CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
"Una vita in secca" di Aljoša Curavić
Ponte rosso n. 44 di venerdě 3 maggio 2019
Rivista PONTE ROSSO n. 44

di Walter Chiereghin

Una vita in secca, un romanzo di Aljoša Curavić
di Walter Chiereghin

Naturalmente, un manoscritto» titola così Umberto Eco la sua premessa al Nome della rosa e pare essere quasi una convenzione, nel patto narrativo tra scrittore e lettore, la supposta esistenza di un testo - normalmente pervenuto attraverso tortuosi eventi e fortuite circostanze nelle mani dell’autore - che può avvalersi così di un preteso attestato di autenticità nell’invenzione della sua finzione. Espediente usato, oltre che nel romanzo di Eco, per esempio, anche nei Promessi sposi, o nella Taverna del doge Loredan di Alberto Ongaro. Adesso utilizzato anche da Aljoša Curavić in Una vita in secca, ma le analogie con gli altri tre illustri precedenti terminano qui.
Se è difatti vero che la vicenda parte dal memoriale romanzato di un medico veneziano di origini istriane sparito in un misterioso disastro aereo, documento pervenuto a un suo amico di New Orleans, le analogie con i tre romanzi citati si fermano qui perché il libro di Curavić procede poi in una forma estremamente originale, disarticolando la narrazione fino al punto di far quasi confondere la forma romanzo in una sorta di raccolta di racconti, nei quali soltanto il riproporsi dei medesimi personaggi che si manifestano in un procedere cronologicamente abbastanza ordinato ricorda al lettore che è in presenza di un’opera fortemente unitaria e tuttavia complessa, come del resto è l’identità dell’autore. Aljoša Curavić, classe 1960, giornalista, caporedattore a Radio Capodistria, è un cittadino sloveno, con cognome croato, di nazionalità italiana. Dati anagrafici sufficienti per tracciare un profilo personale complicato, che si riflette, nella sua complessità identitaria, anche nell’opera letteraria, che in questo romanzo assume particolare pregnanza, al punto che esso risulta essere il racconto di una vita vissuta fra le risacche linguistiche e culturali di due mondi» (p. 9). Ecco, è in questa confessione, posta quasi in esergo del volume, che inizia a profilarsi l’ipotesi che il vero protagonista non sia Luca Sinicovich, il redattore del memoriale, né il suo alter ego Davide Santin, che agisce all’interno del testo, e neppure Johnny K. Paries di New Orleans, che per primo legge il malloppo: ciò di cui si parla nel libro di Curavić è la frontiera, il confine, con la risacca, appunto, dei suoi avanti-indietro sulle terre dell’Istria, che nel corso di un secolo ha visto succedersi cinque organizzazioni statuali diverse, nell’incontro e nello scontro di tre lingue differenti, quattro anzi, considerando pure il tedesco, per non parlare dei dialetti.
C’è una metafora che rincorre se stessa nel libro, quella appunto della risacca, della secca presente fin dal titolo, di un mare che si ritira lasciandosi dietro fango, detriti e pozze, un mare che è a sua volta esplicitamente metafora di un confine con la sua linea d’orizzonte, l’acqua che reca morte e distruzione, dall’uragano Katrina in Louisiana, a un 6 novembre istriano quando molti fiumi ruppero gli argini e sconquassarono e funestarono molte città. Le pianure affogarono nella mota. Il respiro cupo delle viscere della terra raggiunse anche Castello […]» (p. 46).
