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*La catena spezzata* di Giorgetta Dorfles
Sololibri.net di martedì 22 agosto 2023
Vive a Trieste, Giorgetta Dorfles. Giornalista, fotografa, autrice di poesie, romanzi e racconti, vanta un curriculum impressionante. Ha girato cortometraggi premiati, è stata editor nella pubblicità, fotoreporter...

di Felice Laudadio

Vive a Trieste, Giorgetta Dorfles. Giornalista, fotografa, autrice di poesie, romanzi e racconti, vanta un curriculum impressionante. Ha girato cortometraggi premiati, è stata editor nella pubblicità, fotoreporter per alcuni quotidiani, aiuto regista e sceneggiatrice per la televisione. Da narratrice, il contributo più recente è la raccolta di sedici racconti triestini, La catena spezzata, pubblicata nel 2022 da Gammarò, del gruppo editoriale Oltre, di Sestri Levante (collana “Le opere e i giorni”, 152 pagine).

Giorgetta Dorfles è nata a Volterra e ha vissuto fin dai primi anni a Trieste, dove si è laureata in Lettere moderne, con tesi in estetica. Trasferita nella capitale, ha fotografato per Il giornale di Roma, lavorato in un’agenzia pubblicitaria e da aiuto regista e sceneggiatore di documentari per una società di produzioni televisive.
Tornata a Trieste, collabora come giornalista freelance alle pagine culturali di alcuni giornali (Meridiano, Il Piccolo, Trieste Oggi) con recensioni di libri, interviste e inchieste, corredate anche da servizi fotografici.
Sue poesie appaiono in opere selezionate in concorsi nazionali. Suoi racconti sono inclusi nelle antologie La nostra gente racconta (Vita Nuova,1989), Trieste e un manicomio (Lint, 1998) e Racconti triestini (Arbor librorum edizioni, 2011).
Nel 2006 ha realizzato una serie di videopoesie, dal titolo Inclusioni, proiettata in rassegne nazionali. Come fotografa ha esposto nella Galleria Comunale d’Arte di Trieste in due mostre personali. Nel 2008 è uscito, per i tipi dell’editore Il ramo d’oro, il romanzo Errata Corrige. Reportage di una nevrosi. Nel 2011 per le stesse edizioni ha pubblicato una silloge di poesie che include una videopoesia e foto dell’autrice. Nel 2019 è uscito per Manni editori il libro di racconti Di tutti i peccati delle donne.

Il critico d’arte, pittore e filosofo Gillo Dorfles, uno dei protagonisti della cultura italiana del Novecento, ha scritto per lei e Paolo il famoso Abbecedario, realizzato nei primi anni Cinquanta per i figli del fratello Giorgio, scolaretti o remigini, come si dirà un decennio dopo, quando l’anno scolastico si apriva il 1 ottobre, San Remigio. L’album è stato pubblicato solo settant’anni dopo e se personaggi e immagini erano di fantasia e mano dello zio, è proprio Giorgetta ad avere ha trascritto con la sua calligrafia i testi, le didascalie sotto i disegni.

Numeri bizzarri per i bambini e soprattutto lettere dell’alfabeto originali e tutt’altro che convenzionali (R come Rodomonte, altro che rana; M come Macaco, non mela; L come Lampreda, non lumaca). Crittogrammi, in qualche modo, ch’è il titolo di uno dei sedici testi brevi della Dorfles nipote. Qualcuno vi trasforma e stesso e il proprio ultimo atto in un messaggio criptico, in continuità con la passione per i messaggi cifrati.
Ritiene che l’essere stata avviata alla lettura fin da bambina le abbia suggerito la possibilità di poter creare a sua volta delle storie. Tema e contenuto comune è un legame che si spezza, con cui tutti si misurano nei sedici racconti, che sono in qualche modo prodotti della pandemia.
Durante l’isolamento, Giorgetta Dorfles ha pensato di rielaborare dei vecchi racconti, quelli più aderenti al clima grigio del momento. A quel punto, per completare una raccolta avrebbe dovuto aggiungerne altri e la catena spezzata ha segnato la traccia da seguire. Nell’adolescenza ha scritto poesie, apprezzate dalla poetessa triestina Lina Galli, che l’aveva incoraggiata a continuare. I racconti sono arrivati più tardi, quando ormai aveva “esperienze di vita da cui trarre ispirazione”.

