Foibe, in un baule il calvario istriano. Ecco le carte di Maria Pasquinelli

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10/02/2021, ore 07:26

«Lentamente la fune scorreva sulla carrucola traendo dall’abisso il groviglio di membra agganciate; lunghi capelli, abiti a colori vivaci, rivelarono che nel carico erano i cadaveri di due donne. Mentre gli altri si avvicinavano per liberarli e deporli sul terreno, l’uomo diede indietro all’improvviso come fulminato e mormorò con voce strozzata dal pianto: “xe mia fia…” Poi cadde svenuto».
«Xe mia fia…». È mia figlia. Sono passati settantotto anni dal ritrovamento nella foiba di Orichi, vicino a Barbana, dei corpi della ragazza e di due sorelle uccise dai partigiani comunisti agli ordini di Ivan Kolic detto «el Gobo». Ma quelle parole raccolte dal maresciallo dei pompieri di Pola Arnaldo Harzarich, che spese ogni energia per recuperare le vittime italiane buttate nelle fenditure carsiche, danno ancora una fitta al cuore. Si chiamava Antonio Radecchi, quel papà che assistette al ritrovamento delle figlie. Albina aveva 21 anni, Caterina 19, Fosca 17. Vivevano a Lavarigo e, come ha scritto Dino Messina in Italiani due volte (Solferino), «andavano al lavoro in una fabbrica di Pola e sul tragitto, prima di rientrare a casa, si fermavano a parlare con alcuni militari di stanza al Campo di Fortuna di Altura». Tanto bastò per scatenare l’odio etnico e politico. Portate via di casa due giorni prima, usate come sguattere e violentate, erano state infine buttate nell’abisso con altri ventitré poveretti.
A raccogliere quelle parole del maresciallo dei pompieri fu nel 1945 una maestra fascista che dopo aver fatto l’infermiera volontaria in Libia, tentato di arruolarsi (documenti falsi, testa rasata) come soldato e ottenuto infine di insegnare alle elementari di Spalato, si incaponì nella raccolta di una montagna di documenti sugli eccidi contro gli italiani nell’autunno 1943, mesi in cui i nostri, dopo l’8 settembre, erano stati presi tra due fuochi: di qua le truppe naziste e di là i partigiani jugoslavi, nemici acerrimi nel contendersi il territorio, ma entrambi accecati dall’odio contro di noi. Documenti che sperava servissero a convincere non solo gli Alleati, ma prima ancora ciò che restava della destra fascista come Junio Valerio Borghese e insieme il Governo del Sud guidato da Ivanoe Bonomi e insieme ancora gli stessi partigiani non comunisti a partire dalle Brigate Osoppo, a superare le insuperabili divisioni perché le terre istrovenete non finissero sotto il tallone rosso di Josip Broz, Tito.
Si chiamava Maria Pasquinelli, quella maestra. E sarebbe passata alla storia due anni dopo, il 10 febbraio 1947, quando uccise per protesta con tre colpi di pistola, a Pola, il generale inglese Robert de Winton, il comandante alleato della zona. La prima ipotesi ripresa dal «Corriere» (una spiata volutamente falsa?) fu che la donna fosse stata «indotta all’assassinio di De Winton dagli jugoslavi per mettere in cattiva luce la comunità italiana di Pola nel momento in cui la città sta per passare sotto la giurisdizione di Belgrado o che abbia agito in base a qualche particolare causa di risentimento contro i militari britannici». In realtà la donna aveva in tasca un biglietto rivelato e riassunto due giorni dopo da Indro Montanelli: «Ho voluto uccidere per vendicare il tradimento compiuto contro il mio Paese e farlo proprio nel giorno in cui si firmava a Parigi la vergognosa pace imposta all’Italia». Confesserà al processo: «Non volevo sparare all’uomo e neppure alla divisa», ma «a quello che rappresentava». Aggiunse: «Non conoscevo né il nome, né la fisionomia, né i particolari della sua famiglia». Era un simbolo, fine. Condannata a morte, graziata nel 1964, esaltata dalla destra più dura, ma accusata da tutti gli altri di non aver mai chiesto perdono per quell’uomo ammazzato colpevole solo di decisioni altrui, confesserà alla cronista e scrittrice Rosanna Turcinovich: «Sento ogni notte il suo fiato sul mio collo».
