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*Identità preistoriche. Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente* di Stefano Radaelli
letture.org di domenica 25 giugno 2023
Sull’organizzazione delle società neolitiche del Vicino Oriente non sappiamo niente per certo. Stiamo parlando di un periodo che va grosso modo da 10.000 a 7000 anni fa e che rientra quindi a pieno titolo nella Preistoria

di Intervista
Sull’organizzazione delle società; neolitiche del Vicino Oriente non sappiamo niente per certo. Stiamo parlando di un periodo che va grosso modo da 10.000 a 7000 anni fa e che rientra quindi a pieno titolo nella Preistoria. Non disponiamo di testimonianze scritte che ci consentano di ricostruire gli assetti sociali e politici sulla base di documenti amministrativi, iscrizioni, cronache o resoconti storiografici. È però possibile fare delle congetture partendo dalle testimonianze archeologiche, che ci riservano non poche sorprese.

 

Il dato che personalmente trovo più affascinante è la mancanza di anticipazioni evidenti di quello che si sarebbe visto di lì a poco in Mesopotamia e in Egitto con la nascita delle prime civiltà storiche.

Capita spesso di sentir dire, ad esempio, che insediamenti neolitici come Gerico o Çatalhöyük sarebbero state le prime città della storia umana. È vero che alcuni di questi villaggi preistorici raggiunsero dimensioni importanti e popolazioni stimate nell’ordine di qualche migliaio di abitanti, ma siamo distanti anni luce dalla città-stato sumerica di Uruk, che intorno alla metà del IV millennio a.C. copriva 70-100 ettari di estensione e contava qualcosa come 30.000 abitanti. Non è però solo un fatto di dimensioni: la vita dei villaggi neolitici era ricca e complessa, ma le abitazioni erano molto simili tra loro (il che suggerisce una scarsa differenziazione sociale) e i cosiddetti “edifici speciali” utilizzati a scopo rituale o politico (o forse per entrambe le cose) non sembra ospitassero élite di governanti o caste sacerdotali, e si presentano infatti come strutture molto diverse dai templi e dai palazzi che avrebbero fatto la loro comparsa in età protostorica. Lo stesso vale per le sepolture: il Neolitico del Vicino Oriente non ha restituito, per fare degli esempi, monumenti funerari assimilabili alle mastaba egizie (le antenate delle piramidi) o ai ricchi tumuli delle popolazioni proto-indoeuropee.

Va tenuto presente che il Neolitico copre diversi millenni di storia: le cose cambiarono probabilmente più volte da luogo a luogo e da momento a momento. Nell’insieme, però, sembra che le popolazioni che abitarono la regione in quel periodo abbiano prevenuto lo sviluppo di società stratificate (ossia di una divisione in classi sociali) e di strutture politiche di tipo proto-statale. Il modo migliore per inquadrare quelle società, secondo me, è considerarle delle società acefale. Se sarebbe sbagliato definirle tout court “egalitarie” (un concetto che presenta diversi aspetti problematici), sarebbe altrettanto sbagliato vederle come l’antecedente evolutivo di quelle che classifichiamo normalmente come “civiltà” o “società complesse” (altri due concetti parecchio problematici).

 

Un ultimo aspetto che colpisce delle società neolitiche del Vicino Oriente è il loro cosmopolitismo. Nel periodo che gli studiosi hanno battezzato “Neolitico Pre-ceramico B” (8500-6500 a.C. circa) i gruppi umani della regione erano coinvolti in reti di relazioni che al culmine di questa fase arrivarono a coprire un territorio molto vasto, dall’alta valle dell’Eufrate a nord al deserto del Negev a sud: una vera e propria koiné neolitica. Sembra inoltre che queste relazioni fossero piuttosto pacifiche, dal momento che le evidenze archeologiche non hanno restituito tracce incontrovertibili di fortificazioni, di distruzioni causate da eventi bellici o di resti umani con segni di violenza riconducibili a pratiche guerresche. Nella fase più tarda del Neolitico (6500-4500 a.C. circa) lo sviluppo di stili differenziati nella decorazione della ceramica suggerisce che i gruppi iniziarono a distinguersi culturalmente in modo più marcato, ma anche in questo caso senza intraprendere un chiaro percorso verso lo sviluppo delle formule sociali e politiche tradizionalmente associate al concetto di “civiltà”.

