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Fabrizio Benente Intervista all’autore
Iannozzi Giuseppe di mercoledģ 20 novembre 2019
Fabrizio Benente č professore associato di Archeologia cristiana e medievale presso l’Universitą di Genova.

di Giuseppe Iannozzi
Si è formato e ha svolto attività di ricerca presso le Università di Pisa, Roma, Siena, Genova e presso l”Albright Institute” di Gerusalemme. Nel 2010 e nel 2012 gli è stata assegnata la Getty Research Exchange Fellowship da parte del Council of American Overseas Research Centers, per svolgere attività di ricerca in Israele e in Turchia. Ha diretto scavi archeologici in Italia e in Israele. Ha partecipato a missioni archeologiche in Corsica, Grecia, Tunisia, Libano, Mongolia interna (Cina), Crimea (Ucraina). Ha diretto il Museo archeologico di Sestri Levante (MuSel) e il Polo archeominerario di Castiglione Chioavarese (MuCast). Ha curato produzioni multimediali e documentari televisivi. Sposato con Daniela, vive a Nascio in Val Graveglia, vicino a Chiavari, dove dedica tempo al suo cane Filippo e alla cura del vigneto. È appassionato collezionista di fumetti e (nel poco tempo che rimane) pratica la corsa su strada e l’atletica leggera master.

1. Fabrizio Benente, il Castello di Rivarola è da tempo oggetto di indagini archeologiche (1996/2018). Da poco, Oltre Edizioni ha pubblicato Il Castello di Rivarola, che ripropone e aggiorna alcuni testi già editi, presentando al pubblico i dati emersi dalle nuove campagne di scavo. Per quali motivi è così importante far luce intorno al Castello?

Il colle di Rivarola è un luogo strategico, proprio per la sua posizione a controllo dello sbocco a mare di tre valli. Nei primi decenni del XII secolo la sua conquista ha avuto un ruolo chiave nel processo di espansione territoriale verso Levante del Comune di Genova. Era un caposaldo politico e militare costruito nel cuore del dominio dei conti di Lavagna. Poi, Rivarola è anche un luogo di insediamento umano “perenne”. La sommità del colle è stata frequentata nell’Età del Bronzo, in età romana. La zona è stata plasmata, modificata nel medioevo, per costruire un “baluardo di pietra”. Dopo l’abbandono, le rovine del castello genovese sono diventate una cava di pietra. Nel XIX secolo gli eruditi locali hanno intrapreso scavi: localmente la parte sommitale era chiamata “la piana dell’oro”. I resti del castello evidentemente sollecitavano l’immaginazione. Sul fianco orientale ci sono tracce di appostamenti della seconda guerra mondiale, e vicino c’è una parete di roccia con incisioni, simboli e iscrizioni post medievali. Ci sono veramente tante tracce da leggere e molte storie da ricostruire. Insomma, è un luogo adatto alla ricerca.

2. Ancor oggi le origini del Castello di Rivarola non sono del tutto chiare, nonostante siano state avanzate, nel corso dei secoli, diverse ipotesi più o meno verosimili. Sbaglio?

Nel 1132 Genova si impossessa militarmente del colle e costruisce un castello. Leggendo le fonti si capisce che, in qualche modo, la sommità era già stata fortificata, probabilmente con fossati, tagliate nella roccia e semplici palizzate. Gli ultimi scavi (2018) hanno rivelato qualcosa, ma sono elementi troppo deboli per tentare di dare contorni precisi a questa prima fase di fortificazione e attribuirla ai poteri signorili (forse i conti di Lavagna) che erano attivi sul territorio.

3. Gli scavi e le ricerche condotte tra il 1996 e il 1997 sono stati importanti, sicuramente; a un certo punto però ci si è dovuti fermare. Solo nel 2018 il lavoro è ripreso, portando alla luce nuove verità. Fabrizio Benente, potresti dirci, in linea di massima, che cosa è stato relazionato grazie ai nuovi scavi?

