La poesia di Lauzi, gioventù, amore e Genova
C’era da sospettarlo. Da capirlo al primo ascolto. L’autore di “Genova per noi”, “Ritornerai”, “Amore caro amore bello”, “Onda su onda”, ha l’anima e la coscienza del poeta. Non solo spartiti, ad accogliere le sue ispirazioni. Ma scritti, appunti fugaci e nobili, di quel paroliere sorprendente e raffinato. Vere poesie, che però la critica ha faticato ad apprezzare, non considerandole come dovuto, sospettosa verso chiunque provenisse dal successo in altri campi artistici. Ma lui, per nulla meravigliato, era solito dire: «Il successo è meritarsi un Oscar senza neanche fare l’attore cinematografico». La canzone a cui Lauzi rimane da sempre legato è proprio intitolata “Il poeta“, scritta nel 1961: “Ora dicono, fosse un poeta Che sapesse parlare d’amore Cosa importa se in fondo uno muore E non può più parlare di te“. Sono quattro i libri di poesia che Lauzi ha pubblicato: “Mari interni” (1994), “Riapprodi “(1997), “Versi facili“(1999), “Esercizi di sguardo” (2002), postumo uscirà “Agli immobili cieli” (2010).
Cattedrali di poesia
Cresciuto a Genova, Lauzi è tra i fondatori ed esponenti della scuola cantautorale genovese. Ma nessuno era lì per esser professore o salire in cattedra, precisa lo stesso Lauzi. E insieme, quasi per gioco, hanno dato alle parole e ai testi, la stessa dignità della musica. Loro, componenti di questa scuola all’avanguardia, sono Fabrizio De André, Umberto Bindi, Sergio Endrigo, Gino Paoli e Luigi Tenco. Quest’ultimo è suo compagno di banco al ginnasio. Qualcuno ha ipotizzato che parlasse proprio di lui (ma in quell’anno Tenco è ancora vivo), la canzone “Il poeta”. Che rimane chiusa in un cassetto per un po’, perché non aveva avuto il “visto” della censura, a causa del rifiuto di togliere il verso che si riferisce al suicidio del protagonista. Lauzi era rimasto profondamente scosso dal suicidio dell’amato amico, avvenuto durante il festival di Sanremo 1967.
Bruno Lauzi, ha scritto anche “Il caso del pompelmo levigato” (2005, Bompiani), in cui inventa parole ed è riduttivo chiamarlo romanzo; e una autobiografia “Tanto domani mi sveglio” (2006, Gammarò Edizioni), dove troviamo anneddoti, retroscena piccanti o patetici, la vicenda Tortora, il suicidio Tenco, o la discesa in campo di Berlusconi vista da un’angolatura privilegiata e originale. Quando comincia a soffrire di una gravissima forma di Parkinson, Lauzi ha anche la forza di scherzare. L’ironia è il suo placebo. Scrive e indirizza una lettera a Mr. Parkinson, che finiva così: “Parola mia, di questo omino per molti un po’ buffo, per altri un po’ patetico, ma che vive il sogno di poterla, un giorno non lontano, prendere a schiaffi. A mano ferma“.
La generosità di Bruno Lauzi
Promuove diverse iniziative per la raccolta di fondi per lo studio e l’assistenza agli ammalati di Parkinson, con una serie di dischi e poesie appositamente dedicati. Regala i diritti d’autore dei suoi versi, “La mano“, che compose quando ormai il suo sistema nervoso si ribellava alla sua volontà. E utilizza i proventi delle sue poesie per inventare gadget, brevettare camicie con specifici bottoni a strappo. La figura della mano, stampata su oggetti e manifesti dell’Associazione Italiana Parkinsoniani, con la sua omonima poesia, parlano del tremore del suo arto dovuto al forte parkinsonismo. Ma anche della coraggiosa voglia di non arrendersi. “L’unica che mi sopravviverà”, dice Bruno Lauzi parlando della sua Il poeta, canzone dal titolo profetico. Lui resta il suo eterno autore. Un campione, come quello cantato, che non ha mai sbagliato un colpo, anche sferrato dalla sua mano tremante. «Alle carte era un vero campione/ lo chiamavano il ras del quartiere/ ma una sera, giocando a scopone/ perse un punto parlando di te».
La mia mano a farfalla
bestiola spaventata
frullo d’ali improvviso
di preda impallinata
di rifugio in rifugio
di taschino in taschino
ha una sola speranza;
che voi dimentichiate
le sue dita agitate
che riempion la stanza
mentre s’inventa il vento
o racconta il mare…Nata per lavorare
sul palco della vita
per farsi perdonare
arranca inutilmente,
eppure l’ho avvertita:
faccia quel che si sente,
io la continuo ad amare,
pur se perdutamente…
Federica De Candia
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