Nella sua vita da cineasta, ma anche da romanziere e letterato, Pier Paolo Pasolini ha dovuto difendersi per 33 volte in tribunale da accuse di ogni tipo, dalla censura all’oscenità. Il suo obiettivo, in senso fisico e metafisico, punta ciò che è scabroso, le ingiustizie sociali di fronte al disinteresse della società borghese, lo mette a fuoco e lo denuncia alla morale bigotta del Paese. Il risultato è che, per l’opinione pubblica, scabroso diventa lui con le sue macchinazioni. Per molti versi Pasolini non è solo eretico, ma è profetico: Accattone, Mamma Roma, Ragazzi di vita sono denunce di un percorso di a-culturazione, come lo definisce lui stesso in un’intervista filmata sulla spiaggia di Sabaudia nel 1974, che sta abbrutendo la società, sconfitta dalle logiche consumistiche e quindi privata di ogni senso etico e morale. Parole di 50 anni fa, parole ancora valide. Pasolini, l’eretico, è chiamato a rispondere in tribunale, potendo confidare spesso della testimonianza favorevole di intellettuali ben più ortodossi, come Luigi Russo, Giuseppe Ungaretti, Gianfranco Contini. Anche chi lo critica, come Emilio Cecchi, non entra nel merito del senso delle opere di Pasolini, resta sul senso e sulla portata poetica. Tutti, sicuramente molti, riconoscono l’opera di scavo nella cultura italiana, scavo sociale e linguistico, scavo semantico, scavo e denuncia. Questo suo spirito al limite, questa militanza che lo porta a scoprire verità nascoste prima di tutti anticipando i tempi, ne fanno un bersaglio della morale pubblica: i suoi film sono spesso interrotti o sospesi, sono bersaglio di critiche di carta, ma anche di fischi e lanci di verdura in sala. Pasolini è un personaggio scomodo, talvolta irritante per la naturalezza con la quale sbandiera le verità che altri cercano di nascondere. Non a caso muore mentre lavora ad un romanzo- progetto, Petrolio, che anticipa lo scandalo di Licio Gelli e della Loggia P2, con al centro disvelamenti delle corruzioni di Stato, delle interferenze fra politica e mercato, da cui altro abbrutimento sociale e umano. In un certo senso firma la sua condanna a morte. “Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi” (“Corriere della Sera”, 14 novembre 1974)...
Un saggio breve accompagnato da una ricca filmografia e da una bibliografia essenziale: così si presenta il libretto di Francesco Cenetiempo, agile nella lettura, per quanto denso nei contenuti. Cenetiempo ricostruisce con minuziosa dovizia di particolari la parabola poetica di Pier Paolo Pasolini, recuperando a mo’ di glossa le stese parole dell’intellettuale di Casarsa, per sottolineare il profondo intreccio fra l’attività poetica, letteraria e quella cinematografica. Tutto appartiene ad un unico filo conduttore, controverso ed ‘eretico’, che consiste nel rappresentare la realtà con la realtà, che ora si fa parola, ora si fa immagine. Il lungo catalogo di partecipazioni e di collaborazioni testimoniano la continua ricerca di un linguaggio adatto alla rappresentazione delle storie e dei sentimenti, una ricerca verso un linguaggio estremamente concreto, senza filtri, anche se a volte spinto all’estremo. Pasolini ha, per certi versi, pagato per tutti quelli che non amavano esporsi pur pensando le stesse immagini e storie: non a caso saranno coinvolti nei suoi progetti personaggi ed attori, come Attilio Bertolucci, Totò, Eduardo De Filippo, che sembrano tanto estranei, ma che restano invischiati dalla capacità immaginativa di Pasolini. Un bel saggio questo di Cenetiempo, utile, chiaro, serio, documentato. Sottoscrivo le parole di Francesco Ranieri Martinotti, presidente ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), che scrive la prefazione del volumetto, là dove invita a ricordare e studiare opere e personaggi come Pasolini non solo in occasione dei centenari, ma tutti i mesi, tutti i giorni, perché, aggiungo, sono un tassello del patrimonio culturale del nostro Paese, e non solo.
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