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Silvio Ciappi, Coca Travel
SIENANEWS.IT di venerd 24 giugno 2016
«Coca travel - Viaggio sentimentale di un criminologo lungo le rotte dei narcos» di Silvio Ciappi

http://sienanews.it/
24 GIUGNO 2016

Silvio Ciappi, Coca Travel
 
C’è stato un tempo nel quale la letteratura di viaggio serviva a far conoscere ai lettori paesi e luoghi lontani. I libri di Alberto Moravia e di Mario Soldati, di Alberto Arbasino e di Italo Calvino stanno lì a ricordarcelo. La difficoltà di raggiungere terre distanti da noi, difficoltà legata ai costi, all’incerta situazione politica dei posti dove avremmo desiderato recarci, al perdurare di una mentalità ancora piuttosto provinciale e diffidente nei confronti dell’altro da sé (“Hic sunt leones”), poteva essere superata grazie a coloro che, magari per conto di un giornale o di un periodico, raccontavano quanto avevano visto di persona, così come secoli prima aveva fatto il greco Erodoto.

L’immaginazione, poi, compiva il resto, colmando lacune e omissioni, più o meno consapevoli, presenti nella narrazione. Ma nell’epoca di Internet, quando il mondo intero può essere conosciuto gratuitamente e standosene comodamente seduti dietro a una scrivania, per mezzo di immagini e di video, ha ancora senso descrivere luoghi, usanze, riti, riportare conversazioni fatte o ascoltate, narrare avventure realmente accadute? Avendo tra le mani l’ultima fatica di Silvio Ciappi, “Coca Travel. Viaggio sentimentale di un criminologo lungo le rote dei narcos”, non posso che fornire una risposta affermativa a questa domanda. Certo che si può continuare a fare buona letteratura di viaggio, a patto, però, che si sappia che ciò che veramente conta – ciò che il pubblico chiede – non è la rappresentazione oggettiva dei fatti e dei luoghi (per quello c’è la Rete, per quello ci sono i servizi giornalistici), bensì è il possedere (e regalare) uno sguardo altro, profondo e per nulla scontato o di maniera, su quanto costituisce prima elemento di esperienza, poi materia di scrittura.

Il passo che segue, tratto dal primo capitolo, mostra bene come per Ciappi ogni viaggio, fosse pure quello lungo le rotte dei narcos, è sempre generato dal desiderio di conoscere, richiede la più grande disponibilità al confronto con l’alterità, si traduce nella “formazione-maturazione” di chi lo compie: chi ritorna a casa uguale a quando è partito, ha camminato, ha preso un aereo, ha guadato un fiume, ma non ha viaggiato. Ogni autentico viaggio, infatti, comporta un mutamento in noi.

“Lagos? Medellin? Bogotà? Ma sei pazzo!? E per quanto tempo dovresti starci? Non sono bei posti”. “Ma a me piacciono, proprio per questo!”. “Per questo cosa?”. “Perché non sono bei posti”. “Per me sei pazzo!”. Dopo una conversazione così sai che non c’è spazio per la mediazione, sai che tu e l’altro confluite su certi argomenti da due latitudini diverse. D’altronde c’è gente che ha una precisa idea del bello, del giusto e del vero. Io no, sono sempre stato un po’ bastian contrario e ho sempre pensato che “stare dalla parte sbagliata fosse un modo essenziale per capire come vano le cose”. Quante volte me lo sono detto, quante volte questa pseudo-credenza è divenuta una specie di alibi per immischiarmi nelle situazioni più disparate, a contatto con persone al limite, per vivere in luoghi improbabili, per infilarmi con l’avventatezza del segugio in situazioni professionali ad alto rischio, anche di incolumità fisica. Questo specie di mantra è stato anche un mezzo per non nutrire aspettative illusorie, e far sì che potessi incontrare il mondo senza il carico di pregiudizi che di solito ti impalla e ti fa vedere male le cose che ti circondano. Dimenticare da quale parte stia il torto o la ragione ha anche significato sognare di lasciar casa per andare lontano, in luoghi e situazioni dove niente mi potesse ricordare la normalità, in posti dove spesso vivere è solo un lusso.”

