Giorgio Caproni è stato uno dei poeti più innovativi del Novecento. La sua essenzialità musicale scavata nella nuda terra della parola sconvolse il linguaggio della poesia. I suoi versi restano un’esemplare testimonianza di un secolo ferito in cui il poeta si è posto nella condizione di viaggiatore. I temi preferiti da Caproni sono il viaggio, la frontiera, la terra di nessuno con i loro paesaggi solitari. L’andare poetico di Caproni è fatto di metafisiche apparizioni che mettono a nudo l’incerto confine della vita abitato dall’uomo che è cacciatore e preda allo stesso tempo. Caproni già in Come un’allegoria si interroga sulla vita e in seguito negli altri suoi libri (Il muro della terra, Congedo del viaggiatore cerimonioso) ha affrontato a viso aperto le ragioni profonde dell’esistenza toccando con limpida chiarezza i temi legati alle domande fondamentali, davanti alle quali chiede al lettore un’attenzione perplessa. Nato il 7 Gennaio 1912 a Livorno e scomparso il 22 febbraio 1990 Giorgio Caproni è stato senza alcun dubbio uno dei massimi poeti del Novecento anche se ancora oggi tutte le iniziative promosse in suo favore sono servite ben poco a favorirne una più larga conoscenza. Questo sostiene Francesco De Nicola che (insieme a Federico Marenco)in occasione dei trent’anni della scomparsa di Caproni al poeta ha curato un volume interessante scritto a più mani. A trent’anni dal “congedo” di Giorgio Caproni. “Scendo, buon proseguimento” (Gammarò edizioni, pagine 115, € 16,00 è una raccolta di scritti (Angela Siciliano, Maria Teresa Caprile, Francesca Irene Sensini, Valentina Colonna, Federico Marenco, Francesco De Nicola) che esplorano alcuni aspetti sinora pressoché trascurati nella pur vasta bibliografia critica esistente sulla sua poesia. Maria Teresa Caprile si sofferma sulle intuizioni di Caproni in merito al dubbio e sulla parola che nel Novecento ha subito un’estenuante falsificazione assecondata alla politica, un’imminente volgarizzazione che ha corroso i valori dell’umanesimo. Partendo da questa premessa Caproni affronterà radicalmente tutti i dilemmi del disfacimento, inventando una lingua nuova che ha nella rottura del significato il suo punto di forza per una poetica che resterà un’esemplare e unica testimonianza di un secolo ferito in cui il poeta si è posto nella condizione di viaggiatore. Un viaggio che porterà Caproni in nessun luogo, o in posti nebbiosi, assurdi e vuoti «La sua – scriverà Gian Luigi Beccaria – è la religione del vuoto, descritta, commentata con dizione mirabile in luoghi di frontiera dove tutto è solitudine, dolore, addio di un uomo in viaggio o in fuga». Francesca Irene Sensini nel suo scritto intitolato Anarchici fuori tema: orti, giardini e fiori di Giorgio Caproni scrive che le tesi di Caproni sottraggono il lettore agli automatismi sensoriali del quotidiano e lo trascinano in un termin vague dove gli elementi concreti che cadono sotto i sensi si trasformano in metafisici e assolvono la funzione di strumenti conoscitivi. Il viaggio, la frontiera, la terra di nessuno con i suoi paesaggi solitari. L’andare poetico di Caproni è fatto di metafisiche apparizioni che mettono a nudo l’incerto confine della vita abitato dall’uomo che è cacciatore e preda allo stesso tempo.
«Una poesia contratta – scrive Carlo Bo – fino allo spasimo e che tuttavia conserva una sua corposità, una parte di sostanza incontaminata. Al fondo c’è sempre l’uomo inseguito dalle sue preoccupazioni».
Caproni è stato il maggiore poeta italiano del secondo Novecento. Il poeta livornese è riuscito a dare conto in versi dei moti dell’esistere, del vuoto e del nulla inventando un dire che tutto ha messo in discussione fino a tracciare le linee di un’esperienza poetica che ha un grado d’inventività, come giustamente osservava Vittorio Sereni, capace di individuare una situazione lirica nel quotidiano senza alcuna pretesa di definitività. A trent’anni dal “congedo” di Giorgio Caproni è un libro prezioso, quasi un bilancio che invita il mondo della cultura a una serie di riflessioni sulla grandezza ancora non riconosciuta del grande poeta.
«La viva voce di Caproni – scrive Valentina Colonna nell’ultimo scritto che chiude il volume – è forse tra le meno conosciute del secondo Novecento, in quanto limitato fu anche lo spazio mediatico concessogli rispetto a quello di altri poeti suoi contemporanei, di cui si è consolidato, nella memoria del pubblico della televisione di quegli anni, un ricordo più chiaro. Possiamo infatti più facilmente ricordare la teatralità di Ungaretti o la melodiosità di Montale, con stili diversi e tecniche interpretative molto divergenti e contrastanti. Ma qual era la voce di Giorgio Caproni?»
Eppure quella di Caproni, come giustamente sottolinea Giovanni Giudici, era una poesia nuova. Ancora oggi lui il è poeta nuovo che ha molto da dire e da insegnare alla cultura e alla poesia italiana contemporanea.
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