Dott.ssa Curzia Ferrari, Lei è autrice del libro L’ossessione delle Brigate rosse (1968-1974). La parabola della “propaganda armata” edito da Gammarò: qual è il significato dell’ossessione cui Lei accenna?
La parola “ossessione” è quella che attira in primis l’attenzione su questo libro, sull’avventurismo del fenomeno Brigate Rosse nel periodo cosiddetto della propaganda armata. Il terreno era preparato da tempo perché le notizie sulla direttiva e sulle imprese dei dissidenti, per altro sempre frenate dalla comunicazione del Partito Comunista, arrivavano comunque all’opinione pubblica. Dalle università, a cominciare da quella di Trento, l’enfatizzazione della protesta – da sottolineare, al principio emancipatrice e non repressiva – si infiltrava nel quotidiano, sicché si cominciò a pensare alla possibilità di una società alternativa. I telegiornali, spesso in apertura, facevano i nomi di Renato Curcio, di Mario Rostagno (poi vittima di se stesso) – e io, che potevo ricevere notizie quotidiane da un personaggio dell’Arma, poi appartenente al selezionato gruppo antiterrorismo di Torino – cominciai a raccogliere le tessere del mosaico che compongono questo libro: insomma le BR divennero la mia ossessione. Ancorché votata all’antropologia biografica, coltivo per altro verso l’attitudine a vivere nel mio tempo, “adattandomi” al tempo, cosa che rende la cronaca interessante quanto la letteratura e la poesia.
In quale contesto politico e sociale nascono le Brigate Rosse? Le Brigate Rosse vengono da lontano rispetto alle presunte date della loro formazione effettiva e del generico collegamento fra studenti e masse operaie. Dal 1961 in poi è un fiorire di riviste e quaderni rossi che, più o meno onestamente, denunciavano lo scricchiolare di una società talmente adagiata nel benessere del dopoguerra da passare alla storia come la società d’oro del secolo XX°. Sono i favolosi Anni Sessanta del boom economico, della beat generation, della musica pop, dell’Apollo 11 che tocca il suolo lunare, dell’incontro fra Rada Krusciov e Papa Roncalli e, non è poca cosa, del primo governo italiano di centro-sinistra. Ma è anche il tempo del colossale sciopero dei minatori francesi (1964) che scuote l’Europa, e nel 1968 il faticoso e non riuscito tentativo di ricucitura di Pompidou fra la coalizione di studenti e l’imprenditoria, negoziato dai sindacati. Io sono una scrittrice – non una storica. E forse per questo mi è sempre stato chiaro il polverone causato dall’incrocio fra il positivo e il negativo sociale (almeno come ognuno li intende), e che i giovani rappresentano un punto di incisione nella storia. Rimproverano ai maestri l’agiatezza sociale, il credo spirituale, il modo di condurre i rapporti fra le categorie ( dai cancelli delle miniere francesi uscì il grido, poi dovunque dilagatosi: “Cours camarade, le vieux mond est dernière toi.”), anelano a nuovi statuti. Giovani e lavoratori – con punti di riferimento talora diversi, nell’assurdo di voler applicare a tutti i precetti dogmatici di Lenin, di Mao o di Che Guevara con la sua guerriglia contro l’imperialismo. La cosiddetta repressione padronale in fabbrica è altra cosa (se ne ha una testimonianza nel presente volume), ed è la figlia del cumulo di volantini, manifesti, istigazioni, piccole rappresaglie relative all’odio sociale e alla confusione cui alludevo prima: almeno fino al momento in cui Renato Curcio e Margherita Cagol, resuscitando le ceneri di un bollettino del Centro Informazioni di Verona, diedero vita alla rivista “Lavoro Politico”. Si tratta di un periodico mensile a carattere monografico, giocato sul dialogo fra cattolici e comunisti, nonché – ecco ciò che ritengo come il il punto nodale – sul tema della scuola e del linguaggio. La repressione e la rivolta, al di là di un giudizio politico di parte, generano sempre un modo nuovo di esprimersi: direi anzi che la rottura del linguaggio è l’anticipazione dell’urto sociale che sta per compiersi. Lo dimostra, nel nostro caso, la nascita del Gruppo 63 che giusto in quell’anno, opponendosi con il convegno di Palermo a una cifra stilistica considerata logora, inquietò i massimi sistemi della letteratura. Sostenuto dall’editore Feltrinelli, che in questa cultura del dissenso linguistico vide profilarsi una neoavanguardia proiettata in area ideologica, il Gruppo 63 può essere considerato una delle sorgenti della contestazione politica. L’avventura del movimento affondò nel travaglio e nell’equivoco. L’editore Feltrinelli, frustrato dall’insuccesso, ci rimise un bel po’ di soldi; ma il suo retorico orgoglio non abbandonò la sfida che si allungava fuori dai confini espressivi, intenti alla scoperta di un nuovo modo di comunicare.