In che modo quelle società furono in grado di mantenere un’organizzazione scarsamente stratificata nonostante le allettanti opportunità offerte dalla nascente economia agricola?
Questa domanda tocca il tema centrale del libro.

Quando studiamo il Neolitico a livello scolastico, l’importanza di questa fase della Preistoria viene riassunta in due innovazioni fondamentali: la nascita dei primi villaggi e l’invenzione dell’agricoltura. Durante il Neolitico, insomma, l’umanità avrebbe sperimentato la transizione dal nomadismo alla sedentarietà e da un’economia di tipo acquisitivo (basata sulla caccia e la raccolta) a un’economia di produzione (agricola e pastorale) incentrata sulla logica dell’investimento e del ritorno differito. Da questa sintesi alla conclusione per cui nel Neolitico sarebbero comparse le prime forme rigidamente stratificate di organizzazione sociale il passo è breve: com’è possibile gestire la vita collettiva di un villaggio in cui centinaia di persone convivono gomito a gomito senza che qualcuno – nella forma di un’élite dominante, ad esempio – eserciti un qualche monopolio sulle decisioni collettive? Soprattutto, però, sappiamo che l’agricoltura consente di accumulare un surplus il cui controllo e la cui distribuzione possono essere utilizzati per manipolare le relazioni sociali: la disuguaglianza sembra essere insomma una conseguenza inevitabile delle economie di produzione.

 

Antropologi e archeologi, in realtà, sanno da ormai più di un secolo che le cose non funzionano in modo così meccanico. Per prima cosa, l’idea di un collegamento inevitabile tra economie di tipo acquisitivo e vita nomade è un mito: se hanno accesso a una base affidabile di risorse le popolazioni di cacciatori-raccoglitori tendono di frequente ad adottare uno stile di vita stanziale o quanto meno semi-stanziale. È però un mito anche l’idea di una correlazione necessaria tra un’economia di tipo acquisitivo e il carattere “semplice” o addirittura “egalitario” delle società in questione. I cacciatori-raccoglitori possono sviluppare eccome assetti stratificati, in cui disuguaglianze e gerarchie sociali cristallizzate diventano la norma: le società native della costa pacifica nord-occidentale del Nord America ne sono un ottimo esempio, e qualcosa di simile potrebbe essere accaduto già durante il Paleolitico.

Le testimonianze relative al Neolitico del Vicino Oriente suggeriscono però che è vero anche il contrario: società che iniziano a dipendere dalla produzione di risorse possono adottare formule di convivenza che non contemplano lo sviluppo di forme evidenti di stratificazione. Che le cose poi siano andate diversamente è noto: è, in pratica, la storia degli ultimi 5000 anni. Ma che per per un periodo quasi altrettanto lungo l’umanità non abbia esplorato fino in fondo questa possibilità deve farci riflettere.

È difficile ricostruire con precisione a cosa sia dovuta questa circostanza. Penso che sarebbe sbagliato sostenere che certe cose non sono accadute prima (o più rapidamente) a causa del carattere “semplice” o addirittura “arretrato” delle società preistoriche. Al contrario, penso che i nostri antenati abbiano prevenuto certi esiti in modo abbastanza consapevole, dando prova di una notevole intelligenza politica. La tesi che sostengo nel mio lavoro è che a giocare un ruolo centrale sia stato il modo in cui vedevano se stessi e in cui interpretavano il loro rapporto con il mondo circostante – nel quale vanno inclusi sia l’ambiente naturale sia la nicchia artificiale sempre più separata e distinta che stavano costruendo intorno a sé. A prevenire lo sviluppo di società stratificate, insomma, sarebbe stato il modo in cui i nostri antenati neolitici definivano le proprie identità personali e collettive attraverso pratiche culturali che coinvolgevano in modo organico i diversi piani della vita sociale, dagli aspetti economici fino a quelli rituali e religiosi.

