Provengo da una famiglia istro-italiana. Oggi, 5 marzo 1973, inizio a registrare su questi fogli il mio passato remoto e recente, dando così avvio alle mie memorie.
Era legatissimo alle sue esperienze Antonio Zorco, detto Nino e non si faceva pregare per raccontarle alluvionalmente alla figlia e al nipote, eppure ha esitato per trent’anni prima di metterle su carta. Da febbraio 2023 sono accessibili a tutti in Ma io in guerra non ci volevo andare. Fiume-Mulhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954), un volume breve, di appena 120 pagine, ma pieno di significati.
È a cura di Diego Zandel, che ha dedicato un’attenzione davvero amorevole, al di là di quella impeccabile e professionale che riserva da consulente editoriale ai romanzi delle collane di narrativa della casa editrice Oltre, di Sestri Levante.
Perché Zandel, di famiglia profuga fiumana, è “quel” nipote di zio Nino, il fratello maggiore della mamma. Nell’introduzione, informa che Antonio Zorco, nato nel 1925 a Fiume dove i genitori si erano trasferiti dopo la Grande Guerra, è l’autore di questo libro di memorie centrate soprattutto sull’arresto nell’agosto 1944 da parte dei tedeschi e sulla detenzione ai lavori forzati, fino al 4 agosto 1945, nel campo di concentramento di Muhldorf, satellite del lager tristemente noto di Dachau in Baviera. Lo ha conosciuto a Fiume, dov’è tornato per la prima volta nell’aprile del 1954, sette anni dopo la fuga dalla città, consegnata alla Jugoslavia dal Trattato di pace di Parigi del 1947.
I genitori avevano scelto l’esodo, in virtù degli accordi italo-jugoslavi, per sottrarsi alla polizia politica del regime di Tito, anche se la madre era stata staffetta nella resistenza al confine orientale e anche il papà aveva militato da partigiano titino, prima di disertare, disgustato dalle violenze contro gli italiani nel territorio giuliano.
Per due volte le richieste del resto della famiglia di passare in Italia erano state respinte: il nonno, zio Nino e zia Jolanda (Joli) erano forza lavoro per lo Stato comunista (la nonna solo casalinga), non disponevano di imprese o proprietà da rubare, sicchè le loro braccia dovevano contribuire a sostituire quelle dei lavoratori italiani esodati. Vivevano in una parte di Villa Laura, una casa affidata da amici andati profughi. Rivedevano la figlia e sorella, conoscevano finalmente il primo nipote.
Un giovane Diego vi è tornato di frequente per le vacanze e ha più volte ascoltato con la cuginetta Anci i ricordi del campo di concentramento, che lo zio non ha mai smesso di raccontare, meticolosamente, soffermandosi alla lunga sui particolari.
Già si percepiva la sofferenza che c’era dietro. Poi ha saputo che aveva cominciato a scrivere le memorie di quel tempo: ci avrebbe messo degli anni, non era un letterato, al più qualche verso in rima, di professione faceva il disegnatore tecnico.
Le memorie cominciano dal 1929-30, dall’asilo nel silurificio di Fiume: gli Zorco abitavano una semplice casetta bifamiliare nella periferia nord della città. Coprono naturalmente le vicende belliche e di deportazione, intense e significative perché comuni a tanti, negli stessi luoghi e condizioni.
Non di leva per la giovane età, il diciottenne Nino aveva ignorato le proposte di arruolamento volontario nelle formazioni della Repubblica di Salò, ma non poté sottrarsi al lavoro forzato per l’Organizzazione Todt germanica. Da qui lo sfruttamento come manodopera coatta e la deportazione in Baviera.
Il testo prosegue con le convulse vicende di fine guerra, il ritorno dalla Germania e il difficilissimo dopoguerra nella neonata Jugoslavia antitaliana. Si conclude con il le nozze nel 1954, perchè Zandel ha voluto fermare a quel punto i ricordi dello zio, che continuano per molti anni dopo.
Il nipote curatore ha tenuto a chiudere: “e vissero felici e contenti”, perchè la vita seguente è stata come una favola: il matrimonio con Daniza, allietato dall’arrivo di una figlia, Anna Maria, detta “Anci” e molti anni dopo da tre nipoti, Luka, Slaven e Martina. Però, a parte qualche dettaglio, questa parte non riveste particolare importanza storica, al confronto invece dell’esperienza del campo di concentramento e del ritorno nella città occupata da gente ostile, “straniero in casa propria”, mentre parenti e amici la abbandonavano.
In appendice, Diego Zandel propone un contributo del prof. Roberto Spazzali, autore, tra l’altro, del libro Sotto la Todt. Il noto insegnante, pubblicista e storico del Novecento - in particolare istriano, fiumano e triestino, in una parola giuliano - inquadra l’odissea e l’anabasi di Antonio Zorco, nel più ampio contesto della macchina nazista dei lavori forzati Todt, "certamente un’esperienza traumatica e formativa, anche se quelle generazioni non ne sentivano il bisogno, almeno in quei termini”, che il racconto drammatico di Nino, spesso tragico, esprime bene.
Non si può omettere una considerazione amareggiata di Zandel, esempio a sua volta del pensiero degli esuli giuliano dalmati.
Spero che questa testimonianza di mio zio Nino, del tutto privata e familiare, slegata da ogni ragione di carattere pubblico e ancora meno politico, possa contribuire a rendere giustizia ai tanti istriani e fiumani che, dopo essere stati vittime dei totalitarismi fascista e comunista, lo sono stati anche di una violenta propaganda, che almeno fino all’istituzione del Giorno del Ricordo - da qualcuno ancora non tollerata - ha fatto strame del loro sacrificio durante e, soprattutto, dopo la guerra, quando, unici, non solo pagarono, con la cessione delle loro terre e l’esilio per una guerra persa da tutti gli italiani, ma furono accolti a sputi e insulti. Questo, quando il loro sacrificio meriterebbe almeno il rispetto, se non la riconoscenza.
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