Verdi. Perseguitato dalle Autorità di polizia della Repubblica Sociale Fascista, passai clandestinamente in Svizzera nel luglio ’44. Rientrai nell’agosto dello stesso anno per invito dei patrioti ad assumere alcuni servizi nella riorganizzazione dei reali carabinieri e nel servizio d’informazione da loro diretto. Con questo scopo rientrai in Svizzera, prendendo contatto con il console americano Jones di Lugano, ottenendo il riconoscimento ufficiale dell’organizzazione...», si legge in un memoriale firmato da don Gnocchi il 13 novembre 1945 e conservato negli archivi dell’Ordinariato Militare per l’Italia, testo in cui l’autore accenna ai suoi contatti con gli Alleati e all’Office of Strategic Servic (quando si faceva chiamare «don Galbiati» o «Chino»).

È solo uno dei tanti documenti citati da Corbetta, che li ha verificati e raffrontati con altre carte di differente provenienza, raccolte nei fascicoli del fondo Resistenza dell’Archivio Diocesano, negli archivi di Stato e degli Istituti di storia contemporanea, custoditi da privati, editi o inediti o apparsi in pubblicazioni locali, tenendo presente larga parte della storiografia sul tema (Bressan, Broggini, Barbareschi, Meda, eccetera). Sino a restituirci, togliendoli da coni d’ombra, i tratti del don Gnocchi «ribelle per amore»: quell’amore con cui di lì a poco avrebbe cementato la sua «baracca».

[leggi l'articolo originale su Avvenire]


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 - martedģ 19 aprile 2016


Se è vero che, recependo il decreto luogotenenziale dell’agosto 1945 che gerarchizzava le tipologie partigiane (combattenti, patrioti, benemeriti..., in alto la Resistenza in armi, in basso quella civile), per molto tempo anche gli storici hanno lavorato con queste distinzioni, è pur vero che in molte vicende personali non mancano sovrapposizioni, commistioni, contaminazioni – sia nelle motivazioni delle scelte fatte, sia nei diversi ruoli vissuti – ma con un loro peso rilevante nella «conta dei salvati», come finalmente si riconosce.

Tra queste vicende spicca quella di un prete soccorritore di perseguitati, educatore alla libertà, difensore dello Stato legittimo e partigiano cristiano, poi diventato celebre per una grande opera che oggi porta il suo nome, le cui premesse – oltre che dalla sua storia di sofferenze tra gli alpini agonizzanti della «Julia» – si trovano in questo periodo della sua vita: don Carlo Gnocchi. E proprio a questi anni spesi nel sacrificio per la libertà e la dignità, costellati di gesti di solidarietà e di resistenza alla dittatura, è dedicato il volume di Daniele Corbetta Ribelle per amore. Don Gnocchi nella resistenza (Oltre Edizioni, pagine. 338, euro 18), che – scrive monsignor Angelo Bazzari, presidente della Fondazione Don Gnocchi, aprendo l’opera – affronta senza pregiudiziali la questione del ruolo giocato dal Beato in quel contesto.

Una questione che a lungo è parsa tutt’altro che chiara. Innanzitutto per un antifascismo nel suo caso non dichiarato, eppure vissuto – fuori da ogni ideologia – come ambito di testimonianza evangelica. Poi per il percorso alle sue spalle: non solo mai disconosciuto, ma considerato motivo di riconoscenza quale campo di apostolato offertogli. Prima la lunga azione religiosa nelle organizzazioni giovanili del Partito – Opera Balilla e Milizia Universitaria – su ordine dell’arcivescovo di Milano, cardinale Tosi e mai accettando la tessera fascista.

Poi, dopo aver chiesto di essere arruolato nel Regio Esercito (e non nella Milizia), l’esperienza di cappellano volontario, partito per stare accanto a tanti giovani chiamati alle armi, con i quali condivise la campagna di Grecia, facendosi degradare per le sue denunce in seguito a quanto visto perpetrare dal Partito ai danni dei soldati e solo grazie ad alte influenze politiche ed ecclesiastiche riuscendo a ripartire come volontario, cappellano tra gli alpini per le campagne di guerra di Albania e Russia. Anche in quel caso mosso – come scrisse al cardinale Ildefonso Schuster – «non da ragioni passeggere o comunque umane, né tanto meno entusiasmi od esaltazioni politiche e patriottiche» bensì solo dall’«insistenza di una voce interiore, che oserei chiamare vocazione».

Infine, tornando in Italia dopo la drammatica ritirata dal fronte russo, la militanza antitedesca e antifascista come i suoi alpini. Una scelta che in apparenza potrebbe definirsi tardiva, ma solo se letta isolando la volontà di don Gnocchi di essere presente, con generosità, accanto al popolo, nelle ore più tragiche. In ogni caso, questo nuovo libro di Corbetta non offre solo il filo rosso che lega e può giustificare i successivi passaggi esistenziali di un arco cronologico, bensì ricostruisce con documenti e testimonianze dirette – sgombrando il terreno da incauti giudizi – le azioni concrete del prete ambrosiano fattosi apostolo del dolore innocente, e poi imprenditore della carità.
Lo ritroviamo tra i partigiani bianchi, l’organizzazione di Visconti di Modrone, le Fiamme Verdi, i Carabinieri fedeli al governo legittimo... Rileggiamo i suoi spostamenti tra Milano, la Brianza, la Val d’Ossola, il Ticino, Lugano come membro della Resistenza, non dimenticando che, per la sua attività a favore di ebrei e partigiani, don Gnocchi fu incarcerato a San Vittore e liberato grazie all’intervento del cardinale Schuster.

«Dopo l’8 settembre tornai alla mia vita civile, entrando clandestinamente nelle formazioni partigiane delle Fiamme Verdi. Perseguitato dalle Autorità di polizia della Repubblica Sociale Fascista, passai clandestinamente in Svizzera nel luglio ’44. Rientrai nell’agosto dello stesso anno per invito dei patrioti ad assumere alcuni servizi nella riorganizzazione dei reali carabinieri e nel servizio d’informazione da loro diretto. Con questo scopo rientrai in Svizzera, prendendo contatto con il console americano Jones di Lugano, ottenendo il riconoscimento ufficiale dell’organizzazione...», si legge in un memoriale firmato da don Gnocchi il 13 novembre 1945 e conservato negli archivi dell’Ordinariato Militare per l’Italia, testo in cui l’autore accenna ai suoi contatti con gli Alleati e all’Office of Strategic Servic (quando si faceva chiamare «don Galbiati» o «Chino»).

È solo uno dei tanti documenti citati da Corbetta, che li ha verificati e raffrontati con altre carte di differente provenienza, raccolte nei fascicoli del fondo Resistenza dell’Archivio Diocesano, negli archivi di Stato e degli Istituti di storia contemporanea, custoditi da privati, editi o inediti o apparsi in pubblicazioni locali, tenendo presente larga parte della storiografia sul tema (Bressan, Broggini, Barbareschi, Meda, eccetera). Sino a restituirci, togliendoli da coni d’ombra, i tratti del don Gnocchi «ribelle per amore»: quell’amore con cui di lì a poco avrebbe cementato la sua «baracca».

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OGT newspaper
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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