Come è possibile allora comprendere l’organizzazione sociale preistorica?
Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione e mettere in discussione tante cose che diamo per scontate. Siamo abituati a pensare alle nostre società moderne come realtà “complesse” e a liquidare come “semplice” tutto ciò che non rientra in questa particolare nozione di complessità o che non sembra implicarla come una sua inevitabile conseguenza storica. Tendiamo infatti spesso a concepire la nostra complessità come il prodotto di un percorso evolutivo che avrebbe premiato le formule economiche, sociali e politiche più adatte a garantire la sopravvivenza del genere umano facendo via via giustizia di tutto il resto – ossia di tutte le forme altre di complessità che non rientrano negli schemi a noi familiari.

Che questa visione delle cose sia quanto meno discutibile lo dimostrano i fatti: che si consideri il cambiamento climatico o il rischio di un conflitto nucleare, l’idea per cui le forme di gestione della vita collettiva e i modelli economici che sono diventati alla lunga dominanti sarebbero più efficaci da un punto di vista adattativo ne esce parecchio malconcia.

Studiare le società preistoriche come se fossero la semplice anticipazione evolutiva del mondo storico e, quindi, della realtà in cui viviamo non è solo fuorviante, ma anche limitante, perché ci porta a sviluppare un’idea molto riduttiva delle straordinarie possibilità della nostra specie. Possibilità che non riguardano solo la capacità di trovare soluzioni innovative a livello economico e tecnologico, ma anche a livello sociale, politico e più generalmente culturale.

Nei circa 60.000 anni che separano la comparsa dei primi esemplari di Homo sapiens cognitivamente moderni dalla nascita delle prime civiltà la nostra specie ha avuto probabilmente l’occasione di sperimentare più volte le conseguenze poco piacevoli dello sfruttamento indiscriminato delle risorse, della violenza e del dominio coercitivo sul prossimo: quello del “buon selvaggio” è un altro mito di cui dobbiamo liberarci, tanto più che come hanno sottolineato brillantemente David Graber e David Wengrow ne L’alba di tutto (edito in Italia da Rizzoli) esso sottintende in realtà quello assai meno lusinghiero dello “stupido selvaggio”. Nel corso della sua “storia profonda” l’umanità sembra però aver dimostrato a più riprese una notevole capacità di imparare dai propri errori.

Naturalmente ciò non significa che dobbiamo prendere le società neolitiche a modello di un’ipotetica società futura, né che dobbiamo rinunciare agli innegabili progressi resi possibili dall’avanzamento delle conoscenze e della tecnica in nome di una qualche forma di primitivismo. Significa, molto più semplicemente, che dobbiamo riscoprire la creatività sociale e politica di cui abbiamo dato prova per millenni e a cui, a quanto pare, abbiamo rinunciato nel momento in cui abbiamo ceduto a certe promesse (del tutto irrazionali) di controllo efficace sulla natura e sull’uomo e di crescita illimitata. Abbiamo iniziato a considerare “naturale” una certa idea di che cosa sia una persona e dei meccanismi che fanno funzionare una società, senza renderci conto di quanto queste idee siano in realtà un prodotto relativamente recente della nostra storia.

