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Bruno Lauzi: “Ora dicono fosse un poeta”
Metropolitan Magazine di mercoledě 9 agosto 2023
“Il compito del poeta č ricomporre armonie spezzate”. Questo diceva Bruno Lauzi, che non poteva non essere, oltre il pregevole cantautore, un poeta profondo e notevole. Un demone, un vizio, a fare il poeta ci vuole mestiere. E lui lo fece, anche da incompreso

di Federica De Candia

La poesia di Lauzi, gioventù, amore e Genova

Bruno Lauzi, foto da YouTube
Bruno Lauzi, foto da YouTube

C’era da sospettarlo. Da capirlo al primo ascolto. L’autore di “Genova per noi”, “Ritornerai”, “Amore caro amore bello”, “Onda su onda”, ha l’anima e la coscienza del poeta. Non solo spartiti, ad accogliere le sue ispirazioni. Ma scritti, appunti fugaci e nobili, di quel paroliere sorprendente e raffinato. Vere poesie, che però la critica ha faticato ad apprezzare, non considerandole come dovuto, sospettosa verso chiunque provenisse dal successo in altri campi artistici. Ma lui, per nulla meravigliato, era solito dire: «Il successo è meritarsi un Oscar senza neanche fare l’attore cinematografico». La canzone a cui Lauzi rimane da sempre legato è proprio intitolata “Il poeta“, scritta nel 1961: “Ora dicono, fosse un poeta Che sapesse parlare d’amore Cosa importa se in fondo uno muore E non può più parlare di te“. Sono quattro i libri di poesia che Lauzi ha pubblicato: “Mari interni” (1994), “Riapprodi “(1997), “Versi facili“(1999), “Esercizi di sguardo” (2002), postumo uscirà “Agli immobili cieli” (2010).

Ricomporre armonie” (Poesie 1992 – 2006) per OLTRE edizioni, è un volume che raccoglie l’intera opera poetica di Bruno Lauzi. Il titolo è tratto dal primo verso di una sua poesia, ed è curato da Francesco De Nicola, grande amico del cantautore genovese e per anni il primo lettore dei suoi testi. Le parole che Bruno Lauzi sceglie, sono leste a entrare nel cuore. Sono nude e semplici. Possono ferire, colpire come incantare. L’amore, la giovinezza, Genova luogo di speranza e malinconia; questi i temi che si mescolano nei versi. Con la stessa ironia e amarezza, e la naturale indole al “mugugno” genovese, che mette in note musicali. Come gli chansonnier francesi che tanto amava, con la stessa melensa attitudine. E per sua stessa ammissione: «scrivo canzoni tristi, perché quando sono allegro, esco».

Cattedrali di poesia

Cresciuto a Genova, Lauzi è tra i fondatori ed esponenti della scuola cantautorale genovese. Ma nessuno era lì per esser professore o salire in cattedra, precisa lo stesso Lauzi. E insieme, quasi per gioco, hanno dato alle parole e ai testi, la stessa dignità della musica. Loro, componenti di questa scuola all’avanguardia, sono Fabrizio De André, Umberto Bindi, Sergio Endrigo, Gino Paoli e Luigi Tenco. Quest’ultimo è suo compagno di banco al ginnasio. Qualcuno ha ipotizzato che parlasse proprio di lui (ma in quell’anno Tenco è ancora vivo), la canzone “Il poeta”. Che rimane chiusa in un cassetto per un po’, perché non aveva avuto il “visto” della censura, a causa del rifiuto di togliere il verso che si riferisce al suicidio del protagonista. Lauzi era rimasto profondamente scosso dal suicidio dell’amato amico, avvenuto durante il festival di Sanremo 1967.