Ho condotto la prima fase di scavo, lavorando con studenti che erano poco più giovani di me. Nel 1996 ero un semplice studente di Scuola di Specializzazione, ma avevo già qualche pubblicazione e una buona esperienza sul campo. Quelle prime ricerche furono dirette dalla Soprintendenza, si svolsero con molto entusiasmo locale e in regime di convenzione con l’Istituto di Studi Liguri. Dopo la seconda campagna di scavo emersero i problemi di accesso al sito, di sicurezza e di tutela archeologica. Fu decisa la sospensione delle indagini. I dati erano, quindi, preliminari e un poco incompleti. Pubblicammo comunque qualche articolo. Nel 2005 fu realizzato un volumetto, distribuito in occasione della festa medievale che veniva organizzata a Rivarola. In anni più recenti, dopo aver preso servizio in Università, ho assegnato due tesi di laurea. Nel 2018 i tempi erano finalmente maturi per chiedere una nuova concessione ministeriale di scavo, avviare l’occupazione temporanea del sito (che è di proprietà privata) e progettare due saggi di scavo che consentissero di avere maggiori informazioni e di comprendere meglio la sequenza delle fasi di occupazione della sommità. Al termine delle indagini, dopo aver documentato tutto, abbiamo colmato i saggi e abbiamo restituito i terreni al proprietario.

4. Insieme a te, Fabrizio Benente, Alessandra Frondoni, Tiziana Garibaldi, Deneb Cesena, Renato Lagomarsino e Alexandre Gardini hanno firmato e dato forma ai primi studi sul castello, studi che hanno incontrato il favore e l’interesse di archeologi e ricercatori, studenti e semplici appassionati. Il volumetto chefu stampato a suo tempo andò celermente esaurito. Giada Molinari e Andrea Pollastro hanno invece partecipato in maniera attiva alle ricerche più recenti (2018). In realtà le persone che hanno lavorato con te sono molte di più. Come vi siete coordinati?

L’archeologia non prevede mai la formula “one man band”. Al massimo ci può essere un regista delle operazioni, ma ci devono essere molti buoni giocatori in campo. Sono necessarie competenze diversificate e interdisciplinari. Poi ci sono le finalità didattiche che uno scavo universitario deve necessariamente avere. Giada e Andrea sono due bravi archeologi, con esperienza e capacità complementari. Loro hanno coordinato il lavoro nei due saggi di scavo e – come è corretto – hanno portato il loro contributo nel libro. Devo anche citare Enrico Cipollina, che ha partecipato a tutto lo scavo ma, in questa occasione, non è stato coinvolto nell’edizione dei dati.

5. Domanda un po’ banale, forse: con in mano pochi dati e tanti interrogativi che forse non troveranno risposte soddisfacenti, come è possibile lavorare in un sito archeologico?

Non è ovviamente possibile trovare tutte le risposte. Noi lavoriamo per tracce e per resti. L’esempio della mela e del torsolo è molto calzante. L’archeologo studia il resto (il torsolo) e deve cercare di ricostruire il contesto originario (la mela), capendo anche quali sono state le cause della trasformazione (il morso). Come in tutte le investigazioni, può capitare che gli indizi raccolti sul campo non siano sufficienti, le prove siano scarse. Quando questo accade, il caso rimane irrisolto.

6. Quali sono i punti di forza delle due campagne di scavo?

Siamo riusciti a capire che sulla sommità del colle di Rivarola c’è stata una fase di frequentazione d’età romana. Stiamo aspettando i risultati delle analisi radiocarboniche per avere datazioni più precise. Abbiamo compreso meglio la pianta del castello genovese e la sua organizzazione. Abbiamo ricostruito le fasi di demolizione delle strutture murarie e di utilizzo del sito come cava di pietra. A Rivarola non ci sono strati di crollo. Mancano metri lineari e metri cubi di pietrame. Si tratta del materiale lapideo che faceva parte dei muri del fortilizio di XII secolo e che sono stati asportati già nel medioevo.

