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martedì 4 luglio 2023
Esce "Identità preistoriche. Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente" di Stefano Radaelli. A cura di Roberto Maggi per Oltre Edizioni

di Francesca Meucci

A livello di cultura generale è ancora oggi molto diffusa l’idea secondo cui l’umanità avrebbe sperimentato una progressiva evoluzione da forme “semplici” e originariamente egalitarie di vita collettiva a società “complesse” inevitabilmente gerarchiche. La Rivoluzione Neolitica, ossia la nascita dei primi villaggi permanenti e delle prime economie agricole circa 10.000 anni fa, avrebbe rappresentato un punto di svolta decisivo, perché avrebbe instradato in modo irreversibile l’umanità su un percorso all’insegna della disuguaglianza e dello sfruttamento. I dati raccolti dagli archeologi in più di un secolo di studi sul Neolitico del Vicino Oriente, tuttavia, mettono in discussione questa ricostruzione. Sembra infatti che i nostri antenati neolitici siano riusciti a prevenire con successo per diversi millenni lo sviluppo di società stratificate e di istituzioni politiche centralizzate e oppressive, e questo nonostante le sfide generate dalla vita sedentaria e le allettanti opportunità offerte dalle nascenti economie di produzione. Ma dove risiede la chiave per risolvere questo (apparente) enigma? L’autore suggerisce che per tentare di comprendere l’organizzazione sociale preistorica dobbiamo ripensare alla radice il modo in cui definiamo nozioni come quelle di “persona”, “società” e “potere”, concentrandoci in particolare sulla complicata relazione di reciproca dipendenza che ci lega alle cose e sul rapporto altrettanto complesso che intratteniamo con le forze e le entità che ascriviamo da sempre alla sfera della trascendenza.

il libro

La tesi centrale di questo saggio è che la peculiarità delle forme di organizzazione delle società neolitiche sia dipesa da un’originale sinergia tra tendenze dividualistiche e tendenze egalitarie che trovò espressione in un’ampia varietà di fenomeni culturali e sociali: una peculiare concezione del corpo, rivelata in particolare dalle pratiche funerarie, dai temi figurativi e dall’arte plastica; un rapporto dinamico e spesso ambiguo con il nascente ambiente edificato e, più in generale, con la materialità (oggetti, elementi naturali, sostanze ecc.); una visione cosmologica che, attraverso la mediazione del rito, ispirava formule di vita collettiva flessibili e acefale. A creare un contesto favorevole a un modello di questo tipo sarebbe stata una molteplicità di fattori sia esterni che interni (stagionalità, diversificazione delle strategie di sussistenza, tendenze demografiche ecc.), mentre a garantire la sua incredibile sopravvivenza nel tempo (si parla di diversi millenni) sarebbero state formule culturali e politiche delle quali non sappiamo nulla per certo, ma sulle quali è possibile avanzare delle congetture a partire dalle testimonianze archeologiche. La risposta alla domanda su cosa abbia fatto sì che quelle società mantenessero un’organizzazione scarsamente stratificata nonostante le allettanti opportunità offerte dalla nascente economia agricola, insomma, è che i nostri antenati neolitici pensavano se stessi in modo differente da come ci pensiamo noi oggi, tanto come persone quanto come collettività. Si tratta chiaramente di una tesi speculativa, non di un’ipotesi scientifica. Così come non è possibile provarla in modo conclusivo sarebbe anche difficile falsificarla. Penso tuttavia che le testimonianze archeologiche, per quanto frammentarie e spesso contraddittorie, nell’insieme la supportino in modo convincente  (dall’introduzione)

l'autore

Stefano Radaelli, nato in Veneto nel 1983, laureato in Filosofia e specializzato in Semiotica, ha operato per diversi anni nell'organizzazione di eventi musicali e lavora attualmente come collaboratore scolastico. “Identità preistoriche” è il frutto di tre anni di ricerca indipendente, condotta con l’obiettivo di rendere note a un pubblico più ampio alcune delle teorie più interessanti sviluppate negli ultimi decenni da antropologi e archeologi su temi come le origini della disuguaglianza e il rapporto tra rito, identità e organizzazione collettiva.

