È la triste complessità del vivere, con le sue radici familiari e le conseguenti contorte evoluzioni, che troviamo nei sedici racconti, o meglio short stories, raccolti da Giorgetta Dorfles nel suo nuovo libro I.a catena spezzala. Testi scritti in momenti diversi, calibrati su confessioni personali - appena mascherate da un parlar di sé in terza persona - e vicende stranissime di altri, che forse sono stati essi stessi momentanei compagni di viaggio dell'autrice, o dei suoi alter ego.
Del resto la sua cifra stilistica è l'autobiografismo, a partire dal coraggioso Errata corrige del 2008, una messa a nudo in cui riversava con una certa spietatezza sulla famiglia la colpa di averla emotivamente trascurata e non capita, e apriva a tutti noi lettori le proprie stanze più segrete. Il tema qui ritorna, ma l'acrimonia si scioglie in affetto e pena per i genitori colti nel momento della loro fragilità, che consente alla figlia di sentirli finalmente accessibili, e amabili. È il tenero ritratto della madre inferma in Canzoncine, è l'accorato Linfarto (per buone ragioni scritto così) dedicato al potente padre che diventa docile e tenero nell'intervallo della malattia.
Ma è proprio il racconto che dà il titolo alla raccolta, La catena spezzata, a chiudere il cerchio con questa scottante materia: la deprivazione di affetto percepita nell'infanzia, da cui Dorfles ha fatto discendere le proprie difficoltà esistenziali, il proprio male di stare nel mondo. Un cortocircuito vita-letteratura che ricorda molto da vicino il bisturi autobiografico di Annie Ernaux, fresca di Nobel per la letteratura. La sua parte razionalissima (la sua metà, ci racconta, rispetto all'altra faccia della medaglia che è, o meglio è stata, di provocatorie, risarcitorie passioni) va dunque alla ricerca quasi "clinica" di questa dissociazione, che poi è l'alienazione nevrotica di cui si sente vittima - e che ferisce tutti i singolari protagonisti dei suoi racconti. S 'immagina dunque che la sua nascita sia stata segnata da una frattura nel Dna originario. Sarebbero rimasti separati, in lei, il lato paterno a cui si sente agganciata, costituito da persone ansiose, pessimiste, ossessive, portatrici di eterno senso di colpa di matrice ebraica, e quello solido, solare, paziente, contemplativo, sereno della madre. Si può, con la volontà, «unire la forza della sopraffazione a quella della calma, il pessimismo ansioso alla gioiosa fiducia»? Sarebbe il modo di riconciliare le due parti. «Ma prima - scrive Dorfles guardandosi di lato - doveva chiedere perdono: a una madre che aveva allontanato ignorandone le doti, una madre che aveva rinnegato». Ecco che la scrittura, di per sé terapeutica, è anche una forma di risarcimento.
I temi portanti si richiamano tutti, in una varietà narrativa assai interessante e particolare, a situazioni di distanza affettiva, di dicotomia interiore che induce solitudine (o peggio), oppure a restare stritolati dalle ossessioni. Vedi il racconto intitolato Cassandra. Fedele al proprio nome di mitica ascendenza, questa Cassandra non solo prevede sempre il male, ma si convince che anche prevedere il bene porterà per contrappasso il male, e infine soffoca in questa vertiginosa rete di terrori, da cui - per un'iperbole di parossismo - non riuscirà a liberarsi nemmeno con la morte. Oppure vedi il personaggio di Glauco, un uomo fortunato, contento e in pace con se stesso. Finché un minuscolo inciampo al suo costante benessere fisico, cui nessuno darebbe alcun peso, lo imprigiona nel buco nero della paura di avere una malattia gravissima. Prima ancora di appurarlo, deciderà che non può affrontamne nemmeno l'idea.
Altri sono prigionieri di altro. Asia, in Storia e geografia, odia la storia in quanto eterna ripetizione di violenze, e ama la geografia che "sta ferma' sulla carta e promette mirabolanti scoperte di luoghi infiniti. Ma, soggiogata da queste geometrie, non riesce mai a viaggiare, il suo perimetro diventerà Roma, una mappa studiata a memoria. Anche Trieste diventa un personaggio, altrettanto nevroticamente "doppio", tra dolcezza del mare e asperità del Carso, tra bellezza naturale e vicende storiche che hanno piantato semi di discordia e separatezza, insomma radici di carattere nevrotico.
Entrano nel profilo di Dorfles gli esiti estremi di questo "stare male", e cioè la psichiatria, di cui è testimone diretto un "matto" che ha sperimentato la rivoluzione basagliana e in un flusso disconnesso di parole racconta la propria storia (Bomba psichiatrica). E c'è l’anziano signore che abita sullo stesso pianerottolo della narratrice, che per le sue stranezze il condominio vuole espellere, e che lei invece accoglie con serena benevolenza, nonostante tutto, cogliendone il lato inerme. Un giorno arriveranno gli infermieri, e il poveretto verrà isolato (Fondi di magazzino).
Un sottile filo di angoscia lega tutte queste vicende, dietro i paradossi narrativi troviamo sempre qualcosa che ci riguarda più o meno da vicino. La ruota attorno cui tutto gira è il vuoto affettivo che dilaga nello spazio vitale, e che spinge a continua ricerca di contatto e a continua fuga, dunque, a emarginazioni che si perpetuano, e sono di tale portata che perfino la morte solitaria è una variante che pare un destino.
Emblematico di tutta la raccolta è il testo intitolato Crittogrammi. Il protagonista incarna fisicamente il tema tanto declinato della doppiezza, avendo metà viso sfigurato a seguito di un incidente. Ma è anche un prototipo di inconscio solipsismo: parla e parla, ma non conversa veramente con gli altri, è ossessionato dalla forma fisica e si distrugge in esercitazioni ginniche eccessive, è un artista ma crea opere fatte di distorti frammenti, s'interessa di alfabeti morti, e tratta la sua amica (possibile amante?) con seriali avvicinamenti e distanziamenti, quasi tenendola alla larga mentre l'attira a sé. Non ci sarà scampo per lui. Forse nessuno aveva compreso i suoi ben mascherati messaggi? E perché lei si trova di fatto e di nuovo abbandonata?
Peraltro, sotto la lente dell'autrice passano, anche se in numero minore, pure le donne stesse, e anche qui la delusione è matematicamente certa: ogni amicale intimità viene troncata sul nascere. Del resto a circa sessanta personaggi femminili Dorfles aveva già dedicato le sue artigliate analisi, in Di tutti i peccati delle donne (Manni 2019). Vizi e peccati che naturalmente si sono generati per reazione a infelici esperienze infantili, che distorcono i caratteri, e che poi sconvengono prima di tutto a chi se li porta addosso con fatica e cattive conseguenze.
Con questi balzi narrativi, e una scrittura incisiva e ben governata, Dorfles ci accompagna con leggerezza in zone oscure, ma alla fine (La cura) tutto si piega in una sorta di speranza, che è atto di umiltà: la speranza che qualcuno «abbia cura di noi in modo imperscrutabile e, con pazienza infinita, attenda che ci decidiamo a uscire dal nostro guscio per guardare al mondo e a noi stessi con rinnovata consapevolezza.
Dopo questo sussurro vien da riguardare la foto di copertina che è a firma della Dorfles stessa, anche esperta fotografa d'arte. Un pontile gracilissimo che si specchia in w1' acqua di laguna, sotto una luce livida. Immagine che parla di fragile precarietà. di legni un po' spezzati che sembrano sostenersi a vicenda per restare in piedi: è quasi un primo racconto, stavolta per immagini.
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