7. Vent’anni dopo sei tornato a studiare il poggio dove era ubicato il Castello. Escludi a priori che in un prossimo futuro tornerai a fare delle nuove indagini?

Ho 53 anni, faccio l’archeologo da 33, ma ti assicuro che non sono per nulla stanco del mio lavoro. Ci sono parecchi progetti didattici e di ricerca appena avviati, anche fuori Italia. Poi, ho imparato anche a fare qualcosa d’altro. Corro e mi tengo in forma, insieme a mia moglie curo un vigneto, mi prendo cura di un enorme, ingombrante e dolcissimo cane da pastore abruzzese e di 4 gatti pestiferi e del tutto ribelli. Detto questo, non mi sento di escludere di tornare a studiare Rivarola. Forse non più il castello, ma proprio l’uso che è stato fatto nel tempo del colle, con la sequenza delle sue trasformazioni antropiche. Nel 2019, insieme ad altri colleghi, abbiamo risposto alla call per un bando europeo. Se il nostro progetto sarà finanziato, Rivarola sarà uno dei luoghi della ricerca.

8. “Il Castello di Rivarola” è un libro destinato a far discutere, poco ma sicuro. I testi sono corredati da 48 immagini a colori. Fabrizio Benente, come ti sei regolato per la redazione dei testi e per la scelta delle foto?

Come sempre. Testo e immagini devono dialogare, essere ben integrati e ben comprensibili. Il libro è nato soprattutto per esigenze tecniche e didattiche. Tuttavia, le parti interpretative e storiche hanno un carattere comprensibile e si prestano a favorire la conoscenza e comprensione della storia del castello.
Poi, come accade per tutti i libri, Il castello di Rivarola deve trovare i suoi lettori.


Grazie per l’intervista e… al prossimo libro


leggi l'articolo integrale su Iannozzi Giuseppe
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Iannozzi Giuseppe - mercoledģ 20 novembre 2019
Fabrizio Benente č professore associato di Archeologia cristiana e medievale presso l’Universitą di Genova.

di Giuseppe Iannozzi
Si è formato e ha svolto attività di ricerca presso le Università di Pisa, Roma, Siena, Genova e presso l”Albright Institute” di Gerusalemme. Nel 2010 e nel 2012 gli è stata assegnata la Getty Research Exchange Fellowship da parte del Council of American Overseas Research Centers, per svolgere attività di ricerca in Israele e in Turchia. Ha diretto scavi archeologici in Italia e in Israele. Ha partecipato a missioni archeologiche in Corsica, Grecia, Tunisia, Libano, Mongolia interna (Cina), Crimea (Ucraina). Ha diretto il Museo archeologico di Sestri Levante (MuSel) e il Polo archeominerario di Castiglione Chioavarese (MuCast). Ha curato produzioni multimediali e documentari televisivi. Sposato con Daniela, vive a Nascio in Val Graveglia, vicino a Chiavari, dove dedica tempo al suo cane Filippo e alla cura del vigneto. È appassionato collezionista di fumetti e (nel poco tempo che rimane) pratica la corsa su strada e l’atletica leggera master.

1. Fabrizio Benente, il Castello di Rivarola è da tempo oggetto di indagini archeologiche (1996/2018). Da poco, Oltre Edizioni ha pubblicato Il Castello di Rivarola, che ripropone e aggiorna alcuni testi già editi, presentando al pubblico i dati emersi dalle nuove campagne di scavo. Per quali motivi è così importante far luce intorno al Castello?

