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«Finis Terrae – noir Mediterraneo» di Gian Luca Campagna
Ed ESSERE DONNA di mercoledģ 27 luglio 2016


di Cora Craus
[leggi l'articolo originale su eD essere donna]

“Finis Terrae – un noir Mediterraneo” di Gian Luca Campagna è un romanzo realistico e viscerale, con una narrazione fluida e brillante, la descrizione psicologica dei personaggi è minimale ed incisa con l’accetta. Tutti, buoni e cattivi, sono avvolti da un’aurea di cinismo. Un cinismo che appare come una maschera per nascondere ferite troppo profonde, orrori troppo laidi anche agli occhi di chi li ha commessi.
Tante maschere e pochi volti, volendo parafrasare Pirandello, si agitano nelle pagine di “Finis Terrae” (ed. Oltre – pag 508 – € 19). Un romanzo, un noir che prende spunto da una storia vera, un raccapricciante fatto di cronaca che ancora non ha trovato soluzione; e, che molto probabilmente era ed è solo la minuscola punta dell’iceberg del degrado che affligge tutto un territorio.
Il romanzo parte dall’uccisione di un parroco: “Non credeva possibile che non ci fosse nessun investigatore impegnato a scavare nella vita di un parroco di campagna che aveva sollevato forti interrogativi rispetto a una condotta spregiudicata di qualche industriale della zona. Ragioniamo, disse tra sé Corelli…” Un interrogativo, tante amare riflessioni, su cui – Angelo Corelli, giornalista con l’anima dello “sbirro” e voce narrante del romanzo, non intende arrendersi.
Il romanzo di Gian Luca Campagna è crudo e coinvolgente dall’intricata trama e sostenuto da un solido intreccio; si alternano, nelle sue pagine ripugnanti confessioni e spavalde menzogne. Una ridda di personaggi il cui comun denominatore sembra essere una grande rumorosa ed affollata solitudine, una totale mancanza di umanità. Un posto dove c’è spazio per la complicità e il susseguirsi di tradimenti. Tutti sono impegnati in una corsa verso il peggio, verso il niente, un’oppressione ed una tensione che l’autore tempra e arricchisce con sprazzi di sardonica e brillante ironia.
Queste sono constatazioni che possono essere valide per molti buoni romanzi, per molti “gialli”, per molti noir e allora cosa ha di diverso “Finis Terrae” di Gian Luca Campagna? Per noi lettori, da Roma in giù, quello che ci lascia con il fiato sospeso è il riconoscere l’habitat, la fauna politica, sociale di “Villareale”, la città immaginaria dove si srotola il romanzo.
“Villareale” è Latina con i suoi fasci littori, con la sua storia, dove il ricordo della palude del Duce appare un tempo e uno spazio salubre e vivibile al confronto di come è stata ridotta e avvelenata dai suoi epigoni che pure hanno indossato costose, candide camicie. Per “Finis Terrae” ci piacerebbe la definizione docu-romanzo.
D’altronde, l’autore non fa nessun sforzo, a parte dichiarare il pragmatico:” ogni riferimento a fatti, cose e persone realmente accaduti è puramente casuale”, per mitigare questa realtà, anzi, in alcune pagine la penna del cronista prende senza mezzi termini il sopravvento sulla narrazione dello scrittore riuscendo a regalarci qualche chicca di autentica cultura locale “S’immerse nelle pagine del tempo libero. Quel sabato all’Auditorium, per la rassegna teatrale, sarebbe andata in scena l’anteprima di una nuova produzione dell’ “Acta Teatro”, con la regia di Lucia Viglianti e Marina Tufo”.
Il romanzo è un riuscito mixer di politica, sport, eros e malavita. Tanta malavita dove sono protagonisti senza soluzione di continuità il ladro di polli e le più alte istituzioni politiche, religiose ed economiche. E pagina dopo pagina, dopo quintali di “Pal Mall”, ed ettolitri di rum sembra davvero che “gli uomini producano male come miele” e guardano senza vedere la “Finis Terrae” la fine della terra, della loro terra.