L’identità storica promiscua di Trieste rientra perfettamente nel contesto. Una città in bilico lungo “un confine labile” non può non imprimere un senso d’instabilità sulla pelle di chi vive in questo habitat diviso di confine. Non si dice a caso “Triestini mezzi matti” e Basaglia è ha spalancato proprio qui i cancelli dei manicomi.

In effetti, c’è un che di psichiatrico nelle storie di Giorgetta. La catena spezzata è uno dei racconti, breve più di altri. Rebecca tenta di riannodare il filo della vita, rotto dalla sua ipocondria. Forse la catena del Dna si è spezzata, tagliando fuori il lato femminile, allorché si era sentita abbandonata e tradita per l’arrivo di un fratello più coccolato e apprezzato. Si era vendicata della madre e sintonizzata sul padre, pur poco presente quand’era bambina, assorbito dal lavoro.
Per questo, deve ripescare la propria parte femminile unendola alla maschile, fino ad armonizzarle. Unire la forza alla calma, “il pessimismo ansioso alla gioiosa fiducia”. Ma prima deve chiedere perdono alla madre, che ha voluto allontanare, rinnegandone le doti.

Un’altra vita è spezzata ne L’infarto, che colpisce il padre della protagonista di un altro dei racconti. La parola che suona minacciosa, al pari dell’infarto che genera il senso di colpa della figlia. Coglie l’avvocato parecchi anni dopo, benché in piena forma: asciutto, senza un filo di colesterolo, ottantenne pienamente attivo.
Profondo e struggente il rapporto con la mamma, che Giorgetta descrive costretta dai medici a letto in ospedale.
Novantasettenne, l’anziana non comprende la ragione della costrizione: il suo cervello danneggiato dalla demenza senile non riesce più a sintonizzarsi sulla realtà. In lei però sopravvive forte lo spirito d’indipendenza, reclama il suo diritto di alzarsi per andare in bagno, con un tono che da autoritario diventa supplice. Resasi conto che la supplica è vana, prende a smaniare, piegando le gambe e tentando di metterle oltre le sponde del letto, per andare via, lontano, secondo un istinto quasi animale.



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Vive a Trieste, Giorgetta Dorfles. Giornalista, fotografa, autrice di poesie, romanzi e racconti, vanta un curriculum impressionante. Ha girato cortometraggi premiati, è stata editor nella pubblicità, fotoreporter...

di Felice Laudadio

Vive a Trieste, Giorgetta Dorfles. Giornalista, fotografa, autrice di poesie, romanzi e racconti, vanta un curriculum impressionante. Ha girato cortometraggi premiati, è stata editor nella pubblicità, fotoreporter per alcuni quotidiani, aiuto regista e sceneggiatrice per la televisione. Da narratrice, il contributo più recente è la raccolta di sedici racconti triestini, La catena spezzata, pubblicata nel 2022 da Gammarò, del gruppo editoriale Oltre, di Sestri Levante (collana “Le opere e i giorni”, 152 pagine).

Giorgetta Dorfles è nata a Volterra e ha vissuto fin dai primi anni a Trieste, dove si è laureata in Lettere moderne, con tesi in estetica. Trasferita nella capitale, ha fotografato per Il giornale di Roma, lavorato in un’agenzia pubblicitaria e da aiuto regista e sceneggiatore di documentari per una società di produzioni televisive.
Tornata a Trieste, collabora come giornalista freelance alle pagine culturali di alcuni giornali (Meridiano, Il Piccolo, Trieste Oggi) con recensioni di libri, interviste e inchieste, corredate anche da servizi fotografici.
Sue poesie appaiono in opere selezionate in concorsi nazionali. Suoi racconti sono inclusi nelle antologie La nostra gente racconta (Vita Nuova,1989), Trieste e un manicomio (Lint, 1998) e Racconti triestini (Arbor librorum edizioni, 2011).
Nel 2006 ha realizzato una serie di videopoesie, dal titolo Inclusioni, proiettata in rassegne nazionali. Come fotografa ha esposto nella Galleria Comunale d’Arte di Trieste in due mostre personali. Nel 2008 è uscito, per i tipi dell’editore Il ramo d’oro, il romanzo Errata Corrige. Reportage di una nevrosi. Nel 2011 per le stesse edizioni ha pubblicato una silloge di poesie che include una videopoesia e foto dell’autrice. Nel 2019 è uscito per Manni editori il libro di racconti Di tutti i peccati delle donne.