In che modo le testimonianze archeologiche supportano tale tesi?
Senza chiamare in causa l’archeologia, la prova forse più evidente del fatto che certe dinamiche non sono affatto inevitabili è che… siamo ancora qui. La nostra specie ha dimostrato di sapersi adattare brillantemente ai contesti climatici e ambientali più disparati e si è diffusa su tutto il pianeta, e sono dell’idea che in tutto questo abbia giocato un ruolo essenziale la stessa consapevolezza che ha consentito ai nostri antenati preistorici di sperimentare strategie economiche e formule sociali innovative senza lasciarsi troppo irretire dalle inevitabili tentazioni che ne derivavano. La capacità di cooperare e di imporre dei limiti culturali alle forme più distruttive di egoismo e aggressività è stata probabilmente uno dei fattori cruciali nella nostra vicenda evolutiva e storica.

 

Per quanto riguarda invece le possibili conferme archeologiche del carattere acefalo delle società neolitiche del Vicino Oriente, gli aspetti più rilevanti e intriganti mi sembrano tre: la struttura degli insediamenti, in cui l’omogeneità delle strutture abitative suggerisce una scarsa differenziazione sociale; le pratiche funerarie, che sembrano escludere l’esistenza di gerarchie sociali cristallizzate e permanenti; l’assenza di prove certe di violenza organizzata, che indica che i nostri antenati erano quanto meno recalcitranti a farsi la guerra a vicenda.

Che la definizione delle identità personali e collettive nel rapporto con il mondo circostante abbia giocato un ruolo centrale in tutto questo è, naturalmente, una tesi speculativa. Anche qui, però, gli elementi a supporto non mancano, e possono essere rintracciati in quello che siamo in grado di ricostruire, sia pure a livello congetturale, delle loro pratiche culturali e nelle manifestazioni espressive e artistiche di cui ci hanno lasciato testimonianza.

Nell’argomentare questa tesi ho preso spunto dalle ricerche e dal pensiero di archeologi e antropologi ai quali spero di aver reso adeguatamente giustizia, e mi auguro anzi che questo libro sia, per chi lo leggerà, uno stimolo ad approfondire ulteriormente.

Stefano Radaelli, nato in Veneto nel 1983, laureato in Filosofia e specializzato in Semiotica, ha operato per diversi anni nell’organizzazione di eventi musicali e lavora attualmente come collaboratore scolastico.



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Sull’organizzazione delle società neolitiche del Vicino Oriente non sappiamo niente per certo. Stiamo parlando di un periodo che va grosso modo da 10.000 a 7000 anni fa e che rientra quindi a pieno titolo nella Preistoria

di Intervista
Sull’organizzazione delle società; neolitiche del Vicino Oriente non sappiamo niente per certo. Stiamo parlando di un periodo che va grosso modo da 10.000 a 7000 anni fa e che rientra quindi a pieno titolo nella Preistoria. Non disponiamo di testimonianze scritte che ci consentano di ricostruire gli assetti sociali e politici sulla base di documenti amministrativi, iscrizioni, cronache o resoconti storiografici. È però possibile fare delle congetture partendo dalle testimonianze archeologiche, che ci riservano non poche sorprese.

 

Il dato che personalmente trovo più affascinante è la mancanza di anticipazioni evidenti di quello che si sarebbe visto di lì a poco in Mesopotamia e in Egitto con la nascita delle prime civiltà storiche.

Capita spesso di sentir dire, ad esempio, che insediamenti neolitici come Gerico o Çatalhöyük sarebbero state le prime città della storia umana. È vero che alcuni di questi villaggi preistorici raggiunsero dimensioni importanti e popolazioni stimate nell’ordine di qualche migliaio di abitanti, ma siamo distanti anni luce dalla città-stato sumerica di Uruk, che intorno alla metà del IV millennio a.C. copriva 70-100 ettari di estensione e contava qualcosa come 30.000 abitanti. Non è però solo un fatto di dimensioni: la vita dei villaggi neolitici era ricca e complessa, ma le abitazioni erano molto simili tra loro (il che suggerisce una scarsa differenziazione sociale) e i cosiddetti “edifici speciali” utilizzati a scopo rituale o politico (o forse per entrambe le cose) non sembra ospitassero élite di governanti o caste sacerdotali, e si presentano infatti come strutture molto diverse dai templi e dai palazzi che avrebbero fatto la loro comparsa in età protostorica. Lo stesso vale per le sepolture: il Neolitico del Vicino Oriente non ha restituito, per fare degli esempi, monumenti funerari assimilabili alle mastaba egizie (le antenate delle piramidi) o ai ricchi tumuli delle popolazioni proto-indoeuropee.

