'Chi ha rubato Pecos Bill?' di Giuseppe Fiori |
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06/02/2021, ore 03:58
| I protagonisti del piccolo nuovo poliziesco firmato da Giuseppe Fiori, Chi ha rubato Pecos Bill? (Oltre Edizioni, 2020), sono due: Roma e il Tevere. Sì, ci sono il commissario della polizia fluviale Omar Martini, ci sono i suoi pochi collaboratori, c’è la guardia che rema, un ladro professionista ormai in pensione, una bella poliziotta con la coda di cavallo in servizio presso la caserma di polizia a cavallo di via Anicia, un autore e collezionista di fumetti: la storia che li coinvolge tutti però è solo un pretesto per raccontare la città e il suo fiume, che sembrano davvero essere l’obiettivo dell’autore.
Giuseppe Fiori ha scritto molti romanzi, polizieschi per lo più, ma nelle storie che ha in testa e che diventano libri importanti, come il recente Il pasticciaccio del commissario Martini (Manni 2019), il contesto ambientale, la città dove vive e ambienta le sue trame, i personaggi di contorno, il linguaggio colloquiale venato di romanesco prendono un posto preminente nella narrazione. L’isola Tiberina, i due ponti che la legano alla terraferma, il Cestio e quello dei “giudii”, Trastevere, San Francesco a Ripa, il Gianicolo, la Fontana dell’Acqua Paola, l’enorme parco della Villa Doria Pamphili, sono il palcoscenico su cui lo scrittore fa muovere i suoi attori.
Ma c’è di più, c’è il fiume. Il Tevere è stato di recente tema d’ispirazione di numerosi romanzi: penso a Tevere di Luciana Capretti, a La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, Con il sole negli occhi di Elfriede Gaeng, È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci, Il fiume di Marco Lodoli. Un luogo quasi mitico, che ci riporta alle origini della città e che rivela una vita segreta, lontana dagli sguardi frettolosi dei passanti, una vegetazione selvaggia, una fauna quasi sconosciuta, un mistero che sembra tuttora circondare una metropoli contemporanea che non rinuncia alle sue misteriose origini di fondazione.
Nella personalità del commissario Martini, Omar, anagramma di Roma, che sta vivendo in solitudine il suo anno sabbatico, nel suo atteggiamento un po’ rinunciatario, poco attento alla carriera e allo stile più consueto del mestiere di “sbirro”, si ritrova una delle caratteristiche della personalità di molti nostri concittadini: giustizia sì, ma senza fare del male; indagini sì, ma con intelligenza e senza pregiudizi, guardando in prospettiva, dando il giusto risalto alle caratteristiche delle persone, rispettandole, anche se si tratta di ladri che comunque hanno già pagato il loro debito alla giustizia.
La storia del furto dalla casa di un disegnatore di una collezione di albi di Pecos Bill rilegati con cura, il suo trafugamento su un banco di Porta Portese, la cavalcata notturna a pelo su un cavallo bianco rubato con estrema destrezza dalla caserma trasteverina da parte di un giovanissimo ladro che, imitando Garibaldi, si esibisce galoppando intorno alla sua leggendaria statua, sono immagini quasi cinematografiche che Fiori ci regala in un poliziesco lieve, benissimo raccontato, pieno di citazioni letterarie, di spunti di riflessione, di incontri con le parti più nascoste e meno descritte dei romani e del loro rapporto con i quartieri storici della città. Pecos Bill, a cavallo del suo Turbine, con i calzoni con le frange e il lazo pronto nelle mani, è un personaggio mitico, lontano dall’immaginario dei ragazzi d’oggi, tutti smartphone e videogame, ma riporta noi lettori dell’epoca alla nostalgia per personaggi di carta che avevamo dimenticato.
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