Ci sono “diverse” Cartagine: quella della fondazione sidonia (la fenicia qrt ḥdšt), quella del mito ove campeggiano Elissa/Didone ed Enea, quella punica regina del mare, quella romana, quella imperiale e augustea, quella tardoantica, vandala e poi bizantina, quella cristiana di Perpetua e Felicita, e Giovanni Di Stefano, in questo agile volume che vede la sapiente introduzione di Massimo Cultraro, le rappresenta tutte, con 13 brevi capitoli ornati da un importante apparato iconografico e da un’ottima bibliografia e seguiti da una appendice sui monumenti romani nella città del mito.
La nostalgia impone all’Autore questa scrittura, come nota a p. 15: «La nostalgia di un giorno trascorso a Cartagine \ l’avverti quando l’infuocato sole africano \ in un cielo fiammeggiante, tra silenzi fragorosi, \ tramonta dietro i marabut de “La Malga”… \ la nostalgia più forte \ è una fotografia guardata \ al di là del mare».
Di Stefano (Università della Calabria e Roma 2) – come del resto Cultraro (primo ricercatore CNR, Università di Palermo) – è uno dei massimi studiosi della città fenicio-punica, ove ha scavato e studiato in varie missioni, tra le ultime quelle recenti nel 2018/19/20, in cui, tra gli altri, hanno collaborato i giovani archeologi Stefania Fornaro e Lorenzo Zurla. La sua “nostalgia” è quindi palesemente tangibile, fondativa; sembra di vederlo fissare nella mente i capitoli del libro già sulla collina della Byrsa, per poi mettere tutto su carta (e computer) al ritorno dalla missione.
Su Cartagine, ci fa riflettere l’Autore, andrebbero riconsiderati miti e leggende, innanzitutto quello di una Didone che fonda la città “su quanta terra contiene una pelle di bue”, ma fatta a striscioline, e quindi ampia assai, all’incirca nel 818/814 a.C. e nella sua fondazione l’ecista incontra l’Enea fuggitivo che, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio – secondo il racconto virgiliano – dopo la distruzione di Troia (che però è avvenuta un bel po’ di tempo prima, forse intorno al 1184, xii sec. a.C.) e dopo lo sbarco nel Chersoneso Tracico e altre peripezie approda da lei, a Cartagine. Il poeta narra di Enea che seduce e poi abbandona colei che lo ospita, la regina Didone – per Dante «l’altra è colei che s’ancise amorosa» – a causa della missione che gli dei e il fato gli impongono, per cui lo iato di secoli non conta: fondare Roma è imperativo, e con essa magnificare la gens Giulio-Claudia. Ma i miti, si sa, vanno letti tra le righe, non dimostrati, e vanno poi solo interpretati. E sarà poi un mito o una leggenda, quella dei “sacrifici di bambini” a Baal nel Tofet? Un cimitero con ossa di bambini è reale, ma secondo accreditate interpretazioni si tratterebbe in realtà di ossa di infanti che mai avrebbero raggiunto l’età adatta per il “sacrificio”; forse la fantasia di scrittori ottocenteschi e dei moderni film sul tema ha fatto travisare la storia. E che dire di Tanit “faccia di Baal”? come collocare la divinità con i culti di Astarte e Demetra?
Del resto, nessuno che ami la storia e l’antichità (ma anche la mitologia) può sottrarsi al fascino di Cartagine, maestra e rivale di Roma, come avverte Massimo Cultraro nell’Introduzione: «Poche città del Mediterraneo antico possono vantare un ampio ed articolato palinsesto di eventi, che ha contribuito per secoli ad alimentare un’appassionata narrazione nella quale fatti reali ed immaginari convivono senza confini». Cultraro mette in luce il metodo dello storico e archeologo Di Stefano che in brevi quadretti narra, descrive, punto per punto, la città mediterranea per «fornire una serie di riflessioni e possibili chiavi di lettura su una metropoli multiculturale, all’interno di un rigoroso e aggiornato quadro scientifico».
