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DOPPIA MORTE AL GOVERNO VECCHIO
Lankenauta di lunedģ 23 marzo 2020
Avete presente quando la domenica mattina, pił o meno all’ora di pranzo, saltate da un canale televisivo all’altro e v’imbattete in qualche film italiano anni ’60 o ’70, magari anche in bianco e nero se pił datato? Poi se siete troppo giovani per ricordarveli, vi sale un po’ la curiositą di vedere come andavano le cose in quegli anni, mentre se li avete vissuti, provate una leggera nostalgia. Vi ci ritrovate?

di Francesco Ricapito
Ecco questo libro ha più o meno quell’effetto: venne pubblicato originariamente nel 1960, poi di nuovo nel 1977 e infine adesso. Trattasi fondamentalmente di un giallo: ambientato nella Roma degli anni ’60, in particolare in Via Del Governo Vecchio, un vicolo del centro che però nel libro sembra assumere il rango di vero e proprio microcosmo indipendente e autosufficiente.
Protagonista è Armando Baldassarre, detto Dindo, un quarantenne poliziotto ormai da dieci anni impiegato nell’Archivio Corpi di Reato, un dipartimento dove in genere vengono mandati in confino i dipendenti meno capaci. Dindo in verità avrebbe tutte le capacità per essere un valido membro delle forze dell’ordine, sfortunatamente però la sua carriera è stata segnata da un episodio accaduto dieci anni prima, quando per un caso fortuito giunse sul luogo di un delitto quando ancora c’era l’assassino: Dindo però non lo riconobbe e anzi, lo aiutò a far ripartire la moto, favorendogli così la fuga e facendo credere ai vicini di essere un complice. Venne così spedito in questa sorta di cimitero degli elefanti, l’Archivio Corpi di Reato. Tuttavia non tutto il male vien per nuocere: il collega che è chiamato a sostituire, deceduto per aver ingerito una pasticca di cianuro che aveva scambiato per un antidolorifico, si scopre essere stato una sorta di trafficante di reperti legati a reati, che diventano legalmente vendibili dopo dieci anni. Dindo scopre un appartamento in Via del Governo Vecchio zeppo di questi oggetti e scavando scopre che esiste un vero e proprio mercato di persone interessate a siffatti reperti.
A quarant’anni quindi Dindo è felicemente sposato, con un figlio, uno stipendio statale arrotondato dal suo commercio di reliquie criminali e la prospettiva di restare in quella situazione fino alla pensione. Coltiva in segreto la sua passione, la pittura, nascondendola alla moglie e utilizzando l’appartamento dei reperti come studio.
A turbare il tutto, un doppio delitto, da cui il titolo: due decessi contemporanei nello stesso palazzo, un vecchio nobile e Romolo, lo stagnaro, compare di tresette del nostro protagonista. Alla vicenda poi s’intrecceranno compagnie assicurative senza scrupoli, parenti avidi di mettere le mani sull’eredità, perversioni nobiliari ed una moglie inviperita.
L’autore, Ugo Moretti, si dimostra un abile narratore, forse scrivere gialli non era in cima alla lista delle sue preferenze, come rivelato nella prefazione dell’amico Diego Zandel, ma di sicuro gli riesce bene. Tant’è che da questo libro venne tratto anche il film del 1977 “Doppio Delitto”, con Marcello Mastroianni nel ruolo del protagonista.
Il punto forte del libro è la velata comicità che lo pervade: le situazioni assurde, tragicomiche e che magari fanno sorridere amaramente perché ci ricordano anche le nostre vite, ma forse è proprio questo alla base di quel grottesco che spesso pervade la commedia all’italiana. A tal proposito ritengo magistrale lo sfogo con cui il questore spedisce Dindo all’Archivio Corpi di Reato: “La trasferisco. Il funzionario addetto all’archivio dei Corpi di Reato è morto l’altro giorno per aver ingoiato distrattamente una pastiglia di cianuro invece di un optalidon. Spero che lei soffra di molti mal di testa e sulla sua distrazione ci conto. Le assicuro che firmerò con estremo piacere la nota spese dei suoi funerali, quando accadrà, il più presto possibile…E inutile che tocchi ferro e si gratti, ho una tale potenza che farei schiattare un cammello d’idropisia, se l’odiassi come odio lei questo momento. Se ne vada, disonore!”
Ho trovato questo libro molto piacevole: capitoli brevi, narrazione veloce ma non convulsa, trama avvincente, con un adeguato numero di personaggi tutti ben costruiti. Si tratta senza dubbio di uno sguardo ironico su come “eravamo”, che alla fine forse non si discosta molto da come siamo adesso.
Consiglio questo libro a tutti gli appassionati della nostra cultura anni ’60 e ’70 e a chi abbia voglia di farsi qualche risata agrodolce sopra un giallo accattivante.