Castello è il nome della cittadina costiera nei pressi del confine con l’Italia, un nome immaginario e rigorosamente bilingue: Castello/Kaštel, da quando è diventata jugoslava e poi slovena, dopo esser stata austriaca e italiana. Città di mare, ma anche di acquitrini e di saline, nelle aree bonificate nelle quali si è insediato un porto importante, fino a diventare più esteso del centro cittadino, il più importante porto (ma anche l’unico) della Repubblica slovena. Dalle sue rive, dalla torre rossa costruita ai tempi del regime jugoslavo (definito da Curavić «l’impero degli Uguali») è possibile scrutare l’arrivo o il distacco da moli e banchine delle grandi navi, come avvenne nel dicembre del ’58, quando la prima nave raggiunse il porto nuovo di zecca di Castello, ricordato in una pagina indimenticabile (la 55), che solo per ragioni di spazio non mi è possibile citare per intero, oppure l’approssimarsi all’approdo dell’ammiraglia della Sesta flotta americana, che «segnò in qualche modo la fine di un’epoca iniziata negli anni ottanta per culminare, un paio di anni dopo la caduta del muro di Berlino, in una guerra lampo abbastanza indolore tra le forze secessioniste e l’esercito jugoslavo, quando l’impero degli Uguali si sciolse come neve al sole, spalancando le porte al fantasioso e imprevedibile mondo dei disuguali» (p. 69).
Con tutto ciò, ovviamente, Una vita in secca non è, né intende essere, un libro di storia e il suo autore non è uno storico, non un sociologo e - se fosse pittore - non sarebbe per certo un paesaggista, semmai piuttosto un ritrattista: è l’Uomo, in larga misura lui stesso anzi, il fulcro dei suoi interessi, il centro attorno al quale, mediante l’uso sapiente di una prosa narrativa di non comune eleganza e suggestione evocativa, descrive la condizione così particolare dei “rimasti”, gli italiani cioè che non hanno percorso la via dell’esodo, optando alfine per una diversa nevrosi, non già quella dell’esilio, ma in qualche modo quella della contemplazione di una precarietà esistenziale determinata da un confine che rimane onnipresente anche dopo che provvidenzialmente l’unità dell’Europa lo ha di fatto cancellato.
Anche se il personaggio di Davide Santin assume nel tessuto narrativo quello che in anatomia è il ruolo della colonna vertebrale, lungi dal limitarsi a lui la storia si distribuisce su una pluralità di attori, ciascuno dei quali segue diligentemente il copione fissato per lui dall’autore, e di nuovo la tirannide dello spazio a disposizione mi impedisce di dilungarmi sulle figure che animano il romanzo, che - peraltro felicemente - ama le digressioni, organizzandosi analogamente al ramificarsi di un albero, come è quello che campeggia sulla copertina del volume. Almeno di uno di tali personaggi bisogna però pur dire qualcosa, per quanto emblematica è la sua presentazione da parte dell’autore. Mi riferisco a Mario Antonio Della Boccia, alias di Marij Anton Krogla, che talvolta, come in un sincretismo onomastico, adotta, nella grafia, un nome che contiene entrambe le varianti: Marijo. Casualmente giornalista di professione, Marijo vive tutte le contraddizioni di questa duplicità, fino al punto di perdersi nel paralizzante dilemma se sia meglio, post mortem, essere inumato o cremato. Già, perché c’è una discreta dose di sorridente ironia e auto-ironia nel libro.
Per concludere (maledette le esigenze dello spazio!) andremo a New Orleans per apprendere dalle parole di Johnny K. Paries qualcosa di più di questa composita realtà istriana: Ciò che fa muovere questo paese è la frontiera […] L’abbiamo talmente interiorizzata, come un motore infallibile che ci fa muovere, anche quando non c’è più una frontiera da valicare, anche quando il territorio che abbiamo davanti è una pianura desolata e infinita, ormai depredata e spogliata… anche lì ci immaginiamo una frontiera per caricarci di spirito esploratore e, spesso, violento. Ci sono frontiere invisibili in questo paese, dove ogni tanto ci andiamo a sbattere» (p. 168 e seg.).
Raccomando sempre ai contributori di questa rivista di evitare se possibile l’uso di superlativi encomiastici nelle recensioni. Credo di essermi attenuto a questa prescrizione, scrivendo di questo libro, ma sappiate che l’ho fatto a stento.