Franco Ricci

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24 GIUGNO 2016

Silvio Ciappi, Coca Travel
 
C’è stato un tempo nel quale la letteratura di viaggio serviva a far conoscere ai lettori paesi e luoghi lontani. I libri di Alberto Moravia e di Mario Soldati, di Alberto Arbasino e di Italo Calvino stanno lì a ricordarcelo. La difficoltà di raggiungere terre distanti da noi, difficoltà legata ai costi, all’incerta situazione politica dei posti dove avremmo desiderato recarci, al perdurare di una mentalità ancora piuttosto provinciale e diffidente nei confronti dell’altro da sé (“Hic sunt leones”), poteva essere superata grazie a coloro che, magari per conto di un giornale o di un periodico, raccontavano quanto avevano visto di persona, così come secoli prima aveva fatto il greco Erodoto.

L’immaginazione, poi, compiva il resto, colmando lacune e omissioni, più o meno consapevoli, presenti nella narrazione. Ma nell’epoca di Internet, quando il mondo intero può essere conosciuto gratuitamente e standosene comodamente seduti dietro a una scrivania, per mezzo di immagini e di video, ha ancora senso descrivere luoghi, usanze, riti, riportare conversazioni fatte o ascoltate, narrare avventure realmente accadute? Avendo tra le mani l’ultima fatica di Silvio Ciappi, “Coca Travel. Viaggio sentimentale di un criminologo lungo le rote dei narcos”, non posso che fornire una risposta affermativa a questa domanda. Certo che si può continuare a fare buona letteratura di viaggio, a patto, però, che si sappia che ciò che veramente conta – ciò che il pubblico chiede – non è la rappresentazione oggettiva dei fatti e dei luoghi (per quello c’è la Rete, per quello ci sono i servizi giornalistici), bensì è il possedere (e regalare) uno sguardo altro, profondo e per nulla scontato o di maniera, su quanto costituisce prima elemento di esperienza, poi materia di scrittura.

Il passo che segue, tratto dal primo capitolo, mostra bene come per Ciappi ogni viaggio, fosse pure quello lungo le rotte dei narcos, è sempre generato dal desiderio di conoscere, richiede la più grande disponibilità al confronto con l’alterità, si traduce nella “formazione-maturazione” di chi lo compie: chi ritorna a casa uguale a quando è partito, ha camminato, ha preso un aereo, ha guadato un fiume, ma non ha viaggiato. Ogni autentico viaggio, infatti, comporta un mutamento in noi.

“Lagos? Medellin? Bogotà? Ma sei pazzo!? E per quanto tempo dovresti starci? Non sono bei posti”. “Ma a me piacciono, proprio per questo!”. “Per questo cosa?”. “Perché non sono bei posti”. “Per me sei pazzo!”. Dopo una conversazione così sai che non c’è spazio per la mediazione, sai che tu e l’altro confluite su certi argomenti da due latitudini diverse. D’altronde c’è gente che ha una precisa idea del bello, del giusto e del vero. Io no, sono sempre stato un po’ bastian contrario e ho sempre pensato che “stare dalla parte sbagliata fosse un modo essenziale per capire come vano le cose”. Quante volte me lo sono detto, quante volte questa pseudo-credenza è divenuta una specie di alibi per immischiarmi nelle situazioni più disparate, a contatto con persone al limite, per vivere in luoghi improbabili, per infilarmi con l’avventatezza del segugio in situazioni professionali ad alto rischio, anche di incolumità fisica. Questo specie di mantra è stato anche un mezzo per non nutrire aspettative illusorie, e far sì che potessi incontrare il mondo senza il carico di pregiudizi che di solito ti impalla e ti fa vedere male le cose che ti circondano. Dimenticare da quale parte stia il torto o la ragione ha anche significato sognare di lasciar casa per andare lontano, in luoghi e situazioni dove niente mi potesse ricordare la normalità, in posti dove spesso vivere è solo un lusso.”

Franco Ricci

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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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