Parole in guerra

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04/02/2021, ore 12:32

Con una affermazione di intenti lucida e spietata, che è insieme dichiarazione di poetica, Marise Ferro ci indirizza subito alle ragioni che la portarono a pubblicare all’indomani del secondo conflitto mondiale, nel 1949, per le edizioni di Milano Sera, il romanzo La guerra è stupida: “La nostra indifferenza di uomini che vogliamo vivere a tutti i costi tranquilli nasconde infinite zone d’orrore che la memoria custodisce suo malgrado, che la volontà rifiuta, ma che sono”. La conclusione ci conduce, senza rimedio, già all’interno delle ragioni della narrazione: “Forse è meglio indagare l’orrore; almeno io penso che per me sia meglio. (…) Da dieci anni e anche più, io, come molti, cerco di vivere con gli occhi chiusi. Oggi li apro”.
La guerra è stupida è titolo perentorio e icastico, che sposta sull’evento una tara solamente umana, causata da quegli uomini che la guerra hanno voluto, determinato, celebrato. Ed è bene considerare come, nel corso di un conflitto quale è stato quello che ha ridotto l’Europa in cenere e rovine, distruggendo città e coscienze, la linea di separazione tra vittime e carnefici rischia di farsi sfuggente e di apparire però allo stesso momento necessaria, condizione interiorizzata, oltre che concreta, di un mondo diviso. Lo sa bene la Ferro che pone in epigrafe al suo romanzo la frase Ni victimes ni bourreaux, né vittime né carnefici appunto, che è il titolo di una raccolta di articoli di Albert Camus. Insomma, la guerra va in tutti i modi evitata, eliminando alla radice le cause che possano determinarla.
Va detto subito che La guerra è stupida, ripubblicato ora dalla casa editrice Gammarò, è romanzo insieme di grande forza narrativa e di straordinaria lucidità nell’analizzare coscienze individuali e azioni e reazioni collettive, tanto che viene fatto di chiedersi perché il nome della Ferro non risulti tra i più in vista tra coloro che scrissero intorno alla metà del secolo scorso, o perché insomma sia stato così presto dimenticato. È dunque senz’altro meritorio il lavoro della curatrice del volume Francesca Irene Sensini, che in maniera precisa e premurosa riporta l’attenzione su questo romanzo e sull’intera produzione della Ferro, particolarmente su quella a carattere narrativo. La scrittrice esordì nel 1932 con il romanzo Disordine (titolo anche questo quanto mai emblematico) e pubblicò La sconosciuta, sua opera conclusiva dedicata alla figura della madre, nel 1978. I romanzi furono in buona parte editi dalla casa editrice Mondadori, con la quale la Ferro collaborò anche traducendo per prima in Italia Simenon, sia i polizieschi che le opere narrative di carattere più generale, e Splendori e miserie delle cortigiane di Balzac, oltre che Mérimée, Mauriac, Proust, George Sand, Colette, Maeterlink. La Ferro fu anche un’attenta osservatrice della cultura e dei costumi del suo tempo, soprattutto attraverso la collaborazione a giornali quali il Corriere della Sera, il Giornale, La Stampa, quotidiani di cui fu una delle firme più apprezzate.
Alla sua piena affermazione non giovò certamente il dominante carattere maschile, in parte settario e respingente, che caratterizzava la cultura italiana di quegli anni. Dovettero però paradossalmente contribuire ad appannare le grandi qualità della sua scrittura i matrimoni con Guido Piovene, conclusosi ben presto anche a causa delle nette divergenze nella lettura degli avvenimenti di quegli anni (Piovene aveva aderito convintamente al fascismo e alle sue scelte), e con Carlo Bo, conosciuto nel 1941 e poi compagno fino alla morte, che per la Ferro sopravvenne nel 1991 (era nata nel 1905). D’altra parte, l’ironia e l’implacabile corrosività con cui la scrittrice nativa di Ventimiglia era solita analizzare le vicende del nostro Paese e anche gli atteggiamenti delle donne, certo non aiutarono a creare simpatia intorno alla sua opera.