Bruno Lauzi, ha scritto anche “Il caso del pompelmo levigato” (2005, Bompiani), in cui inventa parole ed è riduttivo chiamarlo romanzo; e una autobiografia “Tanto domani mi sveglio” (2006, Gammarò Edizioni), dove troviamo anneddoti, retroscena piccanti o patetici, la vicenda Tortora, il suicidio Tenco, o la discesa in campo di Berlusconi vista da un’angolatura privilegiata e originale. Quando comincia a soffrire di una gravissima forma di Parkinson, Lauzi ha anche la forza di scherzare. L’ironia è il suo placebo. Scrive e indirizza una lettera a Mr. Parkinson, che finiva così: “Parola mia, di questo omino per molti un po’ buffo, per altri un po’ patetico, ma che vive il sogno di poterla, un giorno non lontano, prendere a schiaffi. A mano ferma“.

La generosità di Bruno Lauzi

Promuove diverse iniziative per la raccolta di fondi per lo studio e l’assistenza agli ammalati di Parkinson, con una serie di dischi e poesie appositamente dedicati. Regala i diritti d’autore dei suoi versi, “La mano“, che compose quando ormai il suo sistema nervoso si ribellava alla sua volontà. E utilizza i proventi delle sue poesie per inventare gadget, brevettare camicie con specifici bottoni a strappo. La figura della mano, stampata su oggetti e manifesti dell’Associazione Italiana Parkinsoniani, con la sua omonima poesia, parlano del tremore del suo arto dovuto al forte parkinsonismo. Ma anche della coraggiosa voglia di non arrendersi. “L’unica che mi sopravviverà”, dice Bruno Lauzi parlando della sua Il poeta, canzone dal titolo profetico. Lui resta il suo eterno autore. Un campione, come quello cantato, che non ha mai sbagliato un colpo, anche sferrato dalla sua mano tremante. «Alle carte era un vero campione/ lo chiamavano il ras del quartiere/ ma una sera, giocando a scopone/ perse un punto parlando di te».

 

La mia mano a farfalla
bestiola spaventata
frullo d’ali improvviso
di preda impallinata
di rifugio in rifugio
di taschino in taschino
ha una sola speranza;
che voi dimentichiate
le sue dita agitate
che riempion la stanza
mentre s’inventa il vento
o racconta il mare…

Nata per lavorare
sul palco della vita
per farsi perdonare
arranca inutilmente,
eppure l’ho avvertita:
faccia quel che si sente,
io la continuo ad amare,
pur se perdutamente…

Federica De Candia

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“Il compito del poeta č ricomporre armonie spezzate”. Questo diceva Bruno Lauzi, che non poteva non essere, oltre il pregevole cantautore, un poeta profondo e notevole. Un demone, un vizio, a fare il poeta ci vuole mestiere. E lui lo fece, anche da incompreso

di Federica De Candia

La poesia di Lauzi, gioventù, amore e Genova

Bruno Lauzi, foto da YouTube
Bruno Lauzi, foto da YouTube

C’era da sospettarlo. Da capirlo al primo ascolto. L’autore di “Genova per noi”, “Ritornerai”, “Amore caro amore bello”, “Onda su onda”, ha l’anima e la coscienza del poeta. Non solo spartiti, ad accogliere le sue ispirazioni. Ma scritti, appunti fugaci e nobili, di quel paroliere sorprendente e raffinato. Vere poesie, che però la critica ha faticato ad apprezzare, non considerandole come dovuto, sospettosa verso chiunque provenisse dal successo in altri campi artistici. Ma lui, per nulla meravigliato, era solito dire: «Il successo è meritarsi un Oscar senza neanche fare l’attore cinematografico». La canzone a cui Lauzi rimane da sempre legato è proprio intitolata “Il poeta“, scritta nel 1961: “Ora dicono, fosse un poeta Che sapesse parlare d’amore Cosa importa se in fondo uno muore E non può più parlare di te“. Sono quattro i libri di poesia che Lauzi ha pubblicato: “Mari interni” (1994), “Riapprodi “(1997), “Versi facili“(1999), “Esercizi di sguardo” (2002), postumo uscirà “Agli immobili cieli” (2010).