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Avete presente quando la domenica mattina, pił o meno all’ora di pranzo, saltate da un canale televisivo all’altro e v’imbattete in qualche film italiano anni ’60 o ’70, magari anche in bianco e nero se pił datato? Poi se siete troppo giovani per ricordarveli, vi sale un po’ la curiositą di vedere come andavano le cose in quegli anni, mentre se li avete vissuti, provate una leggera nostalgia. Vi ci ritrovate?

di Francesco Ricapito
Ecco questo libro ha più o meno quell’effetto: venne pubblicato originariamente nel 1960, poi di nuovo nel 1977 e infine adesso. Trattasi fondamentalmente di un giallo: ambientato nella Roma degli anni ’60, in particolare in Via Del Governo Vecchio, un vicolo del centro che però nel libro sembra assumere il rango di vero e proprio microcosmo indipendente e autosufficiente.
Protagonista è Armando Baldassarre, detto Dindo, un quarantenne poliziotto ormai da dieci anni impiegato nell’Archivio Corpi di Reato, un dipartimento dove in genere vengono mandati in confino i dipendenti meno capaci. Dindo in verità avrebbe tutte le capacità per essere un valido membro delle forze dell’ordine, sfortunatamente però la sua carriera è stata segnata da un episodio accaduto dieci anni prima, quando per un caso fortuito giunse sul luogo di un delitto quando ancora c’era l’assassino: Dindo però non lo riconobbe e anzi, lo aiutò a far ripartire la moto, favorendogli così la fuga e facendo credere ai vicini di essere un complice. Venne così spedito in questa sorta di cimitero degli elefanti, l’Archivio Corpi di Reato. Tuttavia non tutto il male vien per nuocere: il collega che è chiamato a sostituire, deceduto per aver ingerito una pasticca di cianuro che aveva scambiato per un antidolorifico, si scopre essere stato una sorta di trafficante di reperti legati a reati, che diventano legalmente vendibili dopo dieci anni. Dindo scopre un appartamento in Via del Governo Vecchio zeppo di questi oggetti e scavando scopre che esiste un vero e proprio mercato di persone interessate a siffatti reperti.
A quarant’anni quindi Dindo è felicemente sposato, con un figlio, uno stipendio statale arrotondato dal suo commercio di reliquie criminali e la prospettiva di restare in quella situazione fino alla pensione. Coltiva in segreto la sua passione, la pittura, nascondendola alla moglie e utilizzando l’appartamento dei reperti come studio.
A turbare il tutto, un doppio delitto, da cui il titolo: due decessi contemporanei nello stesso palazzo, un vecchio nobile e Romolo, lo stagnaro, compare di tresette del nostro protagonista. Alla vicenda poi s’intrecceranno compagnie assicurative senza scrupoli, parenti avidi di mettere le mani sull’eredità, perversioni nobiliari ed una moglie inviperita.
L’autore, Ugo Moretti, si dimostra un abile narratore, forse scrivere gialli non era in cima alla lista delle sue preferenze, come rivelato nella prefazione dell’amico Diego Zandel, ma di sicuro gli riesce bene. Tant’è che da questo libro venne tratto anche il film del 1977 “Doppio Delitto”, con Marcello Mastroianni nel ruolo del protagonista.
Il punto forte del libro è la velata comicità che lo pervade: le situazioni assurde, tragicomiche e che magari fanno sorridere amaramente perché ci ricordano anche le nostre vite, ma forse è proprio questo alla base di quel grottesco che spesso pervade la commedia all’italiana. A tal proposito ritengo magistrale lo sfogo con cui il questore spedisce Dindo all’Archivio Corpi di Reato: “La trasferisco. Il funzionario addetto all’archivio dei Corpi di Reato è morto l’altro giorno per aver ingoiato distrattamente una pastiglia di cianuro invece di un optalidon. Spero che lei soffra di molti mal di testa e sulla sua distrazione ci conto. Le assicuro che firmerò con estremo piacere la nota spese dei suoi funerali, quando accadrà, il più presto possibile…E inutile che tocchi ferro e si gratti, ho una tale potenza che farei schiattare un cammello d’idropisia, se l’odiassi come odio lei questo momento. Se ne vada, disonore!”
Ho trovato questo libro molto piacevole: capitoli brevi, narrazione veloce ma non convulsa, trama avvincente, con un adeguato numero di personaggi tutti ben costruiti. Si tratta senza dubbio di uno sguardo ironico su come “eravamo”, che alla fine forse non si discosta molto da come siamo adesso.
Consiglio questo libro a tutti gli appassionati della nostra cultura anni ’60 e ’70 e a chi abbia voglia di farsi qualche risata agrodolce sopra un giallo accattivante.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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