La Stampa di martedģ 30 giugno 2020
In un volume, tutte le poesie in gran parte ignote del grande e discusso cantautore: che non le confondeva con le canzoni, e anzi si faceva beffe del “poetichese” di Mogol, grazie al quale aveva ottenuto peraltro i maggiori successi. Si dichiarava “liberale”, e nel mondo della musica era probabilmente solo a osare tanto. Chj sia l’ora giusta per riscoprirlo?
di Mario Baudino
La canzone che tutti (o quasi) ricordano è quella che gli dette la notorietà, ancora giovanissimo, nel ‘63 (ma subito dopo dovette partire militare, e non riuscì a sfruttarla del tutto): Ritornerai, un bolero cantato benissimo, interpretata poi da Ornella Vanoni e ricreata da Franco Battiato, ma anche da Gassman in La Congiuntura, il film di Scola, e ballata in chiesa in La Messa è finita di Nanni Moretti, per non parlare dei film dei fratelli Vanzina. Parole semplici e iterate, rime avvedute, l’inevitabile amore infelice: Bruno Lauzi, eccellente musicista e autore di testi che riusciva sempre a scartare, con un guizzo, dal rischio della banalità, magari solo grazie alla voce, alla pronuncia e all’ironia, è stato molto di più di un cantautore in perenne oscillazione tra nicchia e successo. E’ stato soprattutto un fiero anticonformista che, mentre tutti flirtavano con radicalismi d’ogni tipo, dichiarava orgogliosamente la propria storia di liberale (cominciata con Piero Chiara, a Varese, finita con l’espulsione dal partito quando, durante il caso Tortora, invitò a votare radicale e si avvicinò a Pannella).
Amico di Montanelli – il che in questo momento potrebbe non essere un gran biglietto da visita -, riusciva persino a farsi censurare dalla Rai: come quando, sempre nel ’63, una sua canzone dedicata al Muro di Berlino (Domani ti diranno) ebbe sì una popolarità clandestina in Germania Est ma venne cautamente oscurata dalla Rai perché si temeva offendesse «i sentimenti di più di dieci milioni di italiani», cioè gli elettori del PCI all’epoca. La si trova, insieme a molte altre, non tutte, anche su Youtube. «Domani ti diranno/ questa è la libertà/ma ti condanneranno/ se non ci crederai» era l’inizio. «La libertà è una sola/ e il Muro salterà» la conclusione. Le ragioni della censura, raccontò in Tanto domani mi sveglio, autobiografia uscita postuma per l’editore Gammarò (era morto nel 2006, a Peschiera Borromeo, e l’aveva scritta nell’ultimo anno di vita) gli furono rivelate da Piero Ostellino, e non osiamo perciò dubitare che parlasse a ragion veduta.
Lauzi ha inventato brani divertentissimi come il poi chissà perché rinnegato Arrivano i Cinesi («Arrivano nuotando/ dice Ruggero Orlando/ che domani sono qui/ si piazzano in salotto/ e non se ne vanno più») e altri sciagurati, in piena coscienza: per esempio la dimenticabile, forse dimenticata, Una rosa da Vienna, cantata a Sanremo da quella che lui stesso definì «la lacrimosa» Anna Identici, nel 1966. Non ha mai cercato di nascondersi. E ha scritto poesie, che ora l’editore Oltre (dopo aver inglobato il marchio Gammarò) raccoglie in Ricomporre armonie. Poese 1992 – 2006, a cura di Francesco De Nicola. Nel mondo della musica e dei cantautori, con tutto ciò che li ha circondati e li circonda, fra culto, sopravvalutazioni e sottovalutazioni sempre fervide e “definitive”, lui era uno dei pochi a saper riflettere sull’evidenza che il testo di una canzone e quello di una poesia sono diversi, irriducibili e inconfondibili. Già questo è un motivo d’interesse – e di riflessione. Usava freddamente quelle canzoni, soprattutto le pesava per quel che erano. Secondo lui Mogol, ad esempio, aveva la «furbizia» di scrivere in un linguaggio «finto poetico»: anche se gli riconobbe di aver così fatto «la sua, e anche la mia fortuna», come ricordò nell’autobiografia. Ora i suoi versi, pubblicati a partire dagli Anni Novanta presso piccoli editori e a volte presso se stesso, ci rivelano un autore sconosciuto (dati gli scarsissimi echi che ebbero le singole raccolte) e tutto da leggere – oltre che, magari, da riascoltare con la dovuta attenzione.
Amico di Montanelli – il che in questo momento potrebbe non essere un gran biglietto da visita -, riusciva persino a farsi censurare dalla Rai: come quando, sempre nel ’63, una sua canzone dedicata al Muro di Berlino (Domani ti diranno) ebbe sì una popolarità clandestina in Germania Est ma venne cautamente oscurata dalla Rai perché si temeva offendesse «i sentimenti di più di dieci milioni di italiani», cioè gli elettori del PCI all’epoca. La si trova, insieme a molte altre, non tutte, anche su Youtube. «Domani ti diranno/ questa è la libertà/ma ti condanneranno/ se non ci crederai» era l’inizio. «La libertà è una sola/ e il Muro salterà» la conclusione. Le ragioni della censura, raccontò in Tanto domani mi sveglio, autobiografia uscita postuma per l’editore Gammarò (era morto nel 2006, a Peschiera Borromeo, e l’aveva scritta nell’ultimo anno di vita) gli furono rivelate da Piero Ostellino, e non osiamo perciò dubitare che parlasse a ragion veduta.
Lauzi ha inventato brani divertentissimi come il poi chissà perché rinnegato Arrivano i Cinesi («Arrivano nuotando/ dice Ruggero Orlando/ che domani sono qui/ si piazzano in salotto/ e non se ne vanno più») e altri sciagurati, in piena coscienza: per esempio la dimenticabile, forse dimenticata, Una rosa da Vienna, cantata a Sanremo da quella che lui stesso definì «la lacrimosa» Anna Identici, nel 1966. Non ha mai cercato di nascondersi. E ha scritto poesie, che ora l’editore Oltre (dopo aver inglobato il marchio Gammarò) raccoglie in Ricomporre armonie. Poese 1992 – 2006, a cura di Francesco De Nicola. Nel mondo della musica e dei cantautori, con tutto ciò che li ha circondati e li circonda, fra culto, sopravvalutazioni e sottovalutazioni sempre fervide e “definitive”, lui era uno dei pochi a saper riflettere sull’evidenza che il testo di una canzone e quello di una poesia sono diversi, irriducibili e inconfondibili. Già questo è un motivo d’interesse – e di riflessione. Usava freddamente quelle canzoni, soprattutto le pesava per quel che erano. Secondo lui Mogol, ad esempio, aveva la «furbizia» di scrivere in un linguaggio «finto poetico»: anche se gli riconobbe di aver così fatto «la sua, e anche la mia fortuna», come ricordò nell’autobiografia. Ora i suoi versi, pubblicati a partire dagli Anni Novanta presso piccoli editori e a volte presso se stesso, ci rivelano un autore sconosciuto (dati gli scarsissimi echi che ebbero le singole raccolte) e tutto da leggere – oltre che, magari, da riascoltare con la dovuta attenzione.
Mario Baudino
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