Tra le chiavi di lettura proposte (cap. ii), Di Stefano insiste nell’evidenziare un elemento euboico-calcidese presente alla fondazione di Cartagine, elemento su cui non si è riflettuto abbastanza sinora e che le evidenze archeologiche inducono ad analizzare. E sempre in tema di elementi egei e greci in generale, al cap. iii si analizza il culto di Demetra e Kore, testimoniato, tra l’altro, dalla Favissa Delattre (sulla collina di Santa Monica) con una serie di figure fittili in cui la dea appare con i suoi simboli (fiaccola e porcellino), che induce a riconsiderare il passo di Diodoro Siculo (xiv 77.4-5) sulle modalità di trasferimento del culto demetriaco dalla Sicilia (e più propriamente Siracusa) al Nord Africa.
Ma l’Autore presenta al lettore chiavi di lettura ancora più idealizzanti e poetiche, come il tema dell’acqua, delle fontane – si pensi alla Fontana “a cascata” a La Malga, una specie di piccolo ninfeo – con i simboli di Nettuno (delfino e tridente), ampiamente documentate in altre realtà nordafricane (Leptis Magna, ad esempio). E ancora la vita quotidiana, con le case fornite di stibadia per ospitare convivi, e ancora fontane, come nella casa detta Utere Felix.
Di Stefano descrive poi ancora case, quelle dell’élite al tempo di Costantino, e in questo ambito canali, reti fognarie, bagni, toilette, ed anche qui ritorna il tema dell’acqua, della purificazione, ma anche simbolo di prestigio, come scrive l’Autore: «la presenza di fontane ornamentali (caratterizzate da una funzione decorativa) testimonia la particolare connotazione assunta dall’acqua quale ulteriore elemento di prestigio che il dominus poteva esibire ai suoi ospiti» (p. 114). Prestigio e sfarzo che appaiono per esempio nel mosaico del dominus Julius (ora al Museo del Bardo), in cui sono evidenti il tema della caccia e quello dell’agricoltura nelle varie stagioni, con il dominus assiso come in trono, con ancelle ai lati, e la bella e grande casa che appare come un castello turrito, fortificato.
Non vengono trascurati i particolari, e, per esempio, si analizza un bronzetto di equino rinvenuto a Cartagine, che molto probabilmente – come altri esempi sicelioti – aveva funzione apotropaica (difesa dell’equino stesso, a beneficio del suo padrone).
Interessante (cap. xii) l’analisi delle iscrizioni della Civitas Nybgeniorum. Si tratta in buona parte di milliaria ma ci sono anche interessanti frammenti sulla centuriazione dei Nybgenii che offrono spunti allo storico per la ricostruzione delle vicende delle genti di Gabes, la tribù dei Nybgenii (menzionata da Claudio Tolomeo, iv, 3,6) e informazioni sulla strada che da Capsa portava alla Civitas Nybgeniorum, costruita intorno al 105 d.C. da Minicio Natale per l’imperatore Traiano.
Il cap. xiii è intitolato “L’impero sul mare di Cartagine” e prende come spunto di discussione anche lo studio di due carichi commerciali naufragati in Sicilia (uno agli inizi del iii secolo, e l’altro agli inizi del iv): il primo con materiale lapideo (due colonne, in particolare) nella baia di Camarina, l’altro con anfore piene di garum a Randello, non distante dal primo. Camarina, infatti, è l’altro “luogo del cuore” di Giovanni Di Stefano, che ha passato i recenti decenni a scavare e studiare questo splendido sito.
L’Appendice è dedicata ai monumenti, a partire dalla collina della Byrsa: il Foro, forse secondo solo a Roma, l’Odeon, l’anfiteatro in cui, tra l’altro, avvenne il martirio di Perpetua e Felicita, condannate ad bestias (il 7 marzo del 203, anniversario di Cesare di Geta, cfr. la Passione di Perpetua e Felicita), il circo, le terme di Antonino. Poi vengono analizzati anche i porti e l’isola dell’Ammiraglio.
Un testo completo, che invita all’approfondimento che non solo l’archeologo attento ma anche il lettore curioso (e affascinato di Cartagine) non può trascurare, una lettura piacevole e documentata che ci fa piacere segnalare.
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