Terminato nel 2017 il suo mandato di ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia, Damir Grubiša, politologo di fama, ha scritto un diario sulla sua esperienza. È uscito così “Diario diplomatico-un fiumano a Roma” (è nato a Fiume, di madre italiana e padre croato), edito dalla casa editrice Gammarò con un titolo e sottotitolo ispirati al suo predecessore, l’istriano Drago Kraljević, ambasciatore a Roma dal 2000 al 2005, ma con un taglio, tuttavia, molto diverso: più riservato quello di Kraljević rispetto al suo, che trabocca di indiscrezioni, che non esiterei a definire coraggiose e tutt’altro che diplomatiche.
A cosa si deve questa sua scelta, ambasciatore?
La differenza tra me e Kraljević è che lui è stato nominato ambasciatore in un clima di ottimismo e euforia per la vittoria, nelle elezioni del 2000, del centro-sinistra non-nazionalista sull’HDZ, il partito nazionalista che, con il presidente Tuđman, scomparso poco prima delle elezioni, aveva detenuto il potere per un decennio. Ricordo che HDZ, in croato, vorrebbe dire: Comunità democratica croata, ma non è affatto una “comunità” bensì un partito vecchio stampo, e più che democratica direi autocratica, però, in compenso, molto croata! Detto questo, l’approccio di Kraljević era di iniziale aspettativa di quelle riforme democratiche che, purtroppo, il governo del socialdemocratico Ivica Račan non ha portato a termine. Sta di fatto che dopo un breve intervallo di tre anni le cose sono ritornate come prima, con i nazionalisti di nuovo al governo, seppure in una nuova veste “europeista” come aveva voluto presentarsi il nuovo leader dell’HDZ, Ivo Sanader, che poi, come sappiamo, finì in carcere per corruzione, abuso di potere e appropriamento illecito.
Venendo a me, anch’io sono stato nominato da un governo di centro-sinistra e, in più, dal presidente Ivo Josipović, un professore di diritto internazionale privato e compositore di fama mondiale, ma, a differenza di Kraljević, io mi sono imbattuto nel corso del mio mandato in una ricaduta del paese nelle mani dei nazionalisti di destra e in un apparato di stato ereditato dal periodo degli anni Novanta, reclutato con metodi clientelari e ideologici. Basti pensare che il personale del ministero degli Esteri era stato reclutato senza concorsi pubblici, ce n’era stato uno soltanto, ed era sufficiente non sapere, ad esempio, cosa fosse la scritta I.N.R.I. per essere subito bocciato. Il mio ottimismo - di tipo gramsciano, cioè pessimista per intelletto e ottimista per la volontà - era fondato sul fatto che la Croazia era entrata nell’Unione europea nel 2013, proprio quando mi trovavo a Roma. Ecco, invece di scrivere questo “Diario diplomatico” avrei potuto analizzare tutte le disfunzioni del sistema politico croato nella forma di un saggio politologico, ma non credo che avrebbe destato troppo interesse, anche in considerazione del fatto che, di questo tipo di pubblicazioni, già ne esistono altre scritte da altri miei colleghi. Ho preferito così portare una testimonianza personale con la quale spero di raggiungere più lettori, affidandomi al racconto di episodi spesso bizzarri e grotteschi che, da soli, aiutino il lettore a trarre le proprie conclusioni!
Le indiscrezioni, come già in parte rivela la sua risposta, riguardano un po’ tutta la classe politica croata, ministero, diplomatici, presidenza della repubblica, con nomi e cognomi… È come se si fosse voluto togliere un po’ di sassolini dalle scarpe. Teme reazioni?
Veramente, io ho voluto solo far vedere ai miei lettori che i retroscena di una società di transizione, come quella croata, si differenziano molto da quel che appare, dalla scenografia mostrata davanti ai riflettori. Però, io non traggo conclusioni, tento solamente di raccontare quello che è accaduto e come, al riguardo, si sono comportati i cosiddetti “protagonisti”. Sono un politologo, e ho avuto il privilegio di studiare scienze politiche a Zagabria, in un tempo – la seconda metà degli anni Sessanta – in cui la Jugoslavia sembrava essersi avviata a importanti riforme, che però si sono materializzate solo alla fine degli anni Ottanta, con il governo del riformista Ante Marković, cioè ormai troppo tardi. Il virus del nazionalismo aveva già contagiato tutto il paese, compreso le leadership post-titine, che avevano usato e strumentalizzato il nazionalismo per i loro fini politici, ovvero di rimanere al potere e di trasformare la proprietà sociale e statale in proprietà privata.