Va tenuto presente che il Neolitico copre diversi millenni di storia: le cose cambiarono probabilmente più volte da luogo a luogo e da momento a momento. Nell’insieme, però, sembra che le popolazioni che abitarono la regione in quel periodo abbiano prevenuto lo sviluppo di società stratificate (ossia di una divisione in classi sociali) e di strutture politiche di tipo proto-statale. Il modo migliore per inquadrare quelle società, secondo me, è considerarle delle società acefale. Se sarebbe sbagliato definirle tout court “egalitarie” (un concetto che presenta diversi aspetti problematici), sarebbe altrettanto sbagliato vederle come l’antecedente evolutivo di quelle che classifichiamo normalmente come “civiltà” o “società complesse” (altri due concetti parecchio problematici).

 

Un ultimo aspetto che colpisce delle società neolitiche del Vicino Oriente è il loro cosmopolitismo. Nel periodo che gli studiosi hanno battezzato “Neolitico Pre-ceramico B” (8500-6500 a.C. circa) i gruppi umani della regione erano coinvolti in reti di relazioni che al culmine di questa fase arrivarono a coprire un territorio molto vasto, dall’alta valle dell’Eufrate a nord al deserto del Negev a sud: una vera e propria koiné neolitica. Sembra inoltre che queste relazioni fossero piuttosto pacifiche, dal momento che le evidenze archeologiche non hanno restituito tracce incontrovertibili di fortificazioni, di distruzioni causate da eventi bellici o di resti umani con segni di violenza riconducibili a pratiche guerresche. Nella fase più tarda del Neolitico (6500-4500 a.C. circa) lo sviluppo di stili differenziati nella decorazione della ceramica suggerisce che i gruppi iniziarono a distinguersi culturalmente in modo più marcato, ma anche in questo caso senza intraprendere un chiaro percorso verso lo sviluppo delle formule sociali e politiche tradizionalmente associate al concetto di “civiltà”.

In che modo quelle società furono in grado di mantenere un’organizzazione scarsamente stratificata nonostante le allettanti opportunità offerte dalla nascente economia agricola?
Questa domanda tocca il tema centrale del libro.

Quando studiamo il Neolitico a livello scolastico, l’importanza di questa fase della Preistoria viene riassunta in due innovazioni fondamentali: la nascita dei primi villaggi e l’invenzione dell’agricoltura. Durante il Neolitico, insomma, l’umanità avrebbe sperimentato la transizione dal nomadismo alla sedentarietà e da un’economia di tipo acquisitivo (basata sulla caccia e la raccolta) a un’economia di produzione (agricola e pastorale) incentrata sulla logica dell’investimento e del ritorno differito. Da questa sintesi alla conclusione per cui nel Neolitico sarebbero comparse le prime forme rigidamente stratificate di organizzazione sociale il passo è breve: com’è possibile gestire la vita collettiva di un villaggio in cui centinaia di persone convivono gomito a gomito senza che qualcuno – nella forma di un’élite dominante, ad esempio – eserciti un qualche monopolio sulle decisioni collettive? Soprattutto, però, sappiamo che l’agricoltura consente di accumulare un surplus il cui controllo e la cui distribuzione possono essere utilizzati per manipolare le relazioni sociali: la disuguaglianza sembra essere insomma una conseguenza inevitabile delle economie di produzione.

