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Dalla “patta” con il Campione del Mondo alle partite nei Gulag di Tito: storie di scacchisti messinesi
lettera emme di mercoledģ 20 novembre 2019
Un breve excursus sulla storia degli scacchi in cittą con Andrea Aliferopulos, docente del corso alla Stanza dello Scirocco. Da Remo Calapso al giovane Andrea Favaloro, passando per le vicende "romanzesche" di Emilio Stassi

MESSINA. È uno dei giochi da tavolo più diffusi e famosi al mondo, con una una discreta tradizione anche nella città dello Stretto, malgrado la sua posizione “periferica”. A fare un breve excursus sulla storia degli scacchi a Messina, in una breve intervista, è Andrea Aliferopulos, docente del corso di scacchi rivolto a principianti e amatori in corso alla Stanza dello Scirocco.
Quali sono i campioni messinesi più rappresentativi? «Due giocatori che si possono menzionare, dato che fanno senza dubbio parte della storia degli scacchi in Italia (benché in decenni piuttosto lontani) sono Vincenzo Nestler (due volte campione italiano: nel 1943 e nel 1954) e Remo Calapso (che nel 1967 a Venezia pattò, all’età di 62 anni, con il Campione del mondo in carica Tigran Petrosian) figlio del noto matematico Pasquale. A onor del vero – racconta – né Nestler né Calapso erano messinesi di nascita, ma in ogni caso vissero entrambi da giovani e per un lungo periodo in città, quindi credo li si possa considerare in una certa misura messinesi».
E in tempi più recenti? «Credo ci siano stati numerosi giocatori di buon livello, ma, come si suole fare in questi casi, proprio perché sono numerosi, per evitare di correre il rischio di dimenticare qualcuno, non nominerò nessuno. Si può menzionare, però, per il lavoro svolto nell’ultima dozzina d’anni, l’associazione Kodokan, impegnata soprattutto nel settore giovanile, e che proprio da qualche settimana ha una nuova sede in centro, in via Santa Marta, nei pressi di Piazza del Popolo; mi auguro davvero che tale sede possa diventare un sicuro punto di ritrovo per gli scacchisti messinesi, così come era il circolo in Via del Vespro quando ho cominciato a giocare io (anche se, va detto, negli ultimi 15 anni, visto il rigoglio degli scacchi online, i circoli si sono parzialmente spopolati un po’ ovunque). Dal vivaio della Kodokan, peraltro, proviene un giovane giocatore, Andrea Favaloro, che in tempi recenti ha conseguito il secondo titolo (in ordine crescente) riconosciuto dalla Federazione Internazionale, quello di Maestro Fide (i titoli magistrali internazionali, in ordine crescente di importanza, sono quattro: Candidato Maestro Fide, Maestro F., Maestro internazionale, Grande Maestro). Non ho ancora avuto l’occasione di conoscere questo ragazzo, né evidentemente di giocarci, ma è sicuramente un risultato degno di nota».
Fra le tante storie legate agli scacchi, una in particolare ha tratti quasi romanzeschi, quella di Emilio Stassi, scomparso non molto tempo fa, alla cui memoria l’associazione Kodokan vorrebbe dedicare nei prossimi mesi una giornata.
