Se mi chiedi cos’è l’ora felice ti rispondo le due mani sul pianoforte di quel ragazzo che vive in angolo di Via Livorno. Suona di tutto e mi allieta in questo dormitorio che canta di rado il fruscio. È diplomato in pianoforte non esce da casa e saluta con un cenno. Esce solo per fumare. Dice di avere venticinque anni ma portati male: mangia solo pizza e beve cedrata. Non ha compagnia tranne un amico che viene a casa sua per ascoltare un suo brano. I due tacciono per ore. Ha un gatto molto socievole che si struscia sul mio cane cieco. Si arrampica in ogni dove e si addormenta sotto lo sgabello del piano. Il ragazzo suona la mia ora felice con la sua ora triste questo quartiere non lo sa.
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Incontrare i versi che il modenese Nicola Manicardi pubblica nella raccolta poetica Carne e sangue (Oltre edizioni, 2021) significa immergersi in una rivelazione di chiara impronta neorealista, dove il lungo respiro dei versi, gli impianti sintattici essenziali e i ritmi completamente liberi parlano in modo diretto e non edulcorato del nostro tempo, inglobando nel discorso in modo sincretico ogni necessario riferimento culturale, oggettivo e di linguaggio, fino a sconvolgere la retorica poetica in favore di una “testimonianza” che anche stilisticamente è opposta alla retorica stessa. Una scrittura cruda però ricca di significati nitidamente espressi oppure impliciti; una lingua piana, tagliente, non troppo difficile da interpretare per il lettore a patto però che questi si liberi da ogni eccessiva fascinazione per l’artificio semantico, la scrittura muscolare, la costruzione retorica. La qual cosa tuttavia non è così semplice perché la lingua a cui molta della nostra poesia ci ha assuefatti tende ad avvalersi di tutti quegli elementi in modo più o meno fondante, o strutturalmente basilare. Comunque risultano essere quasi sempre presenti. Larga parte della poesia italiana è infatti per sua natura una qualche espressione della retorica, in senso linguistico e creativo ovviamente, mentre quello di Manicardi è un linguaggio poetico molto più vicino alla sacralità della parola e all’intensità della visione. Partendo da un orizzonte neorealistico, e magari proprio in virtù di questo, l’autore giunge a rappresentare il mondo postindustriale attraverso luoghi, scene, personaggi e storie che vivono ai margini dell’omologazione, del convenzionale, del funzionale al sistema. Ma con una costruzione lessicale in cui tutto si trasforma in racconto e in poesia e il tono espressivo è così straordinario e sottile da sembrare invisibile il confine tra i due codici comunicativi:
Lucio ha sessant’anni e non ha un lavoro fisso ma sorride a tutti. L’ho visto nel parco dietro alla casa gialla erano mesi che non tornava. Lucio è stato l’inizio della mia cura. Erano giorni di pioggia e di rientro dalle vacanze, tra assenza e noia sui visi della gente. Il viale tornava ad essere dimenticanza per me e Lucio fu un nuovo incontro. Il suo sorriso. Aveva lavorato tutta estate come: traslocatore, giardiniere, badante per la vecchia zia e nonno tre giorni alla settimana. Il 28 luglio è stato mezza giornata al mare e racconta di averlo toccato dopo avergli parlato. Io mi sento misero, anzi lo sono. Ho passato tre settimane davanti al mare ho visto albe e tramonti assieme alla famiglia. Non sono riuscito a diventare interlocutore del mare e del cielo delle nuvole e delle piante delle rocce. (…) Io ho avuto tempo il mio occhio è caduto nell’ego Da domani vivrò nella pienezza delle distanze brevi.
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Carne e sangue non è soltanto una raccolta di frammenti, di storie, immagini ed evocazioni. Neppure è un libro usuale, perché effettivamente è davvero “carne e sangue”, non solo carta e inchiostro. Sono come sostanza fisica le immagini, le parole, i colori, i suoni, i brandelli di storie spersi tra le pagine. Non hanno sempre tra loro un filo narrativo, come in tutta la vera poesia non c’è un’unica storia alle spalle se non quella di un “io” reso collettivo. Situazioni inquietanti al limite dell’abrasivo e un passato che ritorna sono forse l’unico fil rouge di un intento comunicativo sostenuto a volte finanche da un sentore di elegia, nel quale si diffonde l’eco di un rimpianto che richiama alla mente qualcosa delle atmosfere contenute nel pasoliniano Pianto della scavatrice:
Oggi toglierò le strade parallele da questo lungo viale. I capillari non hanno linfa ma parvenze dentro al confine di casa dove l’ordine sembra essere l’unico protagonista. Mi chiedo dove siano tutti io che lavoro facendo i turni non incontro nessuno se non brevi apparizioni che neanche un giovane topo sarebbe capace. Resta così questo luogo ai confini: silenzioso e composto vestito di nuovo un cadavere prima dell’ultimo saluto. I vecchi sono i veri dipendenti del giorno sembra che marchino le ore di uscita ognuno seduto al proprio posto come impiegati del parco non raccontano più il passato ma l’abbandono sui loro visi. Sul viale cerco la miniatura non la lunghezza ma la profondità. Il dopo è sotto lo stelo di un fiore l’uomo è altrove.