Lasciò anzi alla giornalista, croata ma della minoranza italiana, autrice del libro La giustizia secondo Maria, una lettera che la delegava a ritirare alla curia di Trieste un suo baule strapieno di lettere, rapporti, brogliacci. Baule finalmente consegnato dopo anni alla destinataria che, con l’aiuto di un’altra giornalista, Rossana Poletti, ha esaminato pagina per pagina i documenti ricavandone un libro, Tutto ciò che vidi, Edizioni Oltre. Dov’è ricostruita la storia della traumatica amputazione dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia, la tragedia dell’esodo, l’infamia delle foibe. Nelle quali sarebbero poi finiti anche tanti slavi innocenti e vittime della barbarie titina (come a Kocevski Rog, dove solo nell’agosto 2020 sono stati recuperati i corpi di 250 assassinati), ma soprattutto, nel maledetto autunno ’43, tantissimi italiani.
Documenti preziosi. Come appunto sul ritrovamento di Albina, Caterina e Fosca, annotate ciascuna da Harzarich con lo stesso orribile dettaglio («squartata con un palo») e inserite nell’elenco di «martiri non iscritti Partito nazionale fascista». Assassinati, come moltissimi, «solo» perché italiani. Dice tutto la deposizione del fratello dello scrittore Scipio Slataper, Guido. Che, sopravvissuto al lager di Mauthausen, dichiarò al processo alla Pasquinelli («parlava esclusivamente da italiana, la sua preoccupazione costante era l’Italia, al di fuori ed al di sopra di ogni partito») che «nelle foibe erano stati gettati italiani senza distinzione, anzi erano stati gettati (anche) dei ferventi antifascisti». E così dicono tutto certi ritagli di giornale che, emersi dal baule, dimostrano quanto fosse imbarazzata e ipocrita una certa sinistra, che per anni sostenne di «non conoscere» la spaventosa realtà degli abissi carsici. Per ultimo Achille Occhetto sei anni fa: «Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza». Sarà... Sul «Piccolo» di Trieste di quel 1943, però, uscivano necrologi così: «La notte del 5 ottobre, nella foiba di Vines, veniva troncata la vita di Giacinto Bulian, imprenditore edile, d’anni 41. Abbandonati nel dolore danno il triste annuncio la moglie...». Possibile che il Pci, prima di addolorate ma tardive prese d’atto, fosse ignaro di tutto?
Gelano il sangue, i documenti di quel baule. Per il racconto dello strazio di Norma Cossetto, la giovane insegnante simbolo della mattanza, sequestrata, stuprata da un branco di sedici partigiani, pestata e gettata nella foiba di Villa Surani. Per la ripetitività dei ritrovamenti in quelle feritoie carsiche di cani neri sgozzati perché, diceva una leggenda, facessero compagnia ai morti impedendo loro di lamentarsi. Per certe immagini: «Una donna riconobbe fra le salme di un carico il proprio marito e il proprio figlio diciottenne. L’infelice pianse e urlò disperata; poi si fissò nell’idea che la scarpa che il figlio aveva ancora indosso e che sembrava stretta per il piede gonfio per la putredine, dovesse far male “al suo bambino”...». Impossibile dimenticare. Sbagliato rimuovere. Inaccettabile negare ancora quanto successe. Dopo tanti anni però, racconta Rosanna Turcinovich, la stessa pasionaria che si era spinta a uccidere per amore delle terre istrovenete, non conservava più un grammo di odio o di rancore. Solo dolore. Rimpianto. Nostalgia.
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