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Identita' preistoriche. Potere, disuguaglianza e rito nelle societą neolitiche del Vicino Oriente – Stefano Radaelli
La bottega dei barbieri di mercoledģ 6 settembre 2023
Ultimi diecimila anni. Eurasia in proiezione mediterranea. L’idea secondo cui la disuguaglianza sarebbe un aspetto inevitabile e universale della socialita' umana e' stata messa in discussione in modo sistematico solo in tempi relativamente recenti, con l’avvento...

di Valerio Calzolaio

Ultimi diecimila anni. Eurasia in proiezione mediterranea. L’idea secondo cui la disuguaglianza sarebbe un aspetto inevitabile e universale della socialità umana è stata messa in discussione in modo sistematico solo in tempi relativamente recenti, con l’avvento dell’era moderna. Da una parte, la vita sociale e politica delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo incarnava una sfida senza precedenti per le categorie occidentali perché sembrava dimostrare che molte cose che venivano date per scontate, come la monarchia o la proprietà privata o l’organizzazione patriarcale della società, erano in realtà assai meno universali e “naturali” di quanto si fosse creduto fino a quel momento. Dall’altra parte, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con la diffusione delle teorie evoluzioniste di Darwin e con la nascita dell’archeologia, è divenuto evidente che la nostra specie, alla pari di tutte le altre, non è sempre esistita, ma è un “prodotto” almeno di decine di milioni di anni di evoluzione. Da una parte, la storia umana non ha un andamento di progresso lineare, dall’altra va sempre letta come parte di una più ampia storia naturale. Definire “semplici” le società del passato ha poco senso: l’organizzazione collettiva umana richiede sempre lo sviluppo di strategie di convivenza e formule “sapienti” in grado di far funzionare la vita sociale. Lo sviluppo socio-culturale, al pari dell’evoluzione naturale, non ha affatto un andamento teleologico e non avanza per stadi successivi ben distinti. Pertanto, l’organizzazione sociale umana non è originariamente gerarchica tanto quanto non è originariamente egalitaria. Proviamo a verificarlo attraverso tante esistenti testimonianze archeologiche.

Il filosofo veneto specializzato in semiotica Stefano Radaelli (1983) lavora nel campo della scuola ed è un ricercatore indipendente di antropologia e archeologia. Dopo anni di studi e approfondimenti, ha ora realizzato un bel saggio, a dimostrazione che nella conoscenza interdisciplinare non ci si può limitare al mondo accademico, talora condizionato da gelose logiche compartimentali e autoreferenziali. L’autore tratta e riassume diversi aspetti del periodo finale del Paleolitico, da circa cinquanta mila anni fa e si concentra poi sia su tempi più recenti, dall’inizio del Neolitico verso di noi, che su spazi più definiti, ovvero il cruciale Oriente più vicino all’Europa (da cui il titolo). Sembrerebbe confermato che i nostri antenati neolitici, nonostante le sfide generate dalla lenta conflittuale rivoluzionaria opzione stanziale e le allettanti opportunità offerte dalle prime economie di autoproduzione “in loco”, siano riusciti a prevenire con successo per diversi millenni lo sviluppo di società stratificate e di istituzioni politiche centralizzate e oppressive. La peculiarità delle forme di organizzazione di alcune società neolitiche, forse dipesa da un’originale sinergia tra tendenze individualistiche e tendenze egalitarie (analizzata nel primo capitolo), trovò espressione in un’ampia varietà di fenomeni culturali e sociali: la concezione del corpo, rivelata in particolare dalle pratiche funerarie, dai temi figurativi e dall’arte plastica; il rapporto dinamico e spesso ambiguo con il nascente ambiente edificato e, più in generale, con la materialità (oggetti, elementi naturali, sostanze ecc.); la visione cosmologica che, attraverso la mediazione del rito, ispirava formule di vita collettiva flessibili e acefale. A creare un contesto favorevole sarebbero stati vari fattori sia esterni che interni (per esempio, maggiori mitezza e stagionalità climatiche, diversificazione delle strategie di sussistenza, tendenze demografiche), mentre a garantire la sua incredibile sopravvivenza nel tempo (si parla di diversi millenni) sarebbero state formule culturali e politiche delle quali non sappiamo nulla per certo, ma sulle quali è possibile avanzare delle congetture a partire dalle testimonianze archeologiche. Probabilmente quei sapiens neolitici pensavano sé stessi in modo parzialmente differente da come noi ci pensiamo oggi, tanto come persone quanto come collettività. Seguono sei densi capitoli su: la nascita dei primi villaggi; le origini dell’agricoltura; identità, rito e vita collettiva nei villaggi neolitici; le origini della civiltà; violenza, rito, potere; il mondo dei vivi, il mondo dei morti. Utili la ricca bibliografia e gli indici (dei nomi e dei siti archeologici).