La sostanza fisica dei luoghi e delle storie si fa spazio nei versi fino a incontrare una sorta di declinazione materica degli stati d’animo, e produce una fusione di natura alchemica tra la memoria e l’introspezione, perché sono quasi sempre gli stati d’animo evocati dal reagente della memoria a svolgere il filo del discorso poetico e a tracciare profili antropologici che Manicardi attribuisce alla condizione postmoderna, partendo da se stesso e dalla memoria di sé:
La ghiaia era il nostro gioco secondario alla palla perduta o la corda che ci tagliava le mani. Il cortile: la spiaggia immaginaria. Non crescevano gigli di mare sotto il cavalcavia ma ciuffi d’erba nati dall’incuria L’olio dei motori era la nota scura nel marciapiede. Ricordo la casa scrostata da intonaco e le dita che entravano come fosse carne viva. Mia nonna alla finestra, abitava al secondo piano. Era lento il nostro salire prima che finisse tutto con “andatevi a lavare”.
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L’alchimia che Manicardi è capace di produrre con la parola poetica a sua volta riesce a generare testimonianza di un vissuto paradossalmente ancora da vivere e questa testimonianza, che si muove appunto tra il paradosso e la parola, si orienta alla decostruzione dei significati dell’esistere. Lo slancio vitalistico, la prospettiva esistenziale prescinde dal senso: si propone e si nega al contempo divenendo traccia oltre di sé, verso il vuoto di un’alterità inesistente:
Cara Martina non c’è più linea d’aria è ora di sforzare gli occhi e toccare ogni singola parola che ci strappa il sonno anche se è il giorno il più scoperto è il giorno che torna giorno e non lo sa.
La vita è ciò che accade adesso, sembrano dire i versi di Carne e sangue, e non c’è salvezza alcuna fuori dal vissuto quotidiano e dal suo carico di esperienze (grandi o piccole, positive o negative) come unico mondo possibile: nessun iperuranio, nessun affidarsi fideistico a un altro da sé. Una immanenza resa in termini semiotici nel verso dal prevalere del gioco assoluto del significante, del racconto neorealista e disincantato. Nessuna concessione a codici comunicativi ermetici o simbolisti, in una versificazione che però d’altro canto non si conforma alla omologazione postmoderna della cancellazione totale del significato, soltanto lo sposta da paradigmi astratti o metafisici del linguaggio verso l’esplorazione dei possibili significati racchiusi in un unico attimo del quotidiano reale, il “qui e ora” di cui giustamente parla Nicola Vacca nella prefazione al volume. La semantica degli enunciati poetici (e delle visioni evocate) fonda su una scrittura quasi prosimetrica, nella quale il ritmo e le sonorità non sono date tanto dalla pulsione lirica che è estremamente sorvegliata quanto dalla sobrietà dei costrutti sintattici e dalla nitidezza dei sintagmi, dalla univocità delle unità dialogiche, dallo slancio della paratassi, insomma dalla morfologia di un racconto limpido e deprivato da soverchi condizionamenti sia emotivi che emozionali. Ed è nella scrittura, sembra dirci Manicardi, che si compie fino in fondo il destino identitario del poeta:
Scrivo per sbagliare fino in fondo per ricordarmi che i dolori alle ossa sono le virgole che non ho saputo finire. Scrivo per tacere gli assilli che mi attraversano i giorni e per dare un nome alle sconfitte. Sono poco più di un invisibile meno di un livello quadro quell’io di sempre per sempre. Scrivo perché le piante non possono farlo e nemmeno il mio cane che pensa di me che sia io un cane guardandomi schifato.
Quella di Manicardi è dunque una poetica dei vissuti possibili, ancorché denegati dal procedere dominante della Storia e resi invisibili dal linguaggio dei poteri; è una poesia non tanto degli ultimi quanto dei vulnerabili, laddove ci spiega che l’esistere è esso stesso un vulnus, una ferita non ben cicatrizzata che deve essere riaperta dai versi per far sgorgare nuovamente il sangue dalla carne, sfiorando l’idea lacaniana che sia l’esistenza stessa del linguaggio a infliggere una ferita necessaria alla vita immediata. Ma è al contempo una poesia del dubbio, come spiegano i “non so” sparsi nel periodare e che riportano alla ben nota riflessione di Bertrand Russell: il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi, laddove la parola “intelligenti” richiama il senso dell’intelligere o della canoscenza dantesca che anima questo libro. Ecco, la scrittura di Manicardi in Carne e sangue è in definitiva il peregrinare di un intelligere poetico tra la corporeità e il mondo, tra il linguaggio e l’identità.
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