 

Antropologi e archeologi, in realtà, sanno da ormai più di un secolo che le cose non funzionano in modo così meccanico. Per prima cosa, l’idea di un collegamento inevitabile tra economie di tipo acquisitivo e vita nomade è un mito: se hanno accesso a una base affidabile di risorse le popolazioni di cacciatori-raccoglitori tendono di frequente ad adottare uno stile di vita stanziale o quanto meno semi-stanziale. È però un mito anche l’idea di una correlazione necessaria tra un’economia di tipo acquisitivo e il carattere “semplice” o addirittura “egalitario” delle società in questione. I cacciatori-raccoglitori possono sviluppare eccome assetti stratificati, in cui disuguaglianze e gerarchie sociali cristallizzate diventano la norma: le società native della costa pacifica nord-occidentale del Nord America ne sono un ottimo esempio, e qualcosa di simile potrebbe essere accaduto già durante il Paleolitico.

Le testimonianze relative al Neolitico del Vicino Oriente suggeriscono però che è vero anche il contrario: società che iniziano a dipendere dalla produzione di risorse possono adottare formule di convivenza che non contemplano lo sviluppo di forme evidenti di stratificazione. Che le cose poi siano andate diversamente è noto: è, in pratica, la storia degli ultimi 5000 anni. Ma che per per un periodo quasi altrettanto lungo l’umanità non abbia esplorato fino in fondo questa possibilità deve farci riflettere.

È difficile ricostruire con precisione a cosa sia dovuta questa circostanza. Penso che sarebbe sbagliato sostenere che certe cose non sono accadute prima (o più rapidamente) a causa del carattere “semplice” o addirittura “arretrato” delle società preistoriche. Al contrario, penso che i nostri antenati abbiano prevenuto certi esiti in modo abbastanza consapevole, dando prova di una notevole intelligenza politica. La tesi che sostengo nel mio lavoro è che a giocare un ruolo centrale sia stato il modo in cui vedevano se stessi e in cui interpretavano il loro rapporto con il mondo circostante – nel quale vanno inclusi sia l’ambiente naturale sia la nicchia artificiale sempre più separata e distinta che stavano costruendo intorno a sé. A prevenire lo sviluppo di società stratificate, insomma, sarebbe stato il modo in cui i nostri antenati neolitici definivano le proprie identità personali e collettive attraverso pratiche culturali che coinvolgevano in modo organico i diversi piani della vita sociale, dagli aspetti economici fino a quelli rituali e religiosi.

Come è possibile allora comprendere l’organizzazione sociale preistorica?
Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione e mettere in discussione tante cose che diamo per scontate. Siamo abituati a pensare alle nostre società moderne come realtà “complesse” e a liquidare come “semplice” tutto ciò che non rientra in questa particolare nozione di complessità o che non sembra implicarla come una sua inevitabile conseguenza storica. Tendiamo infatti spesso a concepire la nostra complessità come il prodotto di un percorso evolutivo che avrebbe premiato le formule economiche, sociali e politiche più adatte a garantire la sopravvivenza del genere umano facendo via via giustizia di tutto il resto – ossia di tutte le forme altre di complessità che non rientrano negli schemi a noi familiari.

Che questa visione delle cose sia quanto meno discutibile lo dimostrano i fatti: che si consideri il cambiamento climatico o il rischio di un conflitto nucleare, l’idea per cui le forme di gestione della vita collettiva e i modelli economici che sono diventati alla lunga dominanti sarebbero più efficaci da un punto di vista adattativo ne esce parecchio malconcia.

Studiare le società preistoriche come se fossero la semplice anticipazione evolutiva del mondo storico e, quindi, della realtà in cui viviamo non è solo fuorviante, ma anche limitante, perché ci porta a sviluppare un’idea molto riduttiva delle straordinarie possibilità della nostra specie. Possibilità che non riguardano solo la capacità di trovare soluzioni innovative a livello economico e tecnologico, ma anche a livello sociale, politico e più generalmente culturale.

