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La grande Guerra c'era due volte: il diario di Dos Passos
 di gioved 9 febbraio 2017


di Rock Reynolds

Lo scrittore statunitense si "arruolò" nel corpo civile della Croce Rossa in Francia e Italia In un libretto scrisse la sua terribile esperienza e aprì la strada a molti grandi autori


Alcune cose sono troppo belle per scriverne», parola di John Passos. Ce ne sono altre che, per brutte che siano, richiedono la presenza di un cronista, di una penna vigile.
Dos Passos (1896-1970) è uno dei numerosi scrittori americani di razza che, spinti dalla voglia di raccontare tanto quanto dalla curiosità letteraria per un mondo ignoto e da un innato spirito d'avventura, si "arruolarono" nel corpo civile della Croce Rossa per prestare servizio sulle ambulanze al fronte, durante la Grande Guerra, inaugurando una traduzione che avrebbe fatto dell'esperienza bellica una costante di molti colleghi, soprattutto nel corso del secondo conflitto, stavolta non solo sul fronte europeo ma pure negli scenari bellici africani e pacifici.
L'«allegra montagna di menzogne» (Gammarò Edizioni, pagg. 94, euro 16,00) di John Dos Passos è un libretto passato quasi inosservato al momento della sua pubblicazione, un delitto idealmente accostabile allo scempio della guerra che racconta. In una novantina di pagine, precedute dalla interessante prefazione della traduttrice, Silvia Guslandi, Dos Passos mostra di che pasta sia fatta la sua prosa anche a chi, come il sottoscritto, spesso resta tiepido di fronte alle pagine dei suoi romanzi: è la stessa pasta di cui è fatta la scrittura di Ernest Hemingway, che condivise con Dos Passos l'esperienza di volontario sulle ambulanze della Croce Rossa in Europa.
A spingere la crema dei giovani intellettuali americani a imbarcarsi per l'Europa era stato un misto di idealismo e insoddisfazione avventurosa per il temporeggiare del presidente Woodrow Wilson, che solò a conflitto inoltrato inviò truppe americane contro l'avanzata tedesca. Come è noto, Hemingway basò uno dei suoi romanzi più fortunati, Addio alle armi, proprio sulle esperienze a Fossalta di Piave e nell'ospedale in cui era stato ricoverato per le schegge di una granata che gli si erano conficcate in una gamba mentre tentava di raggiungere in bicicletta le postazioni più avanzate del fronte.

[leggi l'articolo integrale su L'UNITÀ (PDF)]


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 - gioved 9 febbraio 2017


di Rock Reynolds

Lo scrittore statunitense si "arruolò" nel corpo civile della Croce Rossa in Francia e Italia In un libretto scrisse la sua terribile esperienza e aprì la strada a molti grandi autori


Alcune cose sono troppo belle per scriverne», parola di John Passos. Ce ne sono altre che, per brutte che siano, richiedono la presenza di un cronista, di una penna vigile.
Dos Passos (1896-1970) è uno dei numerosi scrittori americani di razza che, spinti dalla voglia di raccontare tanto quanto dalla curiosità letteraria per un mondo ignoto e da un innato spirito d'avventura, si "arruolarono" nel corpo civile della Croce Rossa per prestare servizio sulle ambulanze al fronte, durante la Grande Guerra, inaugurando una traduzione che avrebbe fatto dell'esperienza bellica una costante di molti colleghi, soprattutto nel corso del secondo conflitto, stavolta non solo sul fronte europeo ma pure negli scenari bellici africani e pacifici.
L'«allegra montagna di menzogne» (Gammarò Edizioni, pagg. 94, euro 16,00) di John Dos Passos è un libretto passato quasi inosservato al momento della sua pubblicazione, un delitto idealmente accostabile allo scempio della guerra che racconta. In una novantina di pagine, precedute dalla interessante prefazione della traduttrice, Silvia Guslandi, Dos Passos mostra di che pasta sia fatta la sua prosa anche a chi, come il sottoscritto, spesso resta tiepido di fronte alle pagine dei suoi romanzi: è la stessa pasta di cui è fatta la scrittura di Ernest Hemingway, che condivise con Dos Passos l'esperienza di volontario sulle ambulanze della Croce Rossa in Europa.
A spingere la crema dei giovani intellettuali americani a imbarcarsi per l'Europa era stato un misto di idealismo e insoddisfazione avventurosa per il temporeggiare del presidente Woodrow Wilson, che solò a conflitto inoltrato inviò truppe americane contro l'avanzata tedesca. Come è noto, Hemingway basò uno dei suoi romanzi più fortunati, Addio alle armi, proprio sulle esperienze a Fossalta di Piave e nell'ospedale in cui era stato ricoverato per le schegge di una granata che gli si erano conficcate in una gamba mentre tentava di raggiungere in bicicletta le postazioni più avanzate del fronte.

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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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