«Ho avuto il piacere di conoscerlo e di giocare con lui piuttosto spesso tra il 2001 e il 2003», ricorda Aliferopulos. «La sua – racconta – è una storia veramente speciale: di nascita non era messinese, ma fiumano, tant’è che, quando, dopo la seconda guerra mondiale, l’Istria e Fiume vennero annesse alla Jugoslavia titina, si ritrovò (era nato nel 1931), lui italiano, in territorio non italiano e senza cittadinanza italiana. Cercò allora, assieme ad altre persone, di espatriare illegalmente in Italia attraverso le montagne, ma il loro progetto venne scoperto e furono arrestati. Stassi venne condannato ai lavori forzati nel sistema di campi di concentramento jugoslavo dell’epoca; in quella condizione disumana, gli scacchi gli vennero incontro: in uno dei campi, giocava alla cieca (cioè senza la scacchiera, ma tenendo tutto a mente) contro uno scacchista jugoslavo, anch’egli prigioniero. Precisamente, si comunicavano reciprocamente le mosse nel momento in cui si incrociavano durante il turno di lavoro (carico e scarico di materiali). Ricordo che il maestro Stassi mi raccontò di persona questo episodio, ma, ai tempi, da adolescente, non ci avevo fatto troppo caso: oggi invece devo ammettere che una storia del genere mi fa venire la pelle d’oca».
Stassi venne poi scarcerato e infine giunse a Messina con la famiglia nel 1951. Il maestro ha poi pubblicato, qualche anno fa, un libro di memorie su quegli anni, “Giocando a scacchi nei Gulag di Tito: l’Odissea di un giovane fiumano”.
«Per il momento ho solo potuto sfogliarlo, ma mi sembra davvero degno di essere letto», commenta Aliferopulos, che ricorda Stassi da un punto di vista “strettamente scacchistico”: «Se il giocatore che ho conosciuto io era, per via dell’età (nel 2000 aveva quasi 70 anni), sicuramente rispettabile, ma non trascendentale, alcuni anni fa ho avuto la fortuna di ritrovare alcune sue partite giocate negli anni ’80, e non ho potuto che riconoscere delle gemme assolute, delle vere perle scacchistiche che mostrano la forza di un giocatore fuori dal comune (mi auguro prima o poi di avere il tempo di commentarle con dovizia e, magari, di scrivere un articolo su Stassi per proporlo a una testata scacchistica internazionale, visto che la combinazione fra la peculiarità della sua storia personale e la qualità delle sue partite penso meriti davvero di essere conosciuta). Insomma, credo che una giornata dedicata alla memoria del Maestro Stassi sia proprio ben spesa e mi auguro davvero che il progetto si concretizzi».


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Un breve excursus sulla storia degli scacchi in cittą con Andrea Aliferopulos, docente del corso alla Stanza dello Scirocco. Da Remo Calapso al giovane Andrea Favaloro, passando per le vicende "romanzesche" di Emilio Stassi

MESSINA. È uno dei giochi da tavolo più diffusi e famosi al mondo, con una una discreta tradizione anche nella città dello Stretto, malgrado la sua posizione “periferica”. A fare un breve excursus sulla storia degli scacchi a Messina, in una breve intervista, è Andrea Aliferopulos, docente del corso di scacchi rivolto a principianti e amatori in corso alla Stanza dello Scirocco.
Quali sono i campioni messinesi più rappresentativi? «Due giocatori che si possono menzionare, dato che fanno senza dubbio parte della storia degli scacchi in Italia (benché in decenni piuttosto lontani) sono Vincenzo Nestler (due volte campione italiano: nel 1943 e nel 1954) e Remo Calapso (che nel 1967 a Venezia pattò, all’età di 62 anni, con il Campione del mondo in carica Tigran Petrosian) figlio del noto matematico Pasquale. A onor del vero – racconta – né Nestler né Calapso erano messinesi di nascita, ma in ogni caso vissero entrambi da giovani e per un lungo periodo in città, quindi credo li si possa considerare in una certa misura messinesi».
