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Arrivano parole dal jazz
Correlazioni di venerdģ 11 dicembre 2020
Vittorino Curci, nella prefazione all’ultima pubblicazione di Nicola Vacca Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni, 2020), trova nei versi che seguono – ovvero la poesia Il jazz mentre fuori piove – la chiave di lettura forse pił significativa del libro:

di Giuseppe Scaglione

Il jazz nei giorni di pioggia
lo sento addosso
e mi scava dentro come l’amarezza
di un pensiero che vuole la sua ansia.
Le gocce battono sui vetri
guardo fuori mentre dentro
insiste come un’ossessione
il ritmo di quella musica
che attraverso le improvvisazioni
non smette di battere il tempo:
tutto scorre e niente si afferra.

Per Nicola – scrive Curci – il jazz è essenzialmente malinconia, un sentimento ineffabile, una epochè dell’anima davanti all’incommensurabile mistero del nostro essere “gettati nel mondo”, per dirla con Heidegger. Nella malinconia di un giorno di pioggia, in uno stato di sospensione del tempo, quando “tutto scorre e niente si afferra”, il jazz dice le sue parole più chiare, racconta la sua vera storia. E si può aggiungere che in quel tutto scorre e niente si afferra risiede non solo la verità del jazz ma anche la verità di Nicola Vacca, l’inattuale, come ama definirsi. Poeta, saggista, critico letterario, Vacca ha improntato il suo percorso poietico all’onestà intellettuale, che né l’adesione emotiva alla Storia né il coraggio sociale costringono a visioni rassicuranti o edulcorate, anzi. Resta viva la consapevolezza dell’estrema difficoltà della Poesia di fronte al decadimento dei valori fondanti della civiltà occidentale, a cui contrappone – sdegnato – un intelligere profetico, urticante, e i suoi versi svettano dal piattume delle banalità letterarie che affliggono larga parte della postmodernità. Come saggista ha passato più volte la sua lente d’ingrandimento sul Novecento letterario estrapolandone le figure più alte e non vincolate dal conformismo o dal mercato. E lo ha fatto dopo anni di studio, lontano dalle suggestioni comode del pensiero unico. Anni di studio che ha dedicato con altrettanta passione a Cioran, figura guida del suo essere poeta-filosofo. Come critico ha mantenuto e mantiene una adamantina, ostinata coerenza, sordo alle lusinghe delle sirene editoriali. Da poeta, infine, ha intrapreso una strada difficile, quella del disincanto, fino a giungere al pregevole trittico delle sillogi Mattanza dell’incanto, Luce nera (premio Camaiore) e Commedia ubriaca.

Un percorso, quello di Nicola Vacca, impervio, affascinante, che non concede nulla all’improvvisazione e alla banalità, al punto da potersi ritenere impossibile, oggi, trattare di volta in volta esclusivamente della singola opera, dell’ultima novità nella sua ormai corposa produzione. Occorre ricondurre a unità, collocare ciascun lavoro dentro questo percorso, tracciarne la linea evolutiva e, eventualmente, individuarne i punti di svolta, i momenti in cui si rinnova, mutandone i colori e accendendosi a più ampie pulsioni. Arrivano parole dal jazz non sfugge all’assunto, manifestandosi come una tappa del cammino. Pervaso dal rispetto, quasi una fede, verso la parola scritta, l’ha orientata all’esperienza sinestesica già nel libro Dal tratto alle parole, del 2018. L’opera in cui ha affidato la scrittura a una sorta di sinestesia esistenziale, incrociando i propri componimenti con la fisiognomica dei ritratti di Mario Pugliese, che effigiano i Grandi del Novecento letterario. Sembra che nell’autore abbia preso forma e stia crescendo il bisogno interiore di conquistare nuovo spazio alla scrittura, che per lui non è un esercizio puramente stilistico ma una ragione di vita, appunto una condizione esistenziale. In questo senso si possono rinvenire alcune analogie con l’arte contemporanea, installatoria e performativa, dove l’esigenza di contaminazione, di associazione, di interazione tra forme, materie, gesti, cromie, movimenti e parole è radicata da tempo. Un intreccio di codici comunicativi che Vacca continua a sperimentare, per risolvere, si può ritenere, i disequilibri della postmodernità, non allontanandosi dall’inattuale ma diluendolo nell’esperienza: come in un percorso circolare che si avvita verso l’alto, con il nuovo libro associa le proprie riflessioni poetiche al tratteggio icastico delle illustrazioni di Alfonso Avagliano e, splendidamente, alla sfera sensoriale della musica. Del jazz, non a caso. La struttura del libro si articola in quattro sezioni: Le bocche d’oro del jazz, Donne che cantano il jazz, Le grandi mani del jazz, Perché amo il jazz. Si chiude con una playlist curata da Tommaso Tucci, quasi una guida emotiva alla lettura. Vacca è un uomo colto, conosce la storia e il significato del jazz, oltre che apprezzarlo da ascoltatore competente. Ne conosce il disperato vissuto di musica degli ultimi, degli emarginati, afroamericani e no. Ne riconosce il simbolismo fonetico e il valore semantico: sin dalle origini (ovvero il ragtime, l’antenato del jazz) è una musica sincopata, a brandelli (la parola in inglese significa tempo stracciato), dove ogni strumento segue un proprio canovaccio e la fusione del tutto assume una forza espressiva straordinaria. La scrittura ne asseconda il ritmo, come da tempo i versi di Vacca esprimono ritmi e suoni inconfondibili, incroci di significato, accostamenti diretti, visioni originali:

Sanguino d’amore
mentre ascolto Chet Baker
le cose sono finite
in un libro del desiderio
dove un domani si potrà leggere
di tutte le passioni che ho vissuto.

