Il jazz nei giorni di pioggia lo sento addosso e mi scava dentro come l’amarezza di un pensiero che vuole la sua ansia. Le gocce battono sui vetri guardo fuori mentre dentro insiste come un’ossessione il ritmo di quella musica che attraverso le improvvisazioni non smette di battere il tempo: tutto scorre e niente si afferra.
Per Nicola – scrive Curci – il jazz è essenzialmente malinconia, un sentimento ineffabile, una epochè dell’anima davanti all’incommensurabile mistero del nostro essere “gettati nel mondo”, per dirla con Heidegger. Nella malinconia di un giorno di pioggia, in uno stato di sospensione del tempo, quando “tutto scorre e niente si afferra”, il jazz dice le sue parole più chiare, racconta la sua vera storia. E si può aggiungere che in quel tutto scorre e niente si afferra risiede non solo la verità del jazz ma anche la verità di Nicola Vacca, l’inattuale, come ama definirsi. Poeta, saggista, critico letterario, Vacca ha improntato il suo percorso poietico all’onestà intellettuale, che né l’adesione emotiva alla Storia né il coraggio sociale costringono a visioni rassicuranti o edulcorate, anzi. Resta viva la consapevolezza dell’estrema difficoltà della Poesia di fronte al decadimento dei valori fondanti della civiltà occidentale, a cui contrappone – sdegnato – un intelligere profetico, urticante, e i suoi versi svettano dal piattume delle banalità letterarie che affliggono larga parte della postmodernità. Come saggista ha passato più volte la sua lente d’ingrandimento sul Novecento letterario estrapolandone le figure più alte e non vincolate dal conformismo o dal mercato. E lo ha fatto dopo anni di studio, lontano dalle suggestioni comode del pensiero unico. Anni di studio che ha dedicato con altrettanta passione a Cioran, figura guida del suo essere poeta-filosofo. Come critico ha mantenuto e mantiene una adamantina, ostinata coerenza, sordo alle lusinghe delle sirene editoriali. Da poeta, infine, ha intrapreso una strada difficile, quella del disincanto, fino a giungere al pregevole trittico delle sillogi Mattanza dell’incanto, Luce nera (premio Camaiore) e Commedia ubriaca.
Un percorso, quello di Nicola Vacca, impervio, affascinante, che non concede nulla all’improvvisazione e alla banalità, al punto da potersi ritenere impossibile, oggi, trattare di volta in volta esclusivamente della singola opera, dell’ultima novità nella sua ormai corposa produzione. Occorre ricondurre a unità, collocare ciascun lavoro dentro questo percorso, tracciarne la linea evolutiva e, eventualmente, individuarne i punti di svolta, i momenti in cui si rinnova, mutandone i colori e accendendosi a più ampie pulsioni. Arrivano parole dal jazz non sfugge all’assunto, manifestandosi come una tappa del cammino. Pervaso dal rispetto, quasi una fede, verso la parola scritta, l’ha orientata all’esperienza sinestesica già nel libro Dal tratto alle parole, del 2018. L’opera in cui ha affidato la scrittura a una sorta di sinestesia esistenziale, incrociando i propri componimenti con la fisiognomica dei ritratti di Mario Pugliese, che effigiano i Grandi del Novecento letterario. Sembra che nell’autore abbia preso forma e stia crescendo il bisogno interiore di conquistare nuovo spazio alla scrittura, che per lui non è un esercizio puramente stilistico ma una ragione di vita, appunto una condizione esistenziale. In questo senso si possono rinvenire alcune analogie con l’arte contemporanea, installatoria e performativa, dove l’esigenza di contaminazione, di associazione, di interazione tra forme, materie, gesti, cromie, movimenti e parole è radicata da tempo. Un intreccio di codici comunicativi che Vacca continua a sperimentare, per risolvere, si può ritenere, i disequilibri della postmodernità, non allontanandosi dall’inattuale ma diluendolo nell’esperienza: come in un percorso circolare che si avvita verso l’alto, con il nuovo libro associa le proprie riflessioni poetiche al tratteggio icastico delle illustrazioni di Alfonso Avagliano e, splendidamente, alla sfera sensoriale della musica. Del jazz, non a caso. La struttura del libro si articola in quattro sezioni: Le bocche d’oro del jazz, Donne che cantano il jazz, Le grandi mani del jazz, Perché amo il jazz. Si chiude con una playlist curata da Tommaso Tucci, quasi una guida emotiva alla lettura. Vacca è un uomo colto, conosce la storia e il significato del jazz, oltre che apprezzarlo da ascoltatore competente. Ne conosce il disperato vissuto di musica degli ultimi, degli emarginati, afroamericani e no. Ne riconosce il simbolismo fonetico e il valore semantico: sin dalle origini (ovvero il ragtime, l’antenato del jazz) è una musica sincopata, a brandelli (la parola in inglese significa tempo stracciato), dove ogni strumento segue un proprio canovaccio e la fusione del tutto assume una forza espressiva straordinaria. La scrittura ne asseconda il ritmo, come da tempo i versi di Vacca esprimono ritmi e suoni inconfondibili, incroci di significato, accostamenti diretti, visioni originali:
Sanguino d’amore mentre ascolto Chet Baker le cose sono finite in un libro del desiderio dove un domani si potrà leggere di tutte le passioni che ho vissuto.
Oppure:
C’è una luce che si insinua nel punto più oscuro della notte diventa incandescente la tromba di Freddie che strangola le note. Gli accordi accendono fuochi d’artificio nessuna possibilità di domare le fiamme.
Ma nel libro – tuttavia – allo spleen, alla malinconia di cui opportunamente parla Curci si affianca un senso quasi perfetto di stupore, che trasmigra in fiducia verso l’arte, o meglio verso la genialità di cui è comunque capace un essere umano. Come per esempio Miles Davis, in questi versi:
Ogni volta che un tuo assolo spacca il cielo sotto cui viviamo la luna e le stelle si incontrano nel sole e noi ci sentiamo possibilità infinite.
Sorprende e ammira, qui, la capacità di avvicinarsi al lirismo sfiorandolo senza oltrepassarne la linea di confine, evocando visioni e stati d’animo pur restando fedele al verso che squarcia la pagina, con l’improvviso, e inaspettato ma coerente, richiamo al disincanto del cielo sotto cui viviamo. Non perde mai, Vacca, il senso del dubbio esistenziale che fonda sulla dicotomia tra il male e il bene, tracciati a volte dalle allegorie, come quelle alle quali ricorre scrivendo di John Coltrane:
Quando suona John sembra di stare in chiesa e a casa di Satana la sua musica è il dappertutto che si aggira dalle parti dell’anima.
Insomma un libro che esprime ancora una volta la cifra di un poeta che ha sempre saputo, come in Commedia ubriaca per esempio ma in realtà tutto il Trittico non è da meno, guardare in faccia il male senza restarne atterrito, col cuore in mano e con la fronte alta, come scriveva Gozzano. E che nella scrittura ha sempre rifiutato suggestioni estetizzanti nella scelta delle singole parole, preferendo un linguaggio che si svolge dentro ritmi poetici il cui nitore formale, dorico, sobrio, è esso stesso di una indiscutibile eleganza. Una scrittura il cui tono e colore esprimono perfetta coerenza all’argomento e al senso che esprime, oppure al contrario alla decostruzione del senso, così che dal verso discendano immagini, visioni dense e vere.