Credo che il fare memoria del passato, di chi non c’è, di quello che le persone hanno vissuto sulla propria pelle sia importante, non solo però nelle date segnate sul calendario. Credo che ogni momento possa essere importante e anche utile per fare memoria e per conoscere quelle parti della Storia, in questo caso quella dei fiumani italiani costretti ad andarsene dalla loro terre e non ancora abbastanza note. Scrivo questo, perché vi voglio raccontare di “Ma io in guerra non ci volevo andare Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco, un libro di memorie nel quale l’autore mette nero su bianco tutta la sofferenza provata nel campo di concentramento e appena tornato a casa. Andiamo con ordine, perché Antonio Zorco detto Nino, originario di Fiume, narra l’improvviso cambiamento della sua esistenza con l’arresto avvenuto nell’agosto del 1944 per mano dei tedeschi. Una volta catturato il giovane, che aveva evitato qualsiasi leva militare, venne spedito con altri compagni a Mühldorf, in Germania, dove rimase in un campo di concentramento per i lavori forzati (Todt) dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945. Pagine di dura vita, fatta di lavoro, di paure e necessità di sopravvivenza. Per sua fortuna Nino tornò a casa, anche in modo rocambolesco, malato e bisognoso di cure. Quello che il giovane reduce nato a Fiume da genitori istriani di Visignano d’Istria, trovò nel tentativo di arrivare a Fiume, fu qualcosa di ben diverso dalla pace. Al posto di scovare una situazione sociale dove poter ricominciare a vivere e ricostruire quello distrutto dalla guerra dentro e fuori di lui, Zorco dovette confrontarsi con altri militari, i soldati titini, che nel frattempo avevano occupato la città imponendo le loro regole. Zorco visse un senso di sradicamento dalle proprie radici, nel senso che Nino non solo venne prima deportato, ma tornato a casa trovò una Fiume svuotata dei fiumani che aveva conosciuto (amici e parenti compresi) e piena di persone nuove arrivate dell’ex Jugoslavia, che imposero negli anni usi, costumi, tradizioni diverse da quelle che Nino aveva appreso. Una situazione spiazzante per l’autore che si rese conto di non avere più dei punti di riferimento italiani precisi, tanto da sentirsi un po’ alla Jacopo Ortis, ossia “uno straniero in casa propria”. Zorco spaesato e minato ancora da problemi di salute, chiese più volte alle autorità jugoslave di partire per l’Italia ma sempre gli venne negato il permesso. Nonostante questa impossibilità a raggiungere i suoi cari partiti (anche non volontariamente) per altri luoghi, Nino rimase a Fiume lavorando come tecnico di raffineria e trovando pace grazie all’amore della moglie Daniza. “Ma io in guerra non ci volevo andare Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)” di Antonio (Nino) Zorco è la storia di un giovane uomo portato via dalla sua terra natia e una volta tornato a casa sconvolto da quanto essa fosse cambiata. Il libro di Zorco è la storia di un fiumano che provò sulla propria pelle e nell’animo il vuoto lasciato dall’allontanamento dei propri cari e dalla trasformazione della propria terra occupata da altri. La testimonianza del fiumano Nino è una voce singola e, allo stesso tempo, la voce di un popolo, che con il proprio vissuto incarna quella perdita di capisaldi e quel senso di vuoto/mancanza dovuti all’allentamento forzato o, come nel caso di Nino Zorco, al doversi adattare, perché impossibilitati a partire, ad un mondo nuovo completamente diverso dalla terra istriana di un tempo. Il libro presenta un’introduzione di Diego Zandel, scrittore nipote di Nino e la postfazione di Roberto Spazzali.
Antonio Zorco, detto Nino, classe 1925 era nativo di Fiume. I genitori erano istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva, nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Mühldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.
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