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Il dramma di un ufficiale italiano dopo la fine del regime di Hitler
L'ANTIFASCISTA di sabato 8 febbraio 2020
“IL TRENO DA MOSCA”. UNA STORIA DA LEGGERE PER CAPIRE CHE COSA FU IL NAZISMO

di Claudio Longhitano

“Il Treno da Mosca” (Oltre Edizioni, 2019) è l’ultimo romanzo di Maurizio Lo Re, che si inserisce, a parere di chi scrive, nel filone letterario che questo autore porta avanti pubblicando opere che hanno la Storia come scenario ove collocare, ambientare e far vivere gli intrecci dei personaggi. Narrare per grandi linee la trama di questa sua ultima opera ci sembra utile per comprendere la scelta letteraria che questo autore ha voluto fare per caratterizzare i propri romanzi. Ne “Il Treno da Mosca”, ambientato nella Italia della fine degli anni 70, primi anni 80, l’avvocato Lucio Manacorda trova, abbandonata sul sedile di un treno, un vecchia copia del romanzo “Lucien Leuwen” di Stendhal. Tra le pagine del vecchio libro vi è scritto un “libro parallelo”, ossia è scritta la drammatica esperienza di un ufficiale italiano, Lorenzo Stefani, che dopo la tragedia dell’8 Settembre 1943 è stato deportato in un campo di concentramento tedesco e qui ha scritto una sorta di sintetico diario (o se vogliamo di cahier de doléances) dove ha descritto la sua esperienza umana di militare sbandato sotto il tallone del regime nazista. Una esperienza che è stata comune ad una generazione di soldati italiani gettati allo sbaraglio in una guerra perduta in partenza a causa delle velleità di un regime totalitario, il fascismo, guidato da capi che non erano altro che avventurieri, superficiali e dilettanti di cose militari.
Lucio Manacorda legge nelle pagine di questo improvvisato “diario di guerra” le vicende dell’autore, il quale ha conosciuto durante la detenzione Olga, una prigioniera sovietica da cui ha avuto una figlia, Irina. Una volta liberato, nel dopoguerra Lorenzo Stefani torna in patria e lascia all’amata Olga proprio il vecchio libro di Stendhal ove ha scritto il suo diario. Lucio Manacorda, forse per curiosità, forse per dare alla propria vita un senso che proceda parallelo al senso che ha dato alla sua vita di professionista, di cittadino, di padre e marito affettuoso, insomma di piccolo borghese ancorato al suo mondo fatto di certezze e di quotidianità abitudinaria (magari un tantino grigia), decide di rintracciare l’autore di questo diario di guerra. Ci riesce e da questi riceve l’invito o comunque la suggestione di andare in Unione Sovietica a rintracciare la figlia Irina. Manacorda così fa e riesce ad incontrare Irina, la quale gli propone addirittura di farla espatriare clandestinamente dall’Unione Sovietica e condurla in Italia.
Non riveleremo ovviamente l’intreccio della trama ed il finale, che è bene che il lettore conosca da solo. Il romanzo può esser definito un misto tra il romanzo storico alla Walter Scott, ove la Storia fa da sfondo alla storie private dei personaggi e le atmosfere alla Graham Green. Un romanzo dove le vicende private dei protagonisti si snodano tra gli scenari paranoici della Guerra Fredda? Un libro di spionaggio, popolato da servizi segreti e personaggi ambigui? Un libro introspettivo, ove Lucio Manacorda si lancia in questa avventura tra Unione Sovietica e Italia per soddisfare il proprio desiderio di evasione e tuffarsi in una realtà dove l’avventura rappresenta per lui una sfida alle sicurezze di un vita in fondo programmata? Tutto questo è bene che lo decida il lettore.
Maurizio Lo Re viene dalla carriera diplomatica, durante la quale ha anche prestato servizio quale Console in Corsica, Incaricato d’Affari a Cuba, Console Generale a Capodistria (ex Jugoslavia, ora Slovenia) e Ambasciatore a Riga, in Lettonia. Una volta cessato dal servizio, Lo Re si è dedicato agli studi storici ed alla narrativa, pubblicando i romanzi “La linea della memoria” nel 2002, “Filippo Paulucci – L’italiano che governò a Riga” nel 2006, “Gli amici di Leuwen” nel 2009, “Domani a Guadalajara” nel 2013 ed il saggio memorialistico “Inusuali vicende consolari” (Youcanprint, 2016). E’ interessante notare come il romanzo storico sia un genere che in Italia sembra che stia prendendo piede da qualche tempo a questa parte, interessando un numero sempre crescente di autori, i quali si confrontano con lo scenario della Storia quale immenso palcoscenico ove far muovere i loro protagonisti. Non più o non solo, quindi, il racconto di storie private, intime, introspettive (quelle che Francesco Rosi definiva con un pizzico di ironia “storie dove gli autori si guardano l’ombelico”) ma la consapevolezza che le vite private di tutti noi in un modo o nell’altro sono coinvolte ed influenzate dal contesto storico in cui si svolgono e non ne possono prescindere. Il che mi sembra un riconoscimento che vada ascritto anche ad autori come Maurizio Lo Re.