Aljoša Curavić
Una vita in secca
Oltre edizioni, Sestri Levante (Ge), 2019
pp. 240, euro 16,00



leggi l'articolo integrale su Ponte rosso n. 44
SCHEDA LIBRO   |   Segnala  |  Ufficio Stampa


CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Ponte rosso n. 44 - venerdě 3 maggio 2019
Rivista PONTE ROSSO n. 44

di Walter Chiereghin

Una vita in secca, un romanzo di Aljoša Curavić
di Walter Chiereghin

Naturalmente, un manoscritto» titola così Umberto Eco la sua premessa al Nome della rosa e pare essere quasi una convenzione, nel patto narrativo tra scrittore e lettore, la supposta esistenza di un testo - normalmente pervenuto attraverso tortuosi eventi e fortuite circostanze nelle mani dell’autore - che può avvalersi così di un preteso attestato di autenticità nell’invenzione della sua finzione. Espediente usato, oltre che nel romanzo di Eco, per esempio, anche nei Promessi sposi, o nella Taverna del doge Loredan di Alberto Ongaro. Adesso utilizzato anche da Aljoša Curavić in Una vita in secca, ma le analogie con gli altri tre illustri precedenti terminano qui.
Se è difatti vero che la vicenda parte dal memoriale romanzato di un medico veneziano di origini istriane sparito in un misterioso disastro aereo, documento pervenuto a un suo amico di New Orleans, le analogie con i tre romanzi citati si fermano qui perché il libro di Curavić procede poi in una forma estremamente originale, disarticolando la narrazione fino al punto di far quasi confondere la forma romanzo in una sorta di raccolta di racconti, nei quali soltanto il riproporsi dei medesimi personaggi che si manifestano in un procedere cronologicamente abbastanza ordinato ricorda al lettore che è in presenza di un’opera fortemente unitaria e tuttavia complessa, come del resto è l’identità dell’autore. Aljoša Curavić, classe 1960, giornalista, caporedattore a Radio Capodistria, è un cittadino sloveno, con cognome croato, di nazionalità italiana. Dati anagrafici sufficienti per tracciare un profilo personale complicato, che si riflette, nella sua complessità identitaria, anche nell’opera letteraria, che in questo romanzo assume particolare pregnanza, al punto che esso risulta essere il racconto di una vita vissuta fra le risacche linguistiche e culturali di due mondi» (p. 9). Ecco, è in questa confessione, posta quasi in esergo del volume, che inizia a profilarsi l’ipotesi che il vero protagonista non sia Luca Sinicovich, il redattore del memoriale, né il suo alter ego Davide Santin, che agisce all’interno del testo, e neppure Johnny K. Paries di New Orleans, che per primo legge il malloppo: ciò di cui si parla nel libro di Curavić è la frontiera, il confine, con la risacca, appunto, dei suoi avanti-indietro sulle terre dell’Istria, che nel corso di un secolo ha visto succedersi cinque organizzazioni statuali diverse, nell’incontro e nello scontro di tre lingue differenti, quattro anzi, considerando pure il tedesco, per non parlare dei dialetti.
C’è una metafora che rincorre se stessa nel libro, quella appunto della risacca, della secca presente fin dal titolo, di un mare che si ritira lasciandosi dietro fango, detriti e pozze, un mare che è a sua volta esplicitamente metafora di un confine con la sua linea d’orizzonte, l’acqua che reca morte e distruzione, dall’uragano Katrina in Louisiana, a un 6 novembre istriano quando molti fiumi ruppero gli argini e sconquassarono e funestarono molte città. Le pianure affogarono nella mota. Il respiro cupo delle viscere della terra raggiunse anche Castello […]» (p. 46).