Oppure:

C’è una luce che si insinua
nel punto più oscuro della notte
diventa incandescente la tromba di Freddie
che strangola le note.
Gli accordi accendono fuochi d’artificio
nessuna possibilità di domare le fiamme.

Ma nel libro – tuttavia – allo spleen, alla malinconia di cui opportunamente parla Curci si affianca un senso quasi perfetto di stupore, che trasmigra in fiducia verso l’arte, o meglio verso la genialità di cui è comunque capace un essere umano. Come per esempio Miles Davis, in questi versi:

Ogni volta che un tuo assolo
spacca il cielo sotto cui viviamo
la luna e le stelle si incontrano nel sole
e noi ci sentiamo possibilità infinite.

Sorprende e ammira, qui, la capacità di avvicinarsi al lirismo sfiorandolo senza oltrepassarne la linea di confine, evocando visioni e stati d’animo pur restando fedele al verso che squarcia la pagina, con l’improvviso, e inaspettato ma coerente, richiamo al disincanto del cielo sotto cui viviamo. Non perde mai, Vacca, il senso del dubbio esistenziale che fonda sulla dicotomia tra il male e il bene, tracciati a volte dalle allegorie, come quelle alle quali ricorre scrivendo di John Coltrane:

Quando suona John
sembra di stare in chiesa e a casa di Satana
la sua musica è il dappertutto
che si aggira dalle parti dell’anima.

Insomma un libro che esprime ancora una volta la cifra di un poeta che ha sempre saputo, come in Commedia ubriaca per esempio ma in realtà tutto il Trittico non è da meno, guardare in faccia il male senza restarne atterrito, col cuore in mano e con la fronte alta, come scriveva Gozzano. E che nella scrittura ha sempre rifiutato suggestioni estetizzanti nella scelta delle singole parole, preferendo un linguaggio che si svolge dentro ritmi poetici il cui nitore formale, dorico, sobrio, è esso stesso di una indiscutibile eleganza. Una scrittura il cui tono e colore esprimono perfetta coerenza all’argomento e al senso che esprime, oppure al contrario alla decostruzione del senso, così che dal verso discendano immagini, visioni dense e vere.



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Vittorino Curci, nella prefazione all’ultima pubblicazione di Nicola Vacca Arrivano parole dal jazz (Oltre edizioni, 2020), trova nei versi che seguono – ovvero la poesia Il jazz mentre fuori piove – la chiave di lettura forse pił significativa del libro:

di Giuseppe Scaglione

Il jazz nei giorni di pioggia
lo sento addosso
e mi scava dentro come l’amarezza
di un pensiero che vuole la sua ansia.
Le gocce battono sui vetri
guardo fuori mentre dentro
insiste come un’ossessione
il ritmo di quella musica
che attraverso le improvvisazioni
non smette di battere il tempo:
tutto scorre e niente si afferra.

Per Nicola – scrive Curci – il jazz è essenzialmente malinconia, un sentimento ineffabile, una epochè dell’anima davanti all’incommensurabile mistero del nostro essere “gettati nel mondo”, per dirla con Heidegger. Nella malinconia di un giorno di pioggia, in uno stato di sospensione del tempo, quando “tutto scorre e niente si afferra”, il jazz dice le sue parole più chiare, racconta la sua vera storia. E si può aggiungere che in quel tutto scorre e niente si afferra risiede non solo la verità del jazz ma anche la verità di Nicola Vacca, l’inattuale, come ama definirsi. Poeta, saggista, critico letterario, Vacca ha improntato il suo percorso poietico all’onestà intellettuale, che né l’adesione emotiva alla Storia né il coraggio sociale costringono a visioni rassicuranti o edulcorate, anzi. Resta viva la consapevolezza dell’estrema difficoltà della Poesia di fronte al decadimento dei valori fondanti della civiltà occidentale, a cui contrappone – sdegnato – un intelligere profetico, urticante, e i suoi versi svettano dal piattume delle banalità letterarie che affliggono larga parte della postmodernità. Come saggista ha passato più volte la sua lente d’ingrandimento sul Novecento letterario estrapolandone le figure più alte e non vincolate dal conformismo o dal mercato. E lo ha fatto dopo anni di studio, lontano dalle suggestioni comode del pensiero unico. Anni di studio che ha dedicato con altrettanta passione a Cioran, figura guida del suo essere poeta-filosofo. Come critico ha mantenuto e mantiene una adamantina, ostinata coerenza, sordo alle lusinghe delle sirene editoriali. Da poeta, infine, ha intrapreso una strada difficile, quella del disincanto, fino a giungere al pregevole trittico delle sillogi Mattanza dell’incanto, Luce nera (premio Camaiore) e Commedia ubriaca.

Un percorso, quello di Nicola Vacca, impervio, affascinante, che non concede nulla all’improvvisazione e alla banalità, al punto da potersi ritenere impossibile, oggi, trattare di volta in volta esclusivamente della singola opera, dell’ultima novità nella sua ormai corposa produzione. Occorre ricondurre a unità, collocare ciascun lavoro dentro questo percorso, tracciarne la linea evolutiva e, eventualmente, individuarne i punti di svolta, i momenti in cui si rinnova, mutandone i colori e accendendosi a più ampie pulsioni. Arrivano parole dal jazz non sfugge all’assunto, manifestandosi come una tappa del cammino. Pervaso dal rispetto, quasi una fede, verso la parola scritta, l’ha orientata all