Nei circa 60.000 anni che separano la comparsa dei primi esemplari di Homo sapiens cognitivamente moderni dalla nascita delle prime civiltà la nostra specie ha avuto probabilmente l’occasione di sperimentare più volte le conseguenze poco piacevoli dello sfruttamento indiscriminato delle risorse, della violenza e del dominio coercitivo sul prossimo: quello del “buon selvaggio” è un altro mito di cui dobbiamo liberarci, tanto più che come hanno sottolineato brillantemente David Graber e David Wengrow ne L’alba di tutto (edito in Italia da Rizzoli) esso sottintende in realtà quello assai meno lusinghiero dello “stupido selvaggio”. Nel corso della sua “storia profonda” l’umanità sembra però aver dimostrato a più riprese una notevole capacità di imparare dai propri errori.

Naturalmente ciò non significa che dobbiamo prendere le società neolitiche a modello di un’ipotetica società futura, né che dobbiamo rinunciare agli innegabili progressi resi possibili dall’avanzamento delle conoscenze e della tecnica in nome di una qualche forma di primitivismo. Significa, molto più semplicemente, che dobbiamo riscoprire la creatività sociale e politica di cui abbiamo dato prova per millenni e a cui, a quanto pare, abbiamo rinunciato nel momento in cui abbiamo ceduto a certe promesse (del tutto irrazionali) di controllo efficace sulla natura e sull’uomo e di crescita illimitata. Abbiamo iniziato a considerare “naturale” una certa idea di che cosa sia una persona e dei meccanismi che fanno funzionare una società, senza renderci conto di quanto queste idee siano in realtà un prodotto relativamente recente della nostra storia.

In che modo le testimonianze archeologiche supportano tale tesi?
Senza chiamare in causa l’archeologia, la prova forse più evidente del fatto che certe dinamiche non sono affatto inevitabili è che… siamo ancora qui. La nostra specie ha dimostrato di sapersi adattare brillantemente ai contesti climatici e ambientali più disparati e si è diffusa su tutto il pianeta, e sono dell’idea che in tutto questo abbia giocato un ruolo essenziale la stessa consapevolezza che ha consentito ai nostri antenati preistorici di sperimentare strategie economiche e formule sociali innovative senza lasciarsi troppo irretire dalle inevitabili tentazioni che ne derivavano. La capacità di cooperare e di imporre dei limiti culturali alle forme più distruttive di egoismo e aggressività è stata probabilmente uno dei fattori cruciali nella nostra vicenda evolutiva e storica.

 

Per quanto riguarda invece le possibili conferme archeologiche del carattere acefalo delle società neolitiche del Vicino Oriente, gli aspetti più rilevanti e intriganti mi sembrano tre: la struttura degli insediamenti, in cui l’omogeneità delle strutture abitative suggerisce una scarsa differenziazione sociale; le pratiche funerarie, che sembrano escludere l’esistenza di gerarchie sociali cristallizzate e permanenti; l’assenza di prove certe di violenza organizzata, che indica che i nostri antenati erano quanto meno recalcitranti a farsi la guerra a vicenda.

Che la definizione delle identità personali e collettive nel rapporto con il mondo circostante abbia giocato un ruolo centrale in tutto questo è, naturalmente, una tesi speculativa. Anche qui, però, gli elementi a supporto non mancano, e possono essere rintracciati in quello che siamo in grado di ricostruire, sia pure a livello congetturale, delle loro pratiche culturali e nelle manifestazioni espressive e artistiche di cui ci hanno lasciato testimonianza.

Nell’argomentare questa tesi ho preso spunto dalle ricerche e dal pensiero di archeologi e antropologi ai quali spero di aver reso adeguatamente giustizia, e mi auguro anzi che questo libro sia, per chi lo leggerà, uno stimolo ad approfondire ulteriormente.

Stefano Radaelli, nato in Veneto nel 1983, laureato in Filosofia e specializzato in Semiotica, ha operato per diversi anni nell’organizzazione di eventi musicali e lavora attualmente come collaboratore scolastico.



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