Castello è il nome della cittadina costiera nei pressi del confine con l’Italia, un nome immaginario e rigorosamente bilingue: Castello/Kaštel, da quando è diventata jugoslava e poi slovena, dopo esser stata austriaca e italiana. Città di mare, ma anche di acquitrini e di saline, nelle aree bonificate nelle quali si è insediato un porto importante, fino a diventare più esteso del centro cittadino, il più importante porto (ma anche l’unico) della Repubblica slovena. Dalle sue rive, dalla torre rossa costruita ai tempi del regime jugoslavo (definito da Curavić «l’impero degli Uguali») è possibile scrutare l’arrivo o il distacco da moli e banchine delle grandi navi, come avvenne nel dicembre del ’58, quando la prima nave raggiunse il porto nuovo di zecca di Castello, ricordato in una pagina indimenticabile (la 55), che solo per ragioni di spazio non mi è possibile citare per intero, oppure l’approssimarsi all’approdo dell’ammiraglia della Sesta flotta americana, che «segnò in qualche modo la fine di un’epoca iniziata negli anni ottanta per culminare, un paio di anni dopo la caduta del muro di Berlino, in una guerra lampo abbastanza indolore tra le forze secessioniste e l’esercito jugoslavo, quando l’impero degli Uguali si sciolse come neve al sole, spalancando le porte al fantasioso e imprevedibile mondo dei disuguali» (p. 69).
Con tutto ciò, ovviamente, Una vita in secca non è, né intende essere, un libro di storia e il suo autore non è uno storico, non un sociologo e - se fosse pittore - non sarebbe per certo un paesaggista, semmai piuttosto un ritrattista: è l’Uomo, in larga misura lui stesso anzi, il fulcro dei suoi interessi, il centro attorno al quale, mediante l’uso sapiente di una prosa narrativa di non comune eleganza e suggestione evocativa, descrive la condizione così particolare dei “rimasti”, gli italiani cioè che non hanno percorso la via dell’esodo, optando alfine per una diversa nevrosi, non già quella dell’esilio, ma in qualche modo quella della contemplazione di una precarietà esistenziale determinata da un confine che rimane onnipresente anche dopo che provvidenzialmente l’unità dell’Europa lo ha di fatto cancellato.
Anche se il personaggio di Davide Santin assume nel tessuto narrativo quello che in anatomia è il ruolo della colonna vertebrale, lungi dal limitarsi a lui la storia si distribuisce su una pluralità di attori, ciascuno dei quali segue diligentemente il copione fissato per lui dall’autore, e di nuovo la tirannide dello spazio a disposizione mi impedisce di dilungarmi sulle figure che animano il romanzo, che - peraltro felicemente - ama le digressioni, organizzandosi analogamente al ramificarsi di un albero, come è quello che campeggia sulla copertina del volume. Almeno di uno di tali personaggi bisogna però pur dire qualcosa, per quanto emblematica è la sua presentazione da parte dell’autore. Mi riferisco a Mario Antonio Della Boccia, alias di Marij Anton Krogla, che talvolta, come in un sincretismo onomastico, adotta, nella grafia, un nome che contiene entrambe le varianti: Marijo. Casualmente giornalista di professione, Marijo vive tutte le contraddizioni di questa duplicità, fino al punto di perdersi nel paralizzante dilemma se sia meglio, post mortem, essere inumato o cremato. Già, perché c’è una discreta dose di sorridente ironia e auto-ironia nel libro.
Per concludere (maledette le esigenze dello spazio!) andremo a New Orleans per apprendere dalle parole di Johnny K. Paries qualcosa di più di questa composita realtà istriana: Ciò che fa muovere questo paese è la frontiera […] L’abbiamo talmente interiorizzata, come un motore infallibile che ci fa muovere, anche quando non c’è più una frontiera da valicare, anche quando il territorio che abbiamo davanti è una pianura desolata e infinita, ormai depredata e spogliata… anche lì ci immaginiamo una frontiera per caricarci di spirito esploratore e, spesso, violento. Ci sono frontiere invisibili in questo paese, dove ogni tanto ci andiamo a sbattere» (p. 168 e seg.).
Raccomando sempre ai contributori di questa rivista di evitare se possibile l’uso di superlativi encomiastici nelle recensioni. Credo di essermi attenuto a questa prescrizione, scrivendo di questo libro, ma sappiate che l’ho fatto a stento.

Aljoša Curavić
Una vita in secca
Oltre edizioni, Sestri Levante (Ge), 2019
pp. 240, euro 16,00



leggi l'articolo integrale su Ponte rosso n. 44
SCHEDA LIBRO   |   Stampa   |   Segnala  |  Ufficio Stampa

TUTTI GLI EVENTI

OGT newspaper
oggi
02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

LEGGI TUTTO