Il colle di Rivarola è un luogo strategico, proprio per la sua posizione a controllo dello sbocco a mare di tre valli. Nei primi decenni del XII secolo la sua conquista ha avuto un ruolo chiave nel processo di espansione territoriale verso Levante del Comune di Genova. Era un caposaldo politico e militare costruito nel cuore del dominio dei conti di Lavagna. Poi, Rivarola è anche un luogo di insediamento umano “perenne”. La sommità del colle è stata frequentata nell’Età del Bronzo, in età romana. La zona è stata plasmata, modificata nel medioevo, per costruire un “baluardo di pietra”. Dopo l’abbandono, le rovine del castello genovese sono diventate una cava di pietra. Nel XIX secolo gli eruditi locali hanno intrapreso scavi: localmente la parte sommitale era chiamata “la piana dell’oro”. I resti del castello evidentemente sollecitavano l’immaginazione. Sul fianco orientale ci sono tracce di appostamenti della seconda guerra mondiale, e vicino c’è una parete di roccia con incisioni, simboli e iscrizioni post medievali. Ci sono veramente tante tracce da leggere e molte storie da ricostruire. Insomma, è un luogo adatto alla ricerca.

2. Ancor oggi le origini del Castello di Rivarola non sono del tutto chiare, nonostante siano state avanzate, nel corso dei secoli, diverse ipotesi più o meno verosimili. Sbaglio?

Nel 1132 Genova si impossessa militarmente del colle e costruisce un castello. Leggendo le fonti si capisce che, in qualche modo, la sommità era già stata fortificata, probabilmente con fossati, tagliate nella roccia e semplici palizzate. Gli ultimi scavi (2018) hanno rivelato qualcosa, ma sono elementi troppo deboli per tentare di dare contorni precisi a questa prima fase di fortificazione e attribuirla ai poteri signorili (forse i conti di Lavagna) che erano attivi sul territorio.

3. Gli scavi e le ricerche condotte tra il 1996 e il 1997 sono stati importanti, sicuramente; a un certo punto però ci si è dovuti fermare. Solo nel 2018 il lavoro è ripreso, portando alla luce nuove verità. Fabrizio Benente, potresti dirci, in linea di massima, che cosa è stato relazionato grazie ai nuovi scavi?

Ho condotto la prima fase di scavo, lavorando con studenti che erano poco più giovani di me. Nel 1996 ero un semplice studente di Scuola di Specializzazione, ma avevo già qualche pubblicazione e una buona esperienza sul campo. Quelle prime ricerche furono dirette dalla Soprintendenza, si svolsero con molto entusiasmo locale e in regime di convenzione con l’Istituto di Studi Liguri. Dopo la seconda campagna di scavo emersero i problemi di accesso al sito, di sicurezza e di tutela archeologica. Fu decisa la sospensione delle indagini. I dati erano, quindi, preliminari e un poco incompleti. Pubblicammo comunque qualche articolo. Nel 2005 fu realizzato un volumetto, distribuito in occasione della festa medievale che veniva organizzata a Rivarola. In anni più recenti, dopo aver preso servizio in Università, ho assegnato due tesi di laurea. Nel 2018 i tempi erano finalmente maturi per chiedere una nuova concessione ministeriale di scavo, avviare l’occupazione temporanea del sito (che è di proprietà privata) e progettare due saggi di scavo che consentissero di avere maggiori informazioni e di comprendere meglio la sequenza delle fasi di occupazione della sommità. Al termine delle indagini, dopo aver documentato tutto, abbiamo colmato i saggi e abbiamo restituito i terreni al proprietario.

4. Insieme a te, Fabrizio Benente, Alessandra Frondoni, Tiziana Garibaldi, Deneb Cesena, Renato Lagomarsino e Alexandre Gardini hanno firmato e dato forma ai primi studi sul castello, studi che hanno incontrato il favore e l’interesse di archeologi e ricercatori, studenti e semplici appassionati. Il volumetto chefu stampato a suo tempo andò celermente esaurito. Giada Molinari e Andrea Pollastro hanno invece partecipato in maniera attiva alle ricerche più recenti (2018). In realtà le persone che hanno lavorato con te sono molte di più. Come vi siete coordinati?