Il critico d’arte, pittore e filosofo Gillo Dorfles, uno dei protagonisti della cultura italiana del Novecento, ha scritto per lei e Paolo il famoso Abbecedario, realizzato nei primi anni Cinquanta per i figli del fratello Giorgio, scolaretti o remigini, come si dirà un decennio dopo, quando l’anno scolastico si apriva il 1 ottobre, San Remigio. L’album è stato pubblicato solo settant’anni dopo e se personaggi e immagini erano di fantasia e mano dello zio, è proprio Giorgetta ad avere ha trascritto con la sua calligrafia i testi, le didascalie sotto i disegni.

Numeri bizzarri per i bambini e soprattutto lettere dell’alfabeto originali e tutt’altro che convenzionali (R come Rodomonte, altro che rana; M come Macaco, non mela; L come Lampreda, non lumaca). Crittogrammi, in qualche modo, ch’è il titolo di uno dei sedici testi brevi della Dorfles nipote. Qualcuno vi trasforma e stesso e il proprio ultimo atto in un messaggio criptico, in continuità con la passione per i messaggi cifrati.
Ritiene che l’essere stata avviata alla lettura fin da bambina le abbia suggerito la possibilità di poter creare a sua volta delle storie. Tema e contenuto comune è un legame che si spezza, con cui tutti si misurano nei sedici racconti, che sono in qualche modo prodotti della pandemia.
Durante l’isolamento, Giorgetta Dorfles ha pensato di rielaborare dei vecchi racconti, quelli più aderenti al clima grigio del momento. A quel punto, per completare una raccolta avrebbe dovuto aggiungerne altri e la catena spezzata ha segnato la traccia da seguire. Nell’adolescenza ha scritto poesie, apprezzate dalla poetessa triestina Lina Galli, che l’aveva incoraggiata a continuare. I racconti sono arrivati più tardi, quando ormai aveva “esperienze di vita da cui trarre ispirazione”.

L’identità storica promiscua di Trieste rientra perfettamente nel contesto. Una città in bilico lungo “un confine labile” non può non imprimere un senso d’instabilità sulla pelle di chi vive in questo habitat diviso di confine. Non si dice a caso “Triestini mezzi matti” e Basaglia è ha spalancato proprio qui i cancelli dei manicomi.

In effetti, c’è un che di psichiatrico nelle storie di Giorgetta. La catena spezzata è uno dei racconti, breve più di altri. Rebecca tenta di riannodare il filo della vita, rotto dalla sua ipocondria. Forse la catena del Dna si è spezzata, tagliando fuori il lato femminile, allorché si era sentita abbandonata e tradita per l’arrivo di un fratello più coccolato e apprezzato. Si era vendicata della madre e sintonizzata sul padre, pur poco presente quand’era bambina, assorbito dal lavoro.
Per questo, deve ripescare la propria parte femminile unendola alla maschile, fino ad armonizzarle. Unire la forza alla calma, “il pessimismo ansioso alla gioiosa fiducia”. Ma prima deve chiedere perdono alla madre, che ha voluto allontanare, rinnegandone le doti.

Un’altra vita è spezzata ne L’infarto, che colpisce il padre della protagonista di un altro dei racconti. La parola che suona minacciosa, al pari dell’infarto che genera il senso di colpa della figlia. Coglie l’avvocato parecchi anni dopo, benché in piena forma: asciutto, senza un filo di colesterolo, ottantenne pienamente attivo.
Profondo e struggente il rapporto con la mamma, che Giorgetta descrive costretta dai medici a letto in ospedale.
Novantasettenne, l’anziana non comprende la ragione della costrizione: il suo cervello danneggiato dalla demenza senile non riesce più a sintonizzarsi sulla realtà. In lei però sopravvive forte lo spirito d’indipendenza, reclama il suo diritto di alzarsi per andare in bagno, con un tono che da autoritario diventa supplice. Resasi conto che la supplica è vana, prende a smaniare, piegando le gambe e tentando di metterle oltre le sponde del letto, per andare via, lontano, secondo un istinto quasi animale.



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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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