Ricomporre armonie” (Poesie 1992 – 2006) per OLTRE edizioni, è un volume che raccoglie l’intera opera poetica di Bruno Lauzi. Il titolo è tratto dal primo verso di una sua poesia, ed è curato da Francesco De Nicola, grande amico del cantautore genovese e per anni il primo lettore dei suoi testi. Le parole che Bruno Lauzi sceglie, sono leste a entrare nel cuore. Sono nude e semplici. Possono ferire, colpire come incantare. L’amore, la giovinezza, Genova luogo di speranza e malinconia; questi i temi che si mescolano nei versi. Con la stessa ironia e amarezza, e la naturale indole al “mugugno” genovese, che mette in note musicali. Come gli chansonnier francesi che tanto amava, con la stessa melensa attitudine. E per sua stessa ammissione: «scrivo canzoni tristi, perché quando sono allegro, esco».

Cattedrali di poesia

Cresciuto a Genova, Lauzi è tra i fondatori ed esponenti della scuola cantautorale genovese. Ma nessuno era lì per esser professore o salire in cattedra, precisa lo stesso Lauzi. E insieme, quasi per gioco, hanno dato alle parole e ai testi, la stessa dignità della musica. Loro, componenti di questa scuola all’avanguardia, sono Fabrizio De André, Umberto Bindi, Sergio Endrigo, Gino Paoli e Luigi Tenco. Quest’ultimo è suo compagno di banco al ginnasio. Qualcuno ha ipotizzato che parlasse proprio di lui (ma in quell’anno Tenco è ancora vivo), la canzone “Il poeta”. Che rimane chiusa in un cassetto per un po’, perché non aveva avuto il “visto” della censura, a causa del rifiuto di togliere il verso che si riferisce al suicidio del protagonista. Lauzi era rimasto profondamente scosso dal suicidio dell’amato amico, avvenuto durante il festival di Sanremo 1967.

Bruno Lauzi, ha scritto anche “Il caso del pompelmo levigato” (2005, Bompiani), in cui inventa parole ed è riduttivo chiamarlo romanzo; e una autobiografia “Tanto domani mi sveglio” (2006, Gammarò Edizioni), dove troviamo anneddoti, retroscena piccanti o patetici, la vicenda Tortora, il suicidio Tenco, o la discesa in campo di Berlusconi vista da un’angolatura privilegiata e originale. Quando comincia a soffrire di una gravissima forma di Parkinson, Lauzi ha anche la forza di scherzare. L’ironia è il suo placebo. Scrive e indirizza una lettera a Mr. Parkinson, che finiva così: “Parola mia, di questo omino per molti un po’ buffo, per altri un po’ patetico, ma che vive il sogno di poterla, un giorno non lontano, prendere a schiaffi. A mano ferma“.

La generosità di Bruno Lauzi

Promuove diverse iniziative per la raccolta di fondi per lo studio e l’assistenza agli ammalati di Parkinson, con una serie di dischi e poesie appositamente dedicati. Regala i diritti d’autore dei suoi versi, “La mano“, che compose quando ormai il suo sistema nervoso si ribellava alla sua volontà. E utilizza i proventi delle sue poesie per inventare gadget, brevettare camicie con specifici bottoni a strappo. La figura della mano, stampata su oggetti e manifesti dell’Associazione Italiana Parkinsoniani, con la sua omonima poesia, parlano del tremore del suo arto dovuto al forte parkinsonismo. Ma anche della coraggiosa voglia di non arrendersi. “L’unica che mi sopravviverà”, dice Bruno Lauzi parlando della sua Il poeta, canzone dal titolo profetico. Lui resta il suo eterno autore. Un campione, come quello cantato, che non ha mai sbagliato un colpo, anche sferrato dalla sua mano tremante. «Alle carte era un vero campione/ lo chiamavano il ras del quartiere/ ma una sera, giocando a scopone/ perse un punto parlando di te».

 

La mia mano a farfalla
bestiola spaventata
frullo d’ali improvviso
di preda impallinata
di rifugio in rifugio
di taschino in taschino
ha una sola speranza;
che voi dimentichiate
le sue dita agitate
che riempion la stanza
mentre s’inventa il vento
o racconta il mare…

Nata per lavorare
sul palco della vita
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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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