Lo studio delle scienze politiche, ai miei tempi, era un nuovo indirizzo accademico, modellato sugli esempi della “sciences po” francese e della filosofia critica della scuola di Francoforte, intrisa di una corrente marxista attorno alla rivista “Praxis”, molto critica dello stalinismo e del dogmatismo che impediva alla società jugoslava di modernizzarsi e avviare le riforme del mercato e della sfera politica. Questa “politologia critica” sulla quale mi sono formato richiede in primo luogo la critica sistematica della politica, delle istituzioni politiche e del hubris dei professionisti della politica, per poter poi accedere alla “ingegneria istituzionale”, come del resto affermava Giovanni Sartori, uno dei miei maestri che ho seguito durante i suoi corsi alla Columbia University di New York. E perciò, fin dai miei primi passi ho sviluppato questo criterio critico verso le istituzioni e la classe politica, e se sono stato reclutato per posti “importanti”, come lei li definisce, è sempre stato in base alla mia analisi critica della politica, del resto pubblicata su riviste, volumi e libri, ed espressa apertamente in pubblico.
Ci sono anche molti riferimenti alla politica italiana, e a certe situazioni che hanno dell’incredibile come le parti riguardanti, ad esempio, i consoli onorari che riportano ai romanzi di un Graham Greene. E parliamo di cariche che nell’immaginario collettivo risultano di alto profilo rappresentativo, mentre nelle sue pagine appaiono delle vere e proprie macchiette...
Quando ho cominciato a lavorare nel servizio diplomatico non ho potuto non vedere la criticità di questa professione, i punti neri che non appaiono abbastanza sulla superficie. E' da anni che mi preparo a scrivere un testo sullo “splendore e miseria della diplomazia”, come Balzac intitolò il suo romanzo sulle cortigiane. Lo avevo capito già a New York, dove ho passato degli anni importanti per me, e dove avevo intravisto quelli che sono i punti deboli di questa professione, con l’abuso che ne fanno certuni per assicurarsi dei beni materiali, o prestigio e fama, oppure una carriera lucrativa nelle istituzioni internazionali che pullulano di gente capitata lì solo per assicurarsi un’esistenza privilegiata, e non per servire il “bene comune”.
L’esempio dei consoli onorari svela uno degli anacronismi di questa professione. Tempo fa, nel secolo scorso, i consoli onorari avevano un ruolo preciso e utile nel quadro della specializzazione consolare. Ora, nell’era della diplomazia digitale sono superati come categoria, e purtroppo offrono degli spunti per la caricaturizzazione dell’intera categoria, come si evince dagli esempi, alcuni davvero grotteschi, citati nel mio libro.
Dal suo Diario emerge anche una critica a una sorta di "stato profondo" che, al di là della volontà popolare espressa con le regolari elezioni, condiziona o, comunque, influisce sul funzionamento delle istituzioni stesse, con una politica in cui contano molto gli amici e gli amici degli amici. Chiedo al politologo: come fare per rompere questo circolo vizioso che, se non impedisce, rallenta il cammino delle riforme?
Questo è un problema centrale della politica, specialmente della democrazia. Al potere formale dell’autorità politica si contrappone il potere informale, costituito da reti clientelari, da gruppi di interesse e di pressione che tendono a esercitare un’influenza sul potere e di sviarne le decisioni verso obiettivi che permettono a loro, al potere informale, di controllare le risorse e la loro distribuzione. Dunque, si tratta della prevalenza del “bene parziale” o bene privato sul “bene comune”. I gruppi che conquistano il potere attraverso le elezioni e che guardano al proprio interesse prima dell’interesse dei loro elettori, tendono a collegarsi con i detentori del potere economico, e cosi creano un connubio plutocratico, cioè un sistema politico dello "stato profondo" in cui questi intrecci di interesse decidono del destino di tutta la società, naturalmente accaparrandosi le risorse e cosi contribuendo al divario tra ricchi e poveri. Questo è ancor più reso possibile dalla manipolazione della tecnologia informatica, per cui la critica e il dissenso vengono marginalizzati e qualsiasi fonte di resistenza viene sbriciolata. Nell’Europa dell’est questo processo è ancora più visibile nella natura oligarchica delle società, per cui a trionfare è il concetto di “democrazia illiberale” e del pensiero unico, molto simile al sistema comunista, ma adesso con una nuova legittimazione, quella del pluralismo formale e delle elezioni che in molti casi sono le elezioni di una minoranza da parte di un’altra minoranza, perché non c’è l’obbligo di voto e l’astensionismo è ormai un dato di fatto in tutte le società contemporanee.