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L'ANTIFASCISTA - sabato 8 febbraio 2020
“IL TRENO DA MOSCA”. UNA STORIA DA LEGGERE PER CAPIRE CHE COSA FU IL NAZISMO

di Claudio Longhitano

“Il Treno da Mosca” (Oltre Edizioni, 2019) è l’ultimo romanzo di Maurizio Lo Re, che si inserisce, a parere di chi scrive, nel filone letterario che questo autore porta avanti pubblicando opere che hanno la Storia come scenario ove collocare, ambientare e far vivere gli intrecci dei personaggi. Narrare per grandi linee la trama di questa sua ultima opera ci sembra utile per comprendere la scelta letteraria che questo autore ha voluto fare per caratterizzare i propri romanzi. Ne “Il Treno da Mosca”, ambientato nella Italia della fine degli anni 70, primi anni 80, l’avvocato Lucio Manacorda trova, abbandonata sul sedile di un treno, un vecchia copia del romanzo “Lucien Leuwen” di Stendhal. Tra le pagine del vecchio libro vi è scritto un “libro parallelo”, ossia è scritta la drammatica esperienza di un ufficiale italiano, Lorenzo Stefani, che dopo la tragedia dell’8 Settembre 1943 è stato deportato in un campo di concentramento tedesco e qui ha scritto una sorta di sintetico diario (o se vogliamo di cahier de doléances) dove ha descritto la sua esperienza umana di militare sbandato sotto il tallone del regime nazista. Una esperienza che è stata comune ad una generazione di soldati italiani gettati allo sbaraglio in una guerra perduta in partenza a causa delle velleità di un regime totalitario, il fascismo, guidato da capi che non erano altro che avventurieri, superficiali e dilettanti di cose militari.
Lucio Manacorda legge nelle pagine di questo improvvisato “diario di guerra” le vicende dell’autore, il quale ha conosciuto durante la detenzione Olga, una prigioniera sovietica da cui ha avuto una figlia, Irina. Una volta liberato, nel dopoguerra Lorenzo Stefani torna in patria e lascia all’amata Olga proprio il vecchio libro di Stendhal ove ha scritto il suo diario. Lucio Manacorda, forse per curiosità, forse per dare alla propria vita un senso che proceda parallelo al senso che ha dato alla sua vita di professionista, di cittadino, di padre e marito affettuoso, insomma di piccolo borghese ancorato al suo mondo fatto di certezze e di quotidianità abitudinaria (magari un tantino grigia), decide di rintracciare l’autore di questo diario di guerra. Ci riesce e da questi riceve l’invito o comunque la suggestione di andare in Unione Sovietica a rintracciare la figlia Irina. Manacorda così fa e riesce ad incontrare Irina, la quale gli propone addirittura di farla espatriare clandestinamente dall’Unione Sovietica e condurla in Italia.
Non riveleremo ovviamente l’intreccio della trama ed il finale, che è bene che il lettore conosca da solo. Il romanzo può esser definito un misto tra il romanzo storico alla Walter Scott, ove la Storia fa da sfondo alla storie private dei personaggi e le atmosfere alla Graham Green. Un romanzo dove le vicende private dei protagonisti si snodano tra gli scenari paranoici della Guerra Fredda? Un libro di spionaggio, popolato da servizi segreti e personaggi ambigui? Un libro introspettivo, ove Lucio Manacorda si lancia in questa avventura tra Unione Sovietica e Italia per soddisfare il proprio desiderio di evasione e tuffarsi in una realtà dove l’avventura rappresenta per lui una sfida alle sicurezze di un vita in fondo programmata? Tutto questo è bene che lo decida il lettore.
Maurizio Lo Re viene dalla carriera diplomatica, durante la quale ha anche prestato servizio quale Console in Corsica, Incaricato d’Affari a Cuba, Console Generale a Capodistria (ex Jugoslavia, ora Slovenia) e Ambasciatore a Riga, in Lettonia. Una volta cessato dal servizio, Lo Re si è dedicato agli studi storici ed alla narrativa, pubblicando i romanzi “La linea della memoria” nel 2002, “Filippo Paulucci – L’italiano che governò a Riga” nel 2006, “Gli amici di Leuwen” nel 2009, “Domani a Guadalajara” nel 2013 ed il saggio memorialistico “Inusuali vicende consolari” (Youcanprint, 2016). E’ interessante notare come il romanzo storico sia un genere che in Italia sembra che stia prendendo piede da qualche tempo a questa parte, interessando un numero sempre crescente di autori, i quali si confrontano con lo scenario della Storia quale immenso palcoscenico ove far muovere i loro protagonisti. Non più o non solo, quindi, il racconto di storie private, intime, introspettive (quelle che Francesco Rosi definiva con un pizzico di ironia “storie dove gli autori si guardano l’ombelico”) ma la consapevolezza che le vite private di tutti noi in un modo o nell’altro sono coinvolte ed influenzate dal contesto storico in cui si svolgono e non ne possono prescindere. Il che mi sembra un riconoscimento che vada ascritto anche ad autori come Maurizio Lo Re.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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