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C’era una volta lo sport…
Oltre edizioni di sabato 13 novembre 2021
In margine al convegno su Enrico Morovich a Fiume (Croazia)
A Fiume si sta svolgendo un convegno sullo scrittore Enrico Morovich che da quella cittą andņ via nel 1950 optando per l’Italia dove visse, per gran parte a Genova, il resto della sua vita da esule...

di Francesco De Nicola

A Fiume si sta svolgendo un convegno sullo scrittore Enrico Morovich che da quella città andò via nel 1950 optando per l’Italia dove visse, per gran parte a Genova, il resto della sua vita da esule. E come lui migliaia di suoi concittadini che tuttora si tengono in contatto tra loro nelle città dove vivono e ogni tanto tornano a Fiume dove organizzano incontri e riunioni; e così è successo per il convegno sullo scrittore “genovesizzato”. Durante una pausa sento che in sala sono presenti due fratelli Pamich e mi ricordo che questo era il cognome di un famoso marciatore che vinse la medaglia d’oro della 50 chilometri alle Olimpiadi di Tokio del 1962. Che ne sarà ora di lui, non l’ho più sentito nominare da decenni e così, incuriosito, mi avvicino cautamente a uno di loro e gli domando se è parente del grande atleta e aggiungo che ricordo di averlo visto molte volte sull’Aurelia che, in calzoncini e scarpette, marciava dinoccolato e deciso. E per risposta, con lo sguardo ironico, mi dice: “Allora lei vedeva me!”. Abbiamo ripercorso con le parole i suoi anni genovesi: lavorava alla Esso,  in piazza della Vittoria, e ogni occasione e ogni luogo erano buoni per allenarsi e poi il sabato da Genova se ne andava sull’Aurelia, fino a Recco e poi, per non farsi mancare nulla, saliva fino a Uscio e ritorno per concludere la sua razione di marcia nel giorno di riposo allo stadio della Nafta, come allora comunemente si chiamava il Carlini, che allora, oltre alle gare di rugby, ospitava importanti gare di atletica (in una un fondista russo, mi pare si chiamasse Vladimir Kuk, aveva sfiorato il record mondiale dei 5.000 metri).

E così eccomi a discorrere amichevolmente con Abdom Pamich, un mito: oggi ha ottantotto anni, alto e magro, vivace come un ragazzino e dalla memoria ferrea (ricorda come fosse ieri che a Genova c’era un giovane marciatore promettente che si chiamava Cambiaso), critico nei confronti dei marciatori di oggi (“ormai quasi tutti corrono, non marciano”), attento nel seguire tutte le relazioni del convegno e, saprò poi, molto impegnato a Roma, dove vive, per difendere la memoria delle comunità dalmata-giuliana e membro della Società di Studi Fiumani; e quando gli domando quali sono i suoi ricordi più belli di marciatore mi sorprende dicendomi che la marcia per lui non è affatto un ricordo perché appena può, ora per le strade e i parchi di Roma, continua a indossare calzoncini e scarpette e va: “Per me la marcia è una passione e una passione non si lascia mai”; e infine, con dolcezza, conclude “E mi saluti tanto la mia cara Genova”.

Questo è stato un grande campione negli anni Sessanta, quando lo sport nasceva dalla passione e chi lo praticava viveva comunque in una dimensione del tutto umana, marciando per le strade e non lontano dalla vita di chi non aveva i costanti onori della cronaca. E allora mi son ricordato che in quei primi anni Sessanta nel palazzo dove vivevo abitavano due dei più importanti calciatori della Sampdoria: l’argentino Tito Cucchiaroni, acquistato dal Milan e poi cinque anni in blucerchiato dove, amatissimo – credo esista ancora un club a lui dedicato – segnò ben 40 gol, e il portierone Pietro Battara, poi preparatore dei portieri nell’anno dello scudetto della Samp. Due protagonisti, insomma del mondo del calcio, che io incontravo in latteria a bersi un cappuccino o per le scale con la borsa della spesa mentre, come due impiegatucci lontani da casa, tornavano nelle loro stanzette in affitto dove, ricordo i commenti delle proprietarie, si comportavano molto educatamente. Oggi lo immaginate Ronaldo vivere in una cameretta in un grande palazzo e andare a farsi la spesa sotto casa o un marciatore che passi il suo tempo libero per le strade ad allenarsi spinto dalla passione? C’era una volta lo sport...