La narrazione de La guerra è stupida parte dal 1935. Marise apprende la notizia della dichiarazione italiana di guerra all’Etiopia da suo marito, “un giovane dai nervi e dall’intelligenza esacerbati”. La protagonista del racconto, di fronte all’annuncio del conflitto, prova una sorta di rifiuto e non riesce a proferire parola: “Ora so – scrive la Ferro – che la pausa, il silenzio che dilagarono in me dopo la notizia della dichiarazione di guerra, erano orrore, ancestrale orrore, che mi toccava prima ancora le viscere della ragione, portandomi uno dei sapori più forti della mia qualità di donna: essere ammalato e profetico, carne satura di presentimenti”.
La “qualità di donna” induce la scrittrice a sviluppare una narrazione che parla della guerra e delle sue conseguenze senza elencare gli avvenimenti, senza cioè sistemarci di fronte alla Storia e ai grandi sommovimenti che essa determina, ma mettendo in scena anche i fatti più grandi, spesso facendoceli solo intravedere, attraverso le piccole manifestazioni di una quotidianità esasperata e inasprita (“La guerra era ormai in tutti noi, la portavamo nelle vene”) e per mezzo delle vicende interiori di ognuno, che subivano in quel tempo una mutazione profonda e dolorosa da cui sembrava impossibile riaversi.
La guerra è inizialmente conosciuta attraverso i documentari cinematografici (“ricordo che un cespuglio di margherite in fiore, molli sul gambo alto, mossi da un soffio di primavera vicino a grandi carogne di cavalli morti, a gruppi informi di stracci che dovevano essere stati uomini, mi fece avere il palpito che annuncia le vere emozioni”), per poi diventare pericolo che viene dal cielo, e che provoca “una paura nuova, crudelissima, senza difesa e senza umiltà”, insomma “una paura barbara”.
Si diventa così protagonisti passivi di un conflitto che non si vuole, e si cade vittime di quella paura “senza umiltà”, tanto più difficile da estirpare perché determinata non solo dalla superbia degli uomini e dal loro orgoglio, quanto in gran parte dalla loro stoltezza: “Ho costatato – scrive la Ferro – che gli uomini sono vili, e che se combattono spesso è per stupidaggine, passiva obbedienza, o totale asservimento”.
Lo spettrale motivo della guerra contrasta con le manifestazioni della natura, che insieme diventano rifugio e motivo di uno stupore incredulo, che contrasta con il dissennato agire dell’uomo. “La primavera faceva colare fiori persino dai crepacci dei muri e dalle rocce. Calava il geranio rosa dalle pietre e il mesenbriantheumie color limone dagli scogli che degradavano al mare. Le siepi di petosporum mandavano una fragranza tiepida: vi erano margherite, ranuncoli, anemoni, genziane, limane e denti di cane tra l’erba dei prati”. Tutto questo, nelle pause dei bombardamenti, fa sì che ci si possa innamorare “di un albero di mimosa, di un’ansa di mare dove vogava soltanto la luna, di certe luci vespertine, verdi e rosa che si fermavano sotto una siepe di bouganvillea”. La natura è dunque il luogo dove è possibile trovare posto anche per chi “senza nessuna passione politica, diffidente, anzi, d’ogni politica, negata, per indole, a capire gli interessi di un popolo nei suoi confini geografici”, come dichiara di essere Marise Ferro, è “disperata degli uomini”.
La guerra è un oltraggio che riduce l’uomo agli istinti elementari dell’odio, della paura, della fame, togliendogli la facoltà di pensare. “Per sei anni – sostiene la Ferro – in Europa non scaturì un’idea; per sei anni gli uomini non dissero una parola che servisse o che insegnasse qualche cosa”.
Nemmeno la Ferro vuole insegnare o spiegare, “io sono una romanziera, dice, “io divago, racconto, sogno”. La guerra è stupida è proprio questo: un libro di divagazioni, di racconti e di sogni, un po’ pamphlet, per il resto narrazione di vicende personali e collettive, che si nutre dello sforzo di ripercorrere la Storia recente senza esserne fagocitati. Come scrive Francesca Irene Sensini, nell’ampia e penetrante introduzione, il romanzo della Ferro è “il racconto di una ricusazione meditata e radicale della guerra, che parte dal corpo della narratrice, dai suoi istinti – in prima istanza la paura – per farsi ragionamento, visione critica del privato e della Storia”.
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