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AVVENIRE: Le corti marziali di Salņ e la mano leggera sui disertori
 di martedģ 23 agosto 2016


Le corti marziali di Salò e la mano leggera sui disertori
ROBERTO FESTORAZZI

Con decreto del 10 novembre 1943, la Repubblica sociale italiana istituiva sette tribunali militari territoriali, poi saliti a undici. Le funzioni sanzionatorie assegnate a questi organi di giustizia si estesero progressivamente, con l'intensificarsi della guerra civile: le Corti marziali, infatti, si occuparono non soltanto dei reati previsti dal codice militare, come quello di diserzione, ma anche di tutta la materia dell'ordine pubblico, del controllo dei civili militarizzati impegnati nella produzione industriale, e, da ultimo, della repressione delle "bande armate" partigiane, sfera prima demandata all'attività del disciolto Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato.
Su tale argomento, rimasto finora avvolto da un cono d'ombra storiografico, ha indagato a fondo su materiali archivistici inediti il ricercatore Samuele Tieghi, autore di un prezioso volume (Le corti marziali di Salò, Oltre Edizioni, 326 pagine, 21,00 euro).
La giustizia marziale della Rsi, spiega l'autore, si trovò a operare, sotto due pesanti condizionamenti. Le corti, formate in larga parte da militari di carriera provenienti dal Regio esercito, da una parte subirono l'ingerenza degli alleati/occupanti tedeschi, che tendevano a sottrarre spazi di autonomia agli organi giudicanti italiani, dall'altra faticarono a sottrarsi agli input del governo fascista repubblicano, che tendeva a imporre la logica della pura rappresaglia, specie nei confronti dei partigiani che si rendevano responsabili di azioni cruente.
A fronte del pugno di ferro con cui il maresciallo Rodolfo Graziani e il governo di Salò giunsero a equiparare alla diserzione di fronte al nemico reato punibile con la pena di morte la renitenza alla leva e le varie fattispecie di allontanamento dei soldati dal loro reparto, i giudici militari tentarono di frapporre la ragionevolezza e di pronunciarsi con sentenze miti.
Tieghi analizza, in particolare, l'operato del tribunale regionale di Milano, il quale, a fronte di 30.000 casi di diserzione denunciati, istruì alla fine processi soltanto per 312 imputati, vale a dire per circa 1'1% dei casi. Scrive l'autore: «Sia la procura sia i collegi giudicanti, non solo milanesi, ebbero un atteggiamento conciliante nei confronti dei disertori, utilizzando cavilli o servendosi di una burocrazia complicata per allungare la durata dei processi o, in caso ciò fosse impossibile, appellandosi a tutte le attenuanti possibili». Questa "mano leggera" non sfuggì al vertice dello Stato repubblicano, e lo stesso Mussolini ebbe a lamentarsene con Graziani. Alla fine, il tribunale militare milanese, comminò 35 condanne alla pena capitale: di queste, soltanto 5 riguardavano disertori.
Il tallone germanico operò in tutti i modi per impedire che gli italiani si mostrassero meno che inflessibili nei confronti dei responsabili dei reati che ricadevano sotto la giurisdizione militare. Oltre a trasmettere ai tribunali della Rsi gli ordini di esecuzione delle condanne da loro emesse nei riguardi dei colpevoli di delitti commessi ai danni delle proprie forze armate, i tedeschi, aggiunge Tieghi, «non tenevano minimamente conto della giustizia militare repubblicana, riservandosi di intervenire arbitrariamente, arrivando a sino a sottrarre ai tribunali italiani gli imputati detenuti nelle carceri».

[leggi l'articolo originale su AVVENIRE]


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Le corti marziali di Salò e la mano leggera sui disertori
ROBERTO FESTORAZZI

Con decreto del 10 novembre 1943, la Repubblica sociale italiana istituiva sette tribunali militari territoriali, poi saliti a undici. Le funzioni sanzionatorie assegnate a questi organi di giustizia si estesero progressivamente, con l'intensificarsi della guerra civile: le Corti marziali, infatti, si occuparono non soltanto dei reati previsti dal codice militare, come quello di diserzione, ma anche di tutta la materia dell'ordine pubblico, del controllo dei civili militarizzati impegnati nella produzione industriale, e, da ultimo, della repressione delle "bande armate" partigiane, sfera prima demandata all'attività del disciolto Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato.
Su tale argomento, rimasto finora avvolto da un cono d'ombra storiografico, ha indagato a fondo su materiali archivistici inediti il ricercatore Samuele Tieghi, autore di un prezioso volume (Le corti marziali di Salò, Oltre Edizioni, 326 pagine, 21,00 euro).
La giustizia marziale della Rsi, spiega l'autore, si trovò a operare, sotto due pesanti condizionamenti. Le corti, formate in larga parte da militari di carriera provenienti dal Regio esercito, da una parte subirono l'ingerenza degli alleati/occupanti tedeschi, che tendevano a sottrarre spazi di autonomia agli organi giudicanti italiani, dall'altra faticarono a sottrarsi agli input del governo fascista repubblicano, che tendeva a imporre la logica della pura rappresaglia, specie nei confronti dei partigiani che si rendevano responsabili di azioni cruente.
A fronte del pugno di ferro con cui il maresciallo Rodolfo Graziani e il governo di Salò giunsero a equiparare alla diserzione di fronte al nemico reato punibile con la pena di morte la renitenza alla leva e le varie fattispecie di allontanamento dei soldati dal loro reparto, i giudici militari tentarono di frapporre la ragionevolezza e di pronunciarsi con sentenze miti.
Tieghi analizza, in particolare, l'operato del tribunale regionale di Milano, il quale, a fronte di 30.000 casi di diserzione denunciati, istruì alla fine processi soltanto per 312 imputati, vale a dire per circa 1'1% dei casi. Scrive l'autore: «Sia la procura sia i collegi giudicanti, non solo milanesi, ebbero un atteggiamento conciliante nei confronti dei disertori, utilizzando cavilli o servendosi di una burocrazia complicata per allungare la durata dei processi o, in caso ciò fosse impossibile, appellandosi a tutte le attenuanti possibili». Questa "mano leggera" non sfuggì al vertice dello Stato repubblicano, e lo stesso Mussolini ebbe a lamentarsene con Graziani. Alla fine, il tribunale militare milanese, comminò 35 condanne alla pena capitale: di queste, soltanto 5 riguardavano disertori.
Il tallone germanico operò in tutti i modi per impedire che gli italiani si mostrassero meno che inflessibili nei confronti dei responsabili dei reati che ricadevano sotto la giurisdizione militare. Oltre a trasmettere ai tribunali della Rsi gli ordini di esecuzione delle condanne da loro emesse nei riguardi dei colpevoli di delitti commessi ai danni delle proprie forze armate, i tedeschi, aggiunge Tieghi, «non tenevano minimamente conto della giustizia militare repubblicana, riservandosi di intervenire arbitrariamente, arrivando a sino a sottrarre ai tribunali italiani gli imputati detenuti nelle carceri».

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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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