L’archeologia non prevede mai la formula “one man band”. Al massimo ci può essere un regista delle operazioni, ma ci devono essere molti buoni giocatori in campo. Sono necessarie competenze diversificate e interdisciplinari. Poi ci sono le finalità didattiche che uno scavo universitario deve necessariamente avere. Giada e Andrea sono due bravi archeologi, con esperienza e capacità complementari. Loro hanno coordinato il lavoro nei due saggi di scavo e – come è corretto – hanno portato il loro contributo nel libro. Devo anche citare Enrico Cipollina, che ha partecipato a tutto lo scavo ma, in questa occasione, non è stato coinvolto nell’edizione dei dati.

5. Domanda un po’ banale, forse: con in mano pochi dati e tanti interrogativi che forse non troveranno risposte soddisfacenti, come è possibile lavorare in un sito archeologico?

Non è ovviamente possibile trovare tutte le risposte. Noi lavoriamo per tracce e per resti. L’esempio della mela e del torsolo è molto calzante. L’archeologo studia il resto (il torsolo) e deve cercare di ricostruire il contesto originario (la mela), capendo anche quali sono state le cause della trasformazione (il morso). Come in tutte le investigazioni, può capitare che gli indizi raccolti sul campo non siano sufficienti, le prove siano scarse. Quando questo accade, il caso rimane irrisolto.

6. Quali sono i punti di forza delle due campagne di scavo?

Siamo riusciti a capire che sulla sommità del colle di Rivarola c’è stata una fase di frequentazione d’età romana. Stiamo aspettando i risultati delle analisi radiocarboniche per avere datazioni più precise. Abbiamo compreso meglio la pianta del castello genovese e la sua organizzazione. Abbiamo ricostruito le fasi di demolizione delle strutture murarie e di utilizzo del sito come cava di pietra. A Rivarola non ci sono strati di crollo. Mancano metri lineari e metri cubi di pietrame. Si tratta del materiale lapideo che faceva parte dei muri del fortilizio di XII secolo e che sono stati asportati già nel medioevo.

7. Vent’anni dopo sei tornato a studiare il poggio dove era ubicato il Castello. Escludi a priori che in un prossimo futuro tornerai a fare delle nuove indagini?

Ho 53 anni, faccio l’archeologo da 33, ma ti assicuro che non sono per nulla stanco del mio lavoro. Ci sono parecchi progetti didattici e di ricerca appena avviati, anche fuori Italia. Poi, ho imparato anche a fare qualcosa d’altro. Corro e mi tengo in forma, insieme a mia moglie curo un vigneto, mi prendo cura di un enorme, ingombrante e dolcissimo cane da pastore abruzzese e di 4 gatti pestiferi e del tutto ribelli. Detto questo, non mi sento di escludere di tornare a studiare Rivarola. Forse non più il castello, ma proprio l’uso che è stato fatto nel tempo del colle, con la sequenza delle sue trasformazioni antropiche. Nel 2019, insieme ad altri colleghi, abbiamo risposto alla call per un bando europeo. Se il nostro progetto sarà finanziato, Rivarola sarà uno dei luoghi della ricerca.

8. “Il Castello di Rivarola” è un libro destinato a far discutere, poco ma sicuro. I testi sono corredati da 48 immagini a colori. Fabrizio Benente, come ti sei regolato per la redazione dei testi e per la scelta delle foto?

Come sempre. Testo e immagini devono dialogare, essere ben integrati e ben comprensibili. Il libro è nato soprattutto per esigenze tecniche e didattiche. Tuttavia, le parti interpretative e storiche hanno un carattere comprensibile e si prestano a favorire la conoscenza e comprensione della storia del castello.
Poi, come accade per tutti i libri, Il castello di Rivarola deve trovare i suoi lettori.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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