Nel libro Lei evidenzia come le BR fossero finanziate da Giangiacomo Feltrinelli; d’altra parte, argomenta, «chi ha finanziato le BR nei loro primi diciotto mesi di vita se la serie delle grandi rapine commesse da Curcio e compagni, sebbene non rivendicate, comincia il 20 maggio del 1972 con l’assalto a un istituto di credito presso Reggio Emilia, quarantaquattro giorni dopo» la morte dell’editore sotto il traliccio di Segrate: quale collegamento esisteva tra Feltrinelli e l’attività delle BR? Sì, c’è un profondo dissidio fra il concetto destabilizzante dello stato di Feltrinelli e lo sviluppo non solo culturale della lotta armata. Senza dubbio egli provvide, non sapremo mai in quanta parte, ai bisogni dei brigatisti. A loro sembrava un po’ tirchio se lo sollecitavano, come abbiamo letto, a dare di più. Feltrinelli, del resto, aveva reso esangue la sua casa editrice con l’avventura del Gruppo 63 – autori invenduti, in gran parte immaginati come arma per colpire il nemico. Dopo la sua morte, nella confusione suscitata dall’evento, i brigatisti temettero forse di perdere la faccia, insieme al foraggiamento: non a caso c’è, poco dopo, l’assalto all’istituto di credito di Reggio Emilia. Ma c’è anche il loro secondo documento teorico che evidenzia le linee della guerra di classe. L’infantilismo è dichiarato come deleterio, sebbene in certe azioni il timbro tupamaros non riesca a scomparire. Il Sessantotto prima del Sessantotto e il Sessantotto di Feltrinelli verranno decisamente e tristemente superati con il lungo sequestro di Mario Sossi.
Quali misteri avvolgono la morte di Giangiacomo Feltrinelli? Ci sono misteri destinati a restare tali perché di ordine personale, psicologico. Il ricco e blasonato Feltrinelli che si sporca le mani e il viso di fuliggine, resta giorni e giorni senza lavarsi e veste tute strappate per somigliare agli operai, suscita non pochi sospetti sulla stabilità della sua mente. Lui – che in gioventù esibiva grande adesione al fascismo, tanto da tappezzare la propria casa con manifesti inneggianti al Duce nonchè alla vittoria delle forze dell’Asse – e di colpo cambiò direzione, fulminato sulla via di Damasco da una conversazione con Trombadori. Lasciato agli analisti il problema, in mano ci resta ben poco. La sua autobiografia è colma di nomi, sappiamo dei suoi viaggi e dei suoi incontri con Guevara, Castro, Régis Débray, un giornalista francese che aveva preso parte alle azioni di guerriglia del Che, dell’estrema follia di trasformare la Sardegna in una Cuba nostrana – ma il bandito Mesina, interpellato per la faccenda, non gli dà retta e si rifiuta di collaborare al progetto… Lui ci resta male…E allora? All’impresa di Segrate, Feltrinelli fu spinto probabilmente dal desiderio di dimostrare che era qualcuno: gli andò male e ci lasciò la pelle.
Sempre nel libro, Lei scrive: «nelle azioni delinquenziali delle BR c’è una certa razionalità culturale che ha come termine di riferimento il pensiero, cioè l’ideologia, Feltrinelli ha incarnato nella storia del terrorismo il regresso irrazionale, l’infantilismo e una forma di violenza che finisce per rafforzare i cardini dello sfruttamento capitalistico»: quali conseguenze produsse la morte di Feltrinelli? Nessuna conseguenza rilevante, io credo, tranne una diminuzione del foraggiamento. Fu anche, sotto il profilo politico, una liberazione. I messaggi delle BR, già da un anno dopo la formazione dei primi nuclei,. non possono essere letti dentro le loro singole azioni. Il concetto fochista è superato dalla ratio – altrimenti la lotta armata si rovescia in spunti singoli, dove si pensa che basti mordere: la riflessione teorico-politica delle BR è contraria a chi agisce autonomamente e non per conto dell’organizzazione.
Quali azioni di lotta armata adottarono le BR e quale evoluzione ne caratterizzò la strategia? La lotta armata delle BR inizia con l’inondazione del Nord-Italia di volantini, manifesti, materiale propagandistico vario, e slogan trasmessi fuori dalle fabbriche. Nascono poi, in serie, i comunicati. Non sarò certo io a sottolineare che le prime azioni delle BR erano talmente poco credibili che solo i giornali di destra ne davano notizia. Diventarono assai più pesanti col tempo, quando l’idea del diritto proletario attecchì nella società. Al di là del folklore iniziale, le BR rivelarono una strategia – pescata un po’ sui libri o ricopiata dalle mozioni dei paesi sudamericani. Se n’è parlato in abbondanza.
Curzia Ferrari, scrittrice, giornalista d’opinione, studiosa di letteratura dell’Est. Tra i suoi libri più importanti: Gorkij fra la critica e il dogma, Isadora, Majakovskij, la storia e il romanzo, Memorie del processo Slanskij, traduttrice dei poemi di Viktòr Sosnòra e di molti altri poeti dell’Urss. Autrice di sceneggiati Tv, del programma “Poesia nel mondo” e di altri programmi letterari. Quattro volte Premio della “Presidenza del Consiglio”, medaglia d’oro di benemerenza civica di Milano, dove è nata, premio “Caterina Imperatrice” per la diffusione della cultura russa in Italia e altre onorificenze. È tradotta in tredici paesi.
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