E in tempi più recenti? «Credo ci siano stati numerosi giocatori di buon livello, ma, come si suole fare in questi casi, proprio perché sono numerosi, per evitare di correre il rischio di dimenticare qualcuno, non nominerò nessuno. Si può menzionare, però, per il lavoro svolto nell’ultima dozzina d’anni, l’associazione Kodokan, impegnata soprattutto nel settore giovanile, e che proprio da qualche settimana ha una nuova sede in centro, in via Santa Marta, nei pressi di Piazza del Popolo; mi auguro davvero che tale sede possa diventare un sicuro punto di ritrovo per gli scacchisti messinesi, così come era il circolo in Via del Vespro quando ho cominciato a giocare io (anche se, va detto, negli ultimi 15 anni, visto il rigoglio degli scacchi online, i circoli si sono parzialmente spopolati un po’ ovunque). Dal vivaio della Kodokan, peraltro, proviene un giovane giocatore, Andrea Favaloro, che in tempi recenti ha conseguito il secondo titolo (in ordine crescente) riconosciuto dalla Federazione Internazionale, quello di Maestro Fide (i titoli magistrali internazionali, in ordine crescente di importanza, sono quattro: Candidato Maestro Fide, Maestro F., Maestro internazionale, Grande Maestro). Non ho ancora avuto l’occasione di conoscere questo ragazzo, né evidentemente di giocarci, ma è sicuramente un risultato degno di nota».
Fra le tante storie legate agli scacchi, una in particolare ha tratti quasi romanzeschi, quella di Emilio Stassi, scomparso non molto tempo fa, alla cui memoria l’associazione Kodokan vorrebbe dedicare nei prossimi mesi una giornata.
«Ho avuto il piacere di conoscerlo e di giocare con lui piuttosto spesso tra il 2001 e il 2003», ricorda Aliferopulos. «La sua – racconta – è una storia veramente speciale: di nascita non era messinese, ma fiumano, tant’è che, quando, dopo la seconda guerra mondiale, l’Istria e Fiume vennero annesse alla Jugoslavia titina, si ritrovò (era nato nel 1931), lui italiano, in territorio non italiano e senza cittadinanza italiana. Cercò allora, assieme ad altre persone, di espatriare illegalmente in Italia attraverso le montagne, ma il loro progetto venne scoperto e furono arrestati. Stassi venne condannato ai lavori forzati nel sistema di campi di concentramento jugoslavo dell’epoca; in quella condizione disumana, gli scacchi gli vennero incontro: in uno dei campi, giocava alla cieca (cioè senza la scacchiera, ma tenendo tutto a mente) contro uno scacchista jugoslavo, anch’egli prigioniero. Precisamente, si comunicavano reciprocamente le mosse nel momento in cui si incrociavano durante il turno di lavoro (carico e scarico di materiali). Ricordo che il maestro Stassi mi raccontò di persona questo episodio, ma, ai tempi, da adolescente, non ci avevo fatto troppo caso: oggi invece devo ammettere che una storia del genere mi fa venire la pelle d’oca».
Stassi venne poi scarcerato e infine giunse a Messina con la famiglia nel 1951. Il maestro ha poi pubblicato, qualche anno fa, un libro di memorie su quegli anni, “Giocando a scacchi nei Gulag di Tito: l’Odissea di un giovane fiumano”.
«Per il momento ho solo potuto sfogliarlo, ma mi sembra davvero degno di essere letto», commenta Aliferopulos, che ricorda Stassi da un punto di vista “strettamente scacchistico”: «Se il giocatore che ho conosciuto io era, per via dell’età (nel 2000 aveva quasi 70 anni), sicuramente rispettabile, ma non trascendentale, alcuni anni fa ho avuto la fortuna di ritrovare alcune sue partite giocate negli anni ’80, e non ho potuto che riconoscere delle gemme assolute, delle vere perle scacchistiche che mostrano la forza di un giocatore fuori dal comune (mi auguro prima o poi di avere il tempo di commentarle con dovizia e, magari, di scrivere un articolo su Stassi per proporlo a una testata scacchistica internazionale, visto che la combinazione fra la peculiarità della sua storia personale e la qualità delle sue partite penso meriti davvero di essere conosciuta). Insomma, credo che una giornata dedicata alla memoria del Maestro Stassi sia proprio ben spesa e mi auguro davvero che il progetto si concretizzi».


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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