È il 1920. Sono le tre del mattino di un freddo gennaio parigino quando la pittrice ventiduenne Jeanne Hébuterne, incinta di nove mesi, si getta dal quinto piano di un appartamento di Montparnasse. Finisce così la sua vita, anzi due: il bambino non vedrà la luce. A contar bene, le vite perdute sono tre: il padre del bambino, Modigliani Amedeo, pittore livornese ebreo di anni trentasei, ha preceduto moglie e figlio il giorno prima, affetto da una tisi che assenzio, alcol e droghe non hanno certo contribuito a migliorare. È stato tutto un attimo, tutto è accaduto proprio nel momento in cui stava arrivando una gloria mai goduta in vita... “Morì malamente, come appunto male havea vivuto”. No, non è l’epitaffio di Amedeo Modigliani, ma quello di Michelangelo Merisi da Caravaggio che comunque non è così persuaso – ce lo dice egli stesso - d’aver “vivuto” male. In fondo, racconta il Caravaggio, ha fatto l’unica vita che ha ritenuto, anzi “sentito” possibile. Casomai morto male, quello sì: turlupinato dalla ciurma, abbandonato sulla costa laziale in preda alla febbre rincorrendo fino in toscana la feluca che trasportava le sue tele, nel disperato tentativo di accedere alla Grazia papale che lo avrebbe liberato dalla condanna a seguito della quale s’era reso fuggitivo dopo che a Roma aveva ammazzato Ranuccio Tomassoni...
Anche “al matt’”, il matto, come lo chiamano al paese, ci racconta come è morto, anzi, come ha deciso di morire: con in braccio un coniglio, a bordo della sua moto Guzzi scarlatta, seguito dai “suoi” cani randagi in corteo, non ha fatto altro che andare all’Ospedale psichiatrico dove lo conoscono bene, ha detto “sono venuto a morire”, s’è sdraiato su una branda ed è morto. Facile no? Sicuramente più facile che vivere. Ah, il matto si presenta: “Mi chiamo Antonio Ligabue”... Ai racconti narrati in prima persona della vita dei tre pittori si aggiunge la voce di Gesualdo da Venosa, musicista tardo rinascimentale che uccise moglie ed amante, e quella di Alessandro Stradella, altro musicista seicentesco che, per converso, pagò il suo libertinaggio con la vendetta a morte dell’oltraggiato alla cui moglie aveva regalato qualche momento di gioia. “Autobiografie apocrife” si legge nel sottotitolo, ma questo interessante richiamo è presto smorzato dal fatto che di apocrifo c’è ben poco. Manca un artificio letterario che giustifichi la narrazione in prima persona dei protagonisti da morti, oppure l’idea di affidare alla loro voce un punto di vista originale che, pur senza sconfinare nel falso storico, presenti magari un’interpretazione plausibile ma difforme da quella comunemente accettata della loro vita. Non basta quindi volgere in prima persona delle biografie alle quali nulla s’aggiunge, tre delle quali arcinote e già sviscerate (si prenda come esempio su tutte M. L’enigma Caravaggio di Peter Robb). Resta, per carità, il piacere che offre la presenza d’una pubblicazione dai richiami culturali che magari ha il potenziale di fare da propulsore a qualche sacrosanto curioso che vorrà poi approfondire la conoscenza di uno o più dei cinque personaggi presenti nel libro ma, nell’era di Wikipedia, Vite maledette, non va molto oltre la funzione propedeutica. Piacevole comunque l’idea e le illustrazioni a colori, niente di più.
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