Confesso che, mentre leggevo il suo Diario, trovavo nella critica alla classe dirigente croata molta somiglianza con quella che in tanti esprimiamo nei confronti di quella italiana, anch’essa troppo autoreferenziale e permeata a mio avviso da troppi interessi di parte e consorterie che ne minano, non a caso, la fiducia. Eppure, lei mostra non di rado ammirazione o, per lo meno, una tolleranza a mio avviso immeritata. È così o c’è anche molta… diplomazia?
No, non si tratta affatto di diplomazia! Si tratta della sindrome comparatista, che molte volte colpisce quelli che si occupano di politica comparata. Dunque, paragonando le due società, quella croata e quella italiana, trovo che la democrazia in Italia funzioni, nonostante tutto, meglio della democrazia croata. Ha una tradizione storica più lunga, c’è una vivacità politica pluralista, un'opinione pubblica vibrante, e nonostante delle ricadute è una “democrazia stabile” e consolidata, mentre la democrazia croata e ancora una “democrazia non consolidata”, come la definisce l’organizzazione internazionale non-governativa Freedom House. Anche se le patologie politiche delle quali parlavo prima affliggono pure la società italiana, basta vedere le stime della corruzione in Italia e Croazia, fatte regolarmente da Transparency International, un’altra autorevole ONG. E poi, bisogna guardare anche il contesto storico. Il repubblicanesimo civile, antenato della democrazia, è sorto proprio sul terreno italiano, nel tardo Medioevo e nel Rinascimento. La democrazia è sempre in bilico, e può sempre essere minacciata dalle tendenze autoritarie, e qui è importante l’organizzazione della società civile e dei cittadini stessi che devono controllare la sfera politica, non bastano le elezioni e il pluralismo parlamentare. Per finire, nel 2007 avevo pubblicato un libro che era la critica politologica del sistema politico italiano, ed era intitolata: Berlusconismo. Dossier politico italiano, mentre nelle riviste accademiche ho pubblicato una serie di articoli: dal ruolo di presidente della Repubblica nel sistema politico italiano, fino all’analisi della corruzione endemica in Italia.
A proposito di medioevo e Rinascimento, lei è noto anche per essere un grande studioso di Niccolò Machiavelli, del quale ha tradotto e commentato in croato le principali opere. Discende da questi studi il suo interesse per la politica per cui si è trovato fin dai tempi della Jugoslavia coinvolto in ruoli tutt’altro che secondari come, per ricordarne alcuni, capo di gabinetto del ministro degli Esteri jugoslavo poi croato, direttore del Centro di cultura e informazione jugoslavo a New York, e altri incarichi. Nella pratica cosa ha portato di… machiavellico?
Machiavelli è il padre della politica moderna, ci ha insegnato a discernere l’apparenza dalla sostanza, dalla “verità effettuale della cosa”, che sarebbe la politica. Ci ha insegnato che il “vivere politico” può essere solo il “vivere civile” e “vivere libero”, e che i cittadini, e non i sudditi, sono coloro che, tutti insieme, decidono la sorte della loro comunità politica. Non può pertanto esserci una democrazia rappresentativa senza una democrazia diretta, alla quale devono prendere parte tutti cittadini. Se non sei cittadino, non sei uomo, come diceva Remigio de’ Girolami, un fiorentino per certi aspetti precursore del Machiavelli quando teorizza il “bene comune”. Il mio interesse per la politica si è sviluppato proprio dalla lettura del Machiavelli, le cui opere avevo trovato nella biblioteca di mio nonno, e quando il mio professore di storia delle dottrine politiche scoprì che io leggevo l’italiano, mi fece approfondire gli “studi machiavelliani”. Ma io mi ero iscritto alla Facoltà di scienze politiche per diventare giornalista, una mia passione mai realizzata, solo che poi, sotto l’influenza di Machiavelli, che era un perfetto “civil servant”, un esempio di integrità di funzionario dell’amministrazione pubblica, mi son trovato a percorrere i suoi stessi passi. Anche Machiavelli, d’altronde, come me, non ha mai ambìto a “fare la politica”. Tutti i miei incarichi sono partiti dal fatto che io fossi un politologo, un esperto di politica, ma ho sempre rifiutato ogni ruolo da protagonista politico. Volevo essere soltanto uno che analizza la politica, i politici e le loro patologie, per poter far funzionare meglio la politica al solo interesse dei membri della società: i cittadini.
