“Io mi chiamo Miguel Enriquez” di Paolo Tagliaferri

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21/11/2019, ore 10:23

Certo non lo mette in soggezione l’anziano che il capostazione ha voluto affidare ai Carabinieri. Vagava sul terzo binario della stazione di Santa Marinella, parla solo spagnolo e non ricorda niente di sé. Io mi chiamo Miguel Enriquez è un poliziesco dell’avvocato Paolo Tagliaferri, un autore di gialli che il fiuto di Diego Zandel ha cooptato tra i titoli della casa editrice Oltre, di Sestri Levante (2019, 158 pagine, 14 euro).
Litorale laziale settentrionale, una location periferica, inconsueta in un romanzo: al penalista di Civitavecchia piace giocare in casa nella scelta dell’habitat narrativo. Ma non è affatto da periferia il protagonista di questo volume tripartito, perché composto da un racconto lungo, che dà il titolo al libro e da due più brevi, “La linea” e “Al Amara”.
Tutti hanno come primattore Massimo Alatri, detto Max, il maresciallo con la foto del Che Guevara sul comodino, il Carabiniere che crede nei valori sociali e non fodera il cervello di nero. Ha quasi 50 anni e al momento è alle prese con una dolorosa distorsione alla caviglia, conseguenza di un salto coraggioso addosso ad un farabutto, da bloccare al porto. Tanti elogi e articoli, ma pure tanto unguento e uno scomodo tutore, per bloccare l’articolazione gonfia da fare pietà.
Del temperamento super attivo di Max nel passato si apprende nel complesso dei tre racconti di questo lavoro. Ama le donne. Con loro si comporta in modo leale, le rispetta. Ricorda con dolore la bella moglie fedifraga, lasciata dopo tre anni felici e soprattutto dopo averla scoperta nuda, a letto, con l’amante con cui trescava da un anno.
È stato nei Carabinieri dall’età della leva fino a un episodio tragico, l’accoltellamento mortale di un collega fraterno, con cui effettuava un servizio di vigilanza a Roma. La stampa e qualche gola profonda ne avevano dette di tutti i colori su Fabrizio. Le circostanze dell’omicidio non sembravano lineari e il giovane militare non ne usciva come una povera vittima e basta. A Massimo queste maldicenze erano risultate insopportabili, aveva lasciato l’Arma, ripreso e finito gli studi in legge, avviato una buona carriera da penalista. Era un difensore vincente, trasferiva nella professione i valori positivi della sua personale ma oggettiva “via dell’onore”.
Erano qualità che non potevano sfuggire ad un alto ufficiale dell’intelligence e il comandante generale della Benemerita in persona gli aveva comunicato il rientro in servizio, a furor di merito, tra i Carabinieri.
I due racconti brevi sono prequel nei quali si apprendono aspetti biografici e si osservano luci e ombre negli apparati dello Stato. Il maresciallo conduce la sua lotta personale e d’istituto contro la malavita, il malaffare, la criminalità.
Ce n’è anche per i mariti prepotenti. Fosse per Alatri, stalker e potenziali autori di femminicidi la pianterebbero di rendere la vita impossibile alle vittime designate: basterebbe far loro un “discorsetto”, in compagnia del collega Fantoni, un colosso tatuato con teschi, lame, volti ghignanti di Joker, con un passato nei Ros e da infiltrato nelle cosche, mestiere difficile. È un gigante di nessuna parola, ma con le mani estremamente eloquenti: i diretti interessati capiscono bene l’antifona.
Tagliaferri non sembra un avvocato quando scrive gialli e questo vuol essere un complimento, perché nei suoi polizieschi evita sintassi complesse e barocche, il racconto fila deretto al sodo, anche quando la costruzione narrativa si fa più complessa, per introdurre i rimandi storici alla caduta di Allende, alla dittatura di Pinochet, in Cile, nel 1973 e alle vicende dell’antenato Guglielmo Tagliaferri Alatri, nella guerra di secessione americana. I riferimenti sono sviluppati negli incisi in corsivo che intercalano il primo e il secondo racconto.
Si diceva che l’anziano accompagnato in caserma parla solo spagnolo. Max ha il tempo di accorgersi di un livido alla tempia, quando l’uomo dice di colpo di chiamarsi Miguel Enriquez, d’essere un medico, nato nel 1944 a Talcahuano.
Questo è impossibile, perché come la simpatica Carmen Verdugo, dell’Ambasciata del Cile a Roma, rivela allo sbalordito Alatri, quell’Enriquez era il capo di un partito di estrema sinistra, ucciso dalla polizia politica nell’ottobre 1974 a Santiago, nel rifugio dove si era nascosto dopo il golpe dell’anno prima.
Indubbiamente morto, su questo non ci sono dubbi, come non ce ne sono sul fatto che non siano degli angioletti i cinque cileni che raggiungono la caserma per prendere in consegna il connazionale. Due anziani messi bene e tre robusti giovanotti, dei buttafuori, per quanto ripuliti. Sostengono d’essere accompagnatori di un gruppo di ex funzionari dei Ministeri, in gita turistico-culturale in Europa. Dicono che il senor Diaz si era allontanato mentre visitavano Roma, ma la bella Carmen non ne sa niente. È sorpresa che una “missione” numerosa e con servizio di sicurezza al seguito possa visitare la capitale senza entrare in contatto con l’Ambasciata. Se suona strano a lei, figurarsi a Max. La reazione dei cileni al nome Miguel Enriquez lo spinge a stare decisamente sul chi vive.
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