«Gli occhi di Lavinia» di Gianclaudio de Angelini

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15/11/2021, ore 05:54

Lavinia, la pura, succede a Creusa quale sposa di Enea (già padre di Ascanio/Julo). Un breve testo in esergo al libro di Gianclaudio de Angelini ci direziona o meglio ci prende per mano nell’approcciare la lettura dei suoi scritti e ci svela fin da subito la scelta del titolo di questa raccolta che non può essere definita solo poetica.

I testi, brevissime poesie impressionistiche, haiku e rapidi cenni saggistici, sono stati raccolti ed editati per i tipi di Oltre Edizioni per volontà di Diego Zandel, autore anche della prefazione, che con l’autore condivide la nascita da una famiglia di profughi dell’esodo giuliano dalmata.

De Angelini, classe 1950, giunse a Roma con la famiglia nel 1956 in quell’ex-villaggio operaio che venne appunto destinato dalle autorità italiane ad essere riparo per i profughi in arrivo da Fiume, l’Istria e la Dalmazia. In seguito l’autore si è dedicato all’associazionismo ed in particolare ha collaborato con la Società di Studi Fiumani. Le sue poesie, in italiano ed istrioto (il dialetto istroveneto parlato soprattutto a Rovigno e Dignano) sono apparse a lungo sui social fino a che lo Zandel non le ha collettate affinché venissero pubblicate.

Il mare

Il libro è suddiviso in tre sezioni – oltre alla preziosa prefazione che ci aiuta a contestualizzare la germinazione dei testi – Gli occhi di Lavinia (143 microtesti, spesso distici sciolti e terzine); Haiku e dintorni (versicoli e haiku dedicati, tra gli altri, a Zara e Rovigno) e l’Appendice che comprende dei brevi cenni sull’istrioto di Rovigno, una selezione di testi già pubblicati o comunque non racchiusi nelle sezioni precedenti e una selezione di poesie in versione italiana e dialettale. Gli occhi di Lavinia si chiude con la traduzione in istrioto dell’Infinito di Leopardi.

Negli Occhi di Lavinia c’è il mare, un mare grigio argenteo, mai fermo. Il buio e la luce si rincorrono nelle brevi liriche iniziali e si sprofonda, si perde la riva, si sogna, si svanisce, si diventa ombra e poi accade il sole. Sì, perché il piano è subito onirico e gli accenni naturalistici sono segnali, strumenti e accadimenti che trascendono il limite umano.

Le donne-sirene cantano e stordiscono, c’è il miele negli occhi, la vita che quando un po’ pensi di averla compresa è notte. C’è anche la noia, la malinconia, lo sfaldarsi fino al vedersi decomposti, fuori da sé, sempre divisi da qualcosa, essere altro. L’autore mormora, senza sosta quasi in preda ad una febbre, sgrana il rosario di immagini che lo occupano, prendono il suo spazio e lo straziano.

Le pennellate ironiche e la disillusione smorzano l’enfasi e donano eleganza come ne Il melograno (141):

Inaridito dal duro inverno
e dalla nostra incuria,
muti rimproveri lancia
lo spoglio melograno

Haiku

A seguire, una corposa raccolta di Haiku (preceduta da una breve nota dell’autore). Colpiscono e feriscono, tra gli altri, i testi dedicati a Rovigno e Zara:

XII
Tra ossa insepolte
Limpide acque carsiche
Scorrono fredde.

II
Cielo stellato
Profumi di Dalmazia
Echi straziati.

Lo strappo, la breccia, i calcinacci, l’urlo ingoiato dal mare, la guerra che non smette di mugghiare nei secoli: il poeta è maledetto e benedetto, costretto a non dimenticare.

Non è un caso però, credo, che questo peculiare libro termini proprio con il sale che se non cura del tutto le ferite almeno le lenisce, il sale-lingua. I brevi cenni ci guidano attraverso le origini dell’istrioto, gli studi compiuti e le opere scritte in questo idioma. Molto interessanti anche i cenni alle caratteristiche fonetiche che aiutano la lettura dei testi a seguire (sempre supportati in ogni caso dalla versione italiana).

Il navigante è tornato a casa anche se sa che casa non è più, il mare adesso si è fatto d’oro e tramonto. C’è comunque il dolore, la rabbia ma si stempera anche con un poco di cinismo (“Echi da una terra perduta”: 2. Sopra ricordi belli e brutti/una mano di pittura.)

L’amore per la propria terra traspare nella ricerca linguistica, de Angelini è stato portato a nuova vita ma ha inevitabilmente interiorizzato l’esodo, lo ha vissuto nell’essere stato cresciuto in un contesto, quello del Villaggio Giuliano (ora quartiere Giuliano Dalmata di Roma), che trovava nel ricordo, nel parlato natio, una fonte di resistenza.

L’autore, Consigliere della Società di Studi Fiumani e Vice Presidente dell’Associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio, ha scelto, credo, di essere custode senza troppe lacrime consapevole che, anche se le voci sono diverse, le finestre sulle quali sbattono le lenzuola al vento di aprile sono sempre le stesse (cit. “1° aprile 2020”).

A chiusa del libro, l’Infinito in istrioto: il colle diventa sulegno ma il mare e il naufragio non mutano.


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