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In margine al convegno su Enrico Morovich a Fiume (Croazia)
A Fiume si sta svolgendo un convegno sullo scrittore Enrico Morovich che da quella cittą andņ via nel 1950 optando per l’Italia dove visse, per gran parte a Genova, il resto della sua vita da esule...

di Francesco De Nicola

A Fiume si sta svolgendo un convegno sullo scrittore Enrico Morovich che da quella città andò via nel 1950 optando per l’Italia dove visse, per gran parte a Genova, il resto della sua vita da esule. E come lui migliaia di suoi concittadini che tuttora si tengono in contatto tra loro nelle città dove vivono e ogni tanto tornano a Fiume dove organizzano incontri e riunioni; e così è successo per il convegno sullo scrittore “genovesizzato”. Durante una pausa sento che in sala sono presenti due fratelli Pamich e mi ricordo che questo era il cognome di un famoso marciatore che vinse la medaglia d’oro della 50 chilometri alle Olimpiadi di Tokio del 1962. Che ne sarà ora di lui, non l’ho più sentito nominare da decenni e così, incuriosito, mi avvicino cautamente a uno di loro e gli domando se è parente del grande atleta e aggiungo che ricordo di averlo visto molte volte sull’Aurelia che, in calzoncini e scarpette, marciava dinoccolato e deciso. E per risposta, con lo sguardo ironico, mi dice: “Allora lei vedeva me!”. Abbiamo ripercorso con le parole i suoi anni genovesi: lavorava alla Esso,  in piazza della Vittoria, e ogni occasione e ogni luogo erano buoni per allenarsi e poi il sabato da Genova se ne andava sull’Aurelia, fino a Recco e poi, per non farsi mancare nulla, saliva fino a Uscio e ritorno per concludere la sua razione di marcia nel giorno di riposo allo stadio della Nafta, come allora comunemente si chiamava il Carlini, che allora, oltre alle gare di rugby, ospitava importanti gare di atletica (in una un fondista russo, mi pare si chiamasse Vladimir Kuk, aveva sfiorato il record mondiale dei 5.000 metri).

E così eccomi a discorrere amichevolmente con Abdom Pamich, un mito: oggi ha ottantotto anni, alto e magro, vivace come un ragazzino e dalla memoria ferrea (ricorda come fosse ieri che a Genova c’era un giovane marciatore promettente che si chiamava Cambiaso), critico nei confronti dei marciatori di oggi (“ormai quasi tutti corrono, non marciano”), attento nel seguire tutte le relazioni del convegno e, saprò poi, molto impegnato a Roma, dove vive, per difendere la memoria delle comunità dalmata-giuliana e membro della Società di Studi Fiumani; e quando gli domando quali sono i suoi ricordi più belli di marciatore mi sorprende dicendomi che la marcia per lui non è affatto un ricordo perché appena può, ora per le strade e i parchi di Roma, continua a indossare calzoncini e scarpette e va: “Per me la marcia è una passione e una passione non si lascia mai”; e infine, con dolcezza, conclude “E mi saluti tanto la mia cara Genova”.

Questo è stato un grande campione negli anni Sessanta, quando lo sport nasceva dalla passione e chi lo praticava viveva comunque in una dimensione del tutto umana, marciando per le strade e non lontano dalla vita di chi non aveva i costanti onori della cronaca. E allora mi son ricordato che in quei primi anni Sessanta nel palazzo dove vivevo abitavano due dei più importanti calciatori della Sampdoria: l’argentino Tito Cucchiaroni, acquistato dal Milan e poi cinque anni in blucerchiato dove, amatissimo – credo esista ancora un club a lui dedicato – segnò ben 40 gol, e il portierone Pietro Battara, poi preparatore dei portieri nell’anno dello scudetto della Samp. Due protagonisti, insomma del mondo del calcio, che io incontravo in latteria a bersi un cappuccino o per le scale con la borsa della spesa mentre, come due impiegatucci lontani da casa, tornavano nelle loro stanzette in affitto dove, ricordo i commenti delle proprietarie, si comportavano molto educatamente. Oggi lo immaginate Ronaldo vivere in una cameretta in un grande palazzo e andare a farsi la spesa sotto casa o un marciatore che passi il suo tempo libero per le strade ad allenarsi spinto dalla passione? C’era una volta lo sport...



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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