la copertina

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martedì 4 luglio 2023
"Identità preistoriche" di Stefano Radaelli per Oltre Edizioni
Esce "Identità preistoriche. Potere, disuguaglianza e rito nelle società neolitiche del Vicino Oriente" di Stefano Radaelli. A cura di Roberto Maggi per Oltre Edizioni

di Francesca Meucci

A livello di cultura generale è ancora oggi molto diffusa l’idea secondo cui l’umanità avrebbe sperimentato una progressiva evoluzione da forme “semplici” e originariamente egalitarie di vita collettiva a società “complesse” inevitabilmente gerarchiche. La Rivoluzione Neolitica, ossia la nascita dei primi villaggi permanenti e delle prime economie agricole circa 10.000 anni fa, avrebbe rappresentato un punto di svolta decisivo, perché avrebbe instradato in modo irreversibile l’umanità su un percorso all’insegna della disuguaglianza e dello sfruttamento. I dati raccolti dagli archeologi in più di un secolo di studi sul Neolitico del Vicino Oriente, tuttavia, mettono in discussione questa ricostruzione. Sembra infatti che i nostri antenati neolitici siano riusciti a prevenire con successo per diversi millenni lo sviluppo di società stratificate e di istituzioni politiche centralizzate e oppressive, e questo nonostante le sfide generate dalla vita sedentaria e le allettanti opportunità offerte dalle nascenti economie di produzione. Ma dove risiede la chiave per risolvere questo (apparente) enigma? L’autore suggerisce che per tentare di comprendere l’organizzazione sociale preistorica dobbiamo ripensare alla radice il modo in cui definiamo nozioni come quelle di “persona”, “società” e “potere”, concentrandoci in particolare sulla complicata relazione di reciproca dipendenza che ci lega alle cose e sul rapporto altrettanto complesso che intratteniamo con le forze e le entità che ascriviamo da sempre alla sfera della trascendenza.

il libro

La tesi centrale di questo saggio è che la peculiarità delle forme di organizzazione delle società neolitiche sia dipesa da un’originale sinergia tra tendenze dividualistiche e tendenze egalitarie che trovò espressione in un’ampia varietà di fenomeni culturali e sociali: una peculiare concezione del corpo, rivelata in particolare dalle pratiche funerarie, dai temi figurativi e dall’arte plastica; un rapporto dinamico e spesso ambiguo con il nascente ambiente edificato e, più in generale, con la materialità (oggetti, elementi naturali, sostanze ecc.); una visione cosmologica che, attraverso la mediazione del rito, ispirava formule di vita collettiva flessibili e acefale. A creare un contesto favorevole a un modello di questo tipo sarebbe stata una molteplicità di fattori sia esterni che interni (stagionalità, diversificazione delle strategie di sussistenza, tendenze demografiche ecc.), mentre a garantire la sua incredibile sopravvivenza nel tempo (si parla di diversi millenni) sarebbero state formule culturali e politiche delle quali non sappiamo nulla per certo, ma sulle quali è possibile avanzare delle congetture a partire dalle testimonianze archeologiche. La risposta alla domanda su cosa abbia fatto sì che quelle società mantenessero un’organizzazione scarsamente stratificata nonostante le allettanti opportunità offerte dalla nascente economia agricola, insomma, è che i nostri antenati neolitici pensavano se stessi in modo differente da come ci pensiamo noi oggi, tanto come persone quanto come collettività. Si tratta chiaramente di una tesi speculativa, non di un’ipotesi scientifica. Così come non è possibile provarla in modo conclusivo sarebbe anche difficile falsificarla. Penso tuttavia che le testimonianze archeologiche, per quanto frammentarie e spesso contraddittorie, nell’insieme la supportino in modo convincente  (dall’introduzione)

l'autore

Stefano Radaelli, nato in Veneto nel 1983, laureato in Filosofia e specializzato in Semiotica, ha operato per diversi anni nell'organizzazione di eventi musicali e lavora attualmente come collaboratore scolastico. “Identità preistoriche” è il frutto di tre anni di ricerca indipendente, condotta con l’obiettivo di rendere note a un pubblico più ampio alcune delle teorie più interessanti sviluppate negli ultimi decenni da antropologi e archeologi su temi come le origini della disuguaglianza e il rapporto tra rito, identità e organizzazione collettiva.

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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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