A Massimo Carloni (in foto) ho rivolto alcune domande.
Quale principale finalità ti sei posto nello scrivere “Dalle parole allo schermo”?
Si tratta della tesi di laurea in Storia e critica delle arti e dello spettacolo. Massimo Felisatti è un autore che conoscevo dai tempi della mia prima laurea in Lettere sul romanzo giallo italiano contemporaneo; dopo aver contattato i suoi eredi (la vedova e il figlio), ho ottenuto di poter visionare alcune sceneggiature per la tv inedite. Da qui l'idea di analizzare il passaggio dal cinema alla pagina scritta alla sceneggiatura inedita per tv di un testo in particolare. Naturalmente ho ricostruito, sullo sfondo, l'ambiente letterario, cinematografico e televisivo del poliziesco in Italia degli anni Settanta.
Una tua definizione della differenza fra giallo e noir…
Premesso che molti in Italia usano i due termini indifferentemente, come sostanziali sinonimi, direi che il giallo si concentra principalmente sul meccanismo dell'indagine e sulla scoperta del responsabile di uno o più delitti; il noir invece vede il singolo eroe/antieroe alle prese con vicende più o meno angoscianti, più o meno criminali, di cui può essere vittima o responsabile, che suscitano identificazione nel lettore/spettatore.
Sia l’editoria italiana della carta stampata sia quella televisiva della Rai al principio si sono modellate su quei generi così come prodotti negli States. Fu un errore? Se sì oppure no, perché?
All'inizio è chiaro che si prenda come modello l'esperienza artistica più riuscita; l'importante è non rimanerne schiacciato per anni e anni, a causa di un malinteso senso d'inferiorità o addirittura solo per pigrizia. Direi che in Italia la tv, dal tenente Sheridan in poi, il cinema, col poliziottesco, e la letteratura, da Sciascia e Scerbanenco in poi, sono riusciti nel liberarsi dall'ingombrante eredità USA. Basti vedere il successo planetario di serie come Gomorra.
I vecchi, gloriosi, gialli della tv italiana ancora in b/n e le serie di oggi in che cosa essenzialmente differiscono?
Nel ritmo, infinitamente più lento allora; nella recitazione, infinitamente superiore allora; nello sviluppo seriale, infinitamente più articolato oggi.
Con le serie tv americane e canadesi nasce la figura dello showrunner. Perché in una serie supera per importanza quella del regista?
Perché è lui il vero creatore del programma di successo; il regista retrocede al ruolo tipicamente anglosassone di "director" tanto che spesso lo diventa uno dei principali attori della serie senza che si noti il cambio di passo.
Nel libro è dedicato largo spazio ai ferraresi Massimo Felisatti (1939 – 2016) e Fabio Pittorru (1928 – 1995). Perché ritieni di rilievo i profili di questi due autori?
Per il fatto che in largo anticipo rispetto ai tempi, soprattutto in Italia, si muovono con disinvoltura in un universo transmediale in cui lo stesso prodotto può indifferentemente transitare su un medium o l'altro, naturalmente con gli aggiustamenti del caso dovuti al target di riferimento.
Nel tuo curriculum si legge che hai scritto “Il caso Degortes” con Antonio Perria esclusivamente via mail. Puoi qui chiarire come in pratica avete proceduto?
Abbiamo concordato, sempre via mail, la scaletta e la distribuzione in capitoli della vicenda. Ciascuno ha steso i capitoli di sua responsabilità (di solito i dispari Perria, i pari io; i primi ambientati in Sardegna, i secondi a Reggio Emilia o in Umbria) e li ha spediti al collega che li ha letti e che ha consigliato eventualmente gli aggiustamenti per evitare contraddizioni narrative. Alla fine, sono stati assemblati ma NON è stato effettuata un'armonizzazione stilistica, aiutati dal fatto che le diverse location con i rispettivi personaggi permettevano questa scelta.
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