Nel suo diario racconta anche il suo passato di profugo fiumano, finito in uno dei 109 campi profughi istituiti dall’allora governo per accogliere i giuliano-dalmati che fuggivano dalle loro terre annesse alla Jugoslavia. Questa esperienza è sicuramente alla base del suo impegno nel duro e contrastato riconoscimento degli esuli che, sia la Jugoslavia prima e la Croazia poi, si ostinavano a definire, ufficialmente quanto ipocritamente, optanti. Lo stesso vale per il suo impegno affinché l’ambasciatore croato partecipi al Quirinale alla celebrazione del Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Alla fine ci è riuscito. Cosa ha suscitato tutto questo, non solo sul piano politico ma anche personale in lei?
La mia esperienza di esule, per quanto breve, è stata molto importante. Come, del resto, anche le vicissitudini della mia famiglia italiana, vittima di persecuzione da parte dei comunisti jugoslavi nell’immediato dopoguerra, così come le sventure della mia famiglia croata, vittima di persecuzioni fasciste e successivamente, anche jugoslave almeno finché la situazione nella Jugoslavia comunista, non si è più o meno normalizzata. Per questo motivo ho voluto che la mia patria croata riconoscesse i torti e rendesse onore alle vittime italiane delle persecuzioni nell’immediato dopoguerra e anche dopo, durante l’esodo. Finché la situazione non si è alquanto normalizzata, anche se le ferite sono rimaste. Questo percorso si è infine compiuto nel 2013, durante la visita di stato del presidente croato Josipović al presidente Napolitano. In quella occasione il presidente Josipović ha espresso il suo rammarico per le ingiustizie subite dagli italiani dal regime comunista, cosi come il presidente italiano Napolitano ha espresso il suo rincrescimento per le angherie subite dai croati durante il periodo della dittatura fascista. Un percorso importante per la riappacificazione dei due popoli, e sono lieto di aver potuto dare il mio, seppur modesto, contributo a questo processo.
Pensa di fare un’edizione croata del suo Diario diplomatico? Credo che, nel caso, le reazioni non sarebbero poche, e forse non soltanto delle cancellerie più direttamente interessate. Cosa ne pensa?
Certo che ci ho pensato, però non vorrei mettere in una situazione imbarazzante un mio potenziale editore croato. Gli editori croati dipendono molto dal ministero della Cultura perché libri di questo tipo, saggistica e memorialistica, per poter essere stampati devono ricevere dei sussidi di stato. E prevedo che i politici che oggigiorno detengono il potere in Croazia potrebbero non essere molto entusiasti di quanto io ho scritto. Questa è purtroppo l’atmosfera oggigiorno in Croazia: quello del premier Andrej Plenković è un regime nazionalista che sviluppa il pensiero unico attraverso l’ipertrofia del patriottismo croato, non ha ancora fatto i conti con il fascismo croato, con gli ustascia della Seconda guerra mondiale (e per ciò sono sotto critica della comunità israelitica della Croazia). Il presidente della Repubblica Zoran Milanović, sebbene di provenienza socialdemocratica, conduce una strana politica populista e sta civettando con il nazionalismo, così che, nonostante tutti si dichiarino europeisti, restano prigionieri di schemi di pensiero e di comportamento anacronistici. Per fortuna, c’è un'altra atmosfera a Fiume e in Istria: qui, adesso, esiste un pluralismo “effettuale”, con l'eccezione anche della città di Zagabria dove al potere c’è una variante croata di “Podemos”, che si chiama proprio cosi in croato, gente di una nuova generazione. Speriamo siano il futuro della Croazia.
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