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Ed ESSERE DONNA - mercoledģ 27 luglio 2016


di Cora Craus
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“Finis Terrae – un noir Mediterraneo” di Gian Luca Campagna è un romanzo realistico e viscerale, con una narrazione fluida e brillante, la descrizione psicologica dei personaggi è minimale ed incisa con l’accetta. Tutti, buoni e cattivi, sono avvolti da un’aurea di cinismo. Un cinismo che appare come una maschera per nascondere ferite troppo profonde, orrori troppo laidi anche agli occhi di chi li ha commessi.
Tante maschere e pochi volti, volendo parafrasare Pirandello, si agitano nelle pagine di “Finis Terrae” (ed. Oltre – pag 508 – € 19). Un romanzo, un noir che prende spunto da una storia vera, un raccapricciante fatto di cronaca che ancora non ha trovato soluzione; e, che molto probabilmente era ed è solo la minuscola punta dell’iceberg del degrado che affligge tutto un territorio.
Il romanzo parte dall’uccisione di un parroco: “Non credeva possibile che non ci fosse nessun investigatore impegnato a scavare nella vita di un parroco di campagna che aveva sollevato forti interrogativi rispetto a una condotta spregiudicata di qualche industriale della zona. Ragioniamo, disse tra sé Corelli…” Un interrogativo, tante amare riflessioni, su cui – Angelo Corelli, giornalista con l’anima dello “sbirro” e voce narrante del romanzo, non intende arrendersi.
Il romanzo di Gian Luca Campagna è crudo e coinvolgente dall’intricata trama e sostenuto da un solido intreccio; si alternano, nelle sue pagine ripugnanti confessioni e spavalde menzogne. Una ridda di personaggi il cui comun denominatore sembra essere una grande rumorosa ed affollata solitudine, una totale mancanza di umanità. Un posto dove c’è spazio per la complicità e il susseguirsi di tradimenti. Tutti sono impegnati in una corsa verso il peggio, verso il niente, un’oppressione ed una tensione che l’autore tempra e arricchisce con sprazzi di sardonica e brillante ironia.
Queste sono constatazioni che possono essere valide per molti buoni romanzi, per molti “gialli”, per molti noir e allora cosa ha di diverso “Finis Terrae” di Gian Luca Campagna? Per noi lettori, da Roma in giù, quello che ci lascia con il fiato sospeso è il riconoscere l’habitat, la fauna politica, sociale di “Villareale”, la città immaginaria dove si srotola il romanzo.
“Villareale” è Latina con i suoi fasci littori, con la sua storia, dove il ricordo della palude del Duce appare un tempo e uno spazio salubre e vivibile al confronto di come è stata ridotta e avvelenata dai suoi epigoni che pure hanno indossato costose, candide camicie. Per “Finis Terrae” ci piacerebbe la definizione docu-romanzo.
D’altronde, l’autore non fa nessun sforzo, a parte dichiarare il pragmatico:” ogni riferimento a fatti, cose e persone realmente accaduti è puramente casuale”, per mitigare questa realtà, anzi, in alcune pagine la penna del cronista prende senza mezzi termini il sopravvento sulla narrazione dello scrittore riuscendo a regalarci qualche chicca di autentica cultura locale “S’immerse nelle pagine del tempo libero. Quel sabato all’Auditorium, per la rassegna teatrale, sarebbe andata in scena l’anteprima di una nuova produzione dell’ “Acta Teatro”, con la regia di Lucia Viglianti e Marina Tufo”.
Il romanzo è un riuscito mixer di politica, sport, eros e malavita. Tanta malavita dove sono protagonisti senza soluzione di continuità il ladro di polli e le più alte istituzioni politiche, religiose ed economiche. E pagina dopo pagina, dopo quintali di “Pal Mall”, ed ettolitri di rum sembra davvero che “gli uomini producano male come miele” e guardano senza vedere la “Finis Terrae” la fine della terra, della loro terra.


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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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