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di Valerio Calzolaio

Ultimi diecimila anni. Eurasia in proiezione mediterranea. L’idea secondo cui la disuguaglianza sarebbe un aspetto inevitabile e universale della socialità umana è stata messa in discussione in modo sistematico solo in tempi relativamente recenti, con l’avvento dell’era moderna. Da una parte, la vita sociale e politica delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo incarnava una sfida senza precedenti per le categorie occidentali perché sembrava dimostrare che molte cose che venivano date per scontate, come la monarchia o la proprietà privata o l’organizzazione patriarcale della società, erano in realtà assai meno universali e “naturali” di quanto si fosse creduto fino a quel momento. Dall’altra parte, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con la diffusione delle teorie evoluzioniste di Darwin e con la nascita dell’archeologia, è divenuto evidente che la nostra specie, alla pari di tutte le altre, non è sempre esistita, ma è un “prodotto” almeno di decine di milioni di anni di evoluzione. Da una parte, la storia umana non ha un andamento di progresso lineare, dall’altra va sempre letta come parte di una più ampia storia naturale. Definire “semplici” le società del passato ha poco senso: l’organizzazione collettiva umana richiede sempre lo sviluppo di strategie di convivenza e formule “sapienti” in grado di far funzionare la vita sociale. Lo sviluppo socio-culturale, al pari dell’evoluzione naturale, non ha affatto un andamento teleologico e non avanza per stadi successivi ben distinti. Pertanto, l’organizzazione sociale umana non è originariamente gerarchica tanto quanto non è originariamente egalitaria. Proviamo a verificarlo attraverso tante esistenti testimonianze archeologiche.

Il filosofo veneto specializzato in semiotica Stefano Radaelli (1983) lavora nel campo della scuola ed è un ricercatore indipendente di antropologia e archeologia. Dopo anni di studi e approfondimenti, ha ora realizzato un bel saggio, a dimostrazione che nella conoscenza interdisciplinare non ci si può limitare al mondo accademico, talora condizionato da gelose logiche compartimentali e autoreferenziali. L’autore tratta e riassume diversi aspetti del periodo finale del Paleolitico, da circa cinquanta mila anni fa e si concentra poi sia su tempi più recenti, dall’inizio del Neolitico verso di noi, che su spazi più definiti, ovvero il cruciale Oriente più vicino all’Europa (da cui il titolo). Sembrerebbe confermato che i nostri antenati neolitici, nonostante le sfide generate dalla lenta conflittuale rivoluzionaria opzione stanziale e le allettanti opportunità offerte dalle prime economie di autoproduzione “in loco”, siano riusciti a prevenire con successo per diversi millenni lo sviluppo di società stratificate e di istituzioni politiche centralizzate e oppressive. La peculiarità delle forme di organizzazione di alcune società neolitiche, forse dipesa da un’originale sinergia tra tendenze individualistiche e tendenze egalitarie (analizzata nel primo capitolo), trovò espressione in un’ampia varietà di fenomeni culturali e sociali: la concezione del corpo, rivelata in particolare dalle pratiche funerarie, dai temi figurativi e dall’arte plastica; il rapporto dinamico e spesso ambiguo con il nascente ambiente edificato e, più in generale, con la materialità (oggetti, elementi naturali, sostanze ecc.); la visione cosmologica che, attraverso la mediazione del rito, ispirava formule di vita collettiva flessibili e acefale. A creare un contesto favorevole sarebbero stati vari fattori sia esterni che interni (per esempio, maggiori mitezza e stagionalità climatiche, diversificazione delle strategie di sussistenza, tendenze demografiche), mentre a garantire la sua incredibile sopravvivenza nel tempo (si parla di diversi millenni) sarebbero state formule culturali e politiche delle quali non sappiamo nulla per certo, ma sulle quali è possibile avanzare delle congetture a partire dalle testimonianze archeologiche. Probabilmente quei sapiens neolitici pensavano sé stessi in modo parzialmente differente da come noi ci pensiamo oggi, tanto come persone quanto come collettività. Seguono sei densi capitoli su: la nascita dei primi villaggi; le origini dell’agricoltura; identità, rito e vita collettiva nei villaggi neolitici; le origini della civiltà; violenza, rito, potere; il mondo dei vivi, il mondo dei morti. Utili la ricca bibliografia e gli indici (dei nomi e dei siti archeologici).



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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