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SOLOLIBRI.NET: «Trent'anni dopo. Il PCI degli anni ’80
 di mercoledģ 8 giugno 2016


Una piena di bandiere rosse al corteo del 1° maggio. E le voci distorte dei megafoni che urlavano slogan arrabbiati. Ne ricordo uno, chissà perché, che faceva: “Agnelli, Pirelli, nemici dei poverelli”. Erano pieni anni Settanta ed ero poco più che bambino, la fiumana operaista la vedevo sfilare da un balcone. Mi piaceva come si combinavano dall’alto il rosso acceso delle bandiere e il giallo delle falci e martello. Cominciavano già a piacermi le idee muscolari (no benpensantismo né preghierine della sera) e le canzoni di qualche cantautore militante. Forse è per questo (più che per Marx di cui all’epoca sapevo invero niente) che sono diventato comunista e ho continuato ad esserlo fino alla così detta “svolta della Bolognina” (1991). Cioè quando Achille Occhetto - pur se tra lacrime di coccodrillo - ha pensato bene (?) di tirare il colpo di grazia al più grande partito marxista d’Europa, trasformandolo in PDS (sic!).

Gli anni Ottanta avevano già fatto molto della loro: la fine della politica come cosa seria ha avuto inizio da quel decennio imbecille. Con una farsesca rincorsa al restyling ideologico sono finiti non solo il Partito Comunista Italiano ma anche la Prima Repubblica e buona parte (per non dire tutti) i partiti storici dell’arco costituente. Con il loro individualismo sfrenato, con la loro reiterata rincorsa al consumo (allo spreco), con l’infelice trovata del disimpegno invece che dell’ideologia, gli Ottanta sono il decennio prodromo del collasso a seguire. Felicissima la scelta di Novella Di Nunzio e Michelangela Di Giacomo, nel loro “Trent’anni dopo. Il PCI degli anni ‘80” (Oltre Edizioni, 2016) di collocare all’insorgere dell’infezione, l’inizio dell’indagine sulla malattia mortale del PCI. La prima parte del saggio ne inquadra gli ultimi cinque anni (1984-1989) sperperati all’insegna del tormentone auto-lesionista sull’auto-rappresentazione; la seconda è un felice pianosequenza simil-morettiano (il Nanni Moretti regista di La cosa) che attraverso stralci narrativi e altri memorialistici ricostruisce il the end a posteriori.

Come si evince dalle note di copertina, entrambe le autrici sono contigue agli ambiti di ricerca universitaria, anche per questo “Trent’anni dopo” si (im)pone come lavoro oggettivo e denso di riferimenti storiografici. Per capirci: non il solito com’eravamo (e come siamo diventati), e nemmeno un pamphlet livido di pregiudizi: approccio imparziale e taglio piacevole fanno di questo saggio un saggio dalla voce autorevole. Per rendere l’idea, lo stralcio che segue riassume in sintesi le concause sociali che portano alla caduta del PCI (e non solo):

“Il riflusso, la tendenza cioè a riconsiderare prioritari valori appartenenti alla sfera privata (…) mise in crisi i partiti politici di massa nel proprio ruolo di agenzie di socializzazione e avviò al contempo un marcato processo di laicizzazione e individualizzazione della partecipazione politica; processo che si scontrava con un altro dato caratteristico del Pci e della sua militanza, ossia con la mitologia dell’organizzazione, come partito al contempo di massa e di apparato”. (p. 25)
A me sembrano parole sacrosante: è stato più o meno in questo modo che la piena di bandiere rosse ai 1° maggio che furono è sbiadita in balbuzie rosa pallido, il colore della fede innocua, senza credo. Peccato.

[leggi l'articolo originale su SoloLibri.net]


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 - mercoledģ 8 giugno 2016


Una piena di bandiere rosse al corteo del 1° maggio. E le voci distorte dei megafoni che urlavano slogan arrabbiati. Ne ricordo uno, chissà perché, che faceva: “Agnelli, Pirelli, nemici dei poverelli”. Erano pieni anni Settanta ed ero poco più che bambino, la fiumana operaista la vedevo sfilare da un balcone. Mi piaceva come si combinavano dall’alto il rosso acceso delle bandiere e il giallo delle falci e martello. Cominciavano già a piacermi le idee muscolari (no benpensantismo né preghierine della sera) e le canzoni di qualche cantautore militante. Forse è per questo (più che per Marx di cui all’epoca sapevo invero niente) che sono diventato comunista e ho continuato ad esserlo fino alla così detta “svolta della Bolognina” (1991). Cioè quando Achille Occhetto - pur se tra lacrime di coccodrillo - ha pensato bene (?) di tirare il colpo di grazia al più grande partito marxista d’Europa, trasformandolo in PDS (sic!).

Gli anni Ottanta avevano già fatto molto della loro: la fine della politica come cosa seria ha avuto inizio da quel decennio imbecille. Con una farsesca rincorsa al restyling ideologico sono finiti non solo il Partito Comunista Italiano ma anche la Prima Repubblica e buona parte (per non dire tutti) i partiti storici dell’arco costituente. Con il loro individualismo sfrenato, con la loro reiterata rincorsa al consumo (allo spreco), con l’infelice trovata del disimpegno invece che dell’ideologia, gli Ottanta sono il decennio prodromo del collasso a seguire. Felicissima la scelta di Novella Di Nunzio e Michelangela Di Giacomo, nel loro “Trent’anni dopo. Il PCI degli anni ‘80” (Oltre Edizioni, 2016) di collocare all’insorgere dell’infezione, l’inizio dell’indagine sulla malattia mortale del PCI. La prima parte del saggio ne inquadra gli ultimi cinque anni (1984-1989) sperperati all’insegna del tormentone auto-lesionista sull’auto-rappresentazione; la seconda è un felice pianosequenza simil-morettiano (il Nanni Moretti regista di La cosa) che attraverso stralci narrativi e altri memorialistici ricostruisce il the end a posteriori.

Come si evince dalle note di copertina, entrambe le autrici sono contigue agli ambiti di ricerca universitaria, anche per questo “Trent’anni dopo” si (im)pone come lavoro oggettivo e denso di riferimenti storiografici. Per capirci: non il solito com’eravamo (e come siamo diventati), e nemmeno un pamphlet livido di pregiudizi: approccio imparziale e taglio piacevole fanno di questo saggio un saggio dalla voce autorevole. Per rendere l’idea, lo stralcio che segue riassume in sintesi le concause sociali che portano alla caduta del PCI (e non solo):

“Il riflusso, la tendenza cioè a riconsiderare prioritari valori appartenenti alla sfera privata (…) mise in crisi i partiti politici di massa nel proprio ruolo di agenzie di socializzazione e avviò al contempo un marcato processo di laicizzazione e individualizzazione della partecipazione politica; processo che si scontrava con un altro dato caratteristico del Pci e della sua militanza, ossia con la mitologia dell’organizzazione, come partito al contempo di massa e di apparato”. (p. 25)
A me sembrano parole sacrosante: è stato più o meno in questo modo che la piena di bandiere rosse ai 1° maggio che furono è sbiadita in balbuzie rosa pallido, il colore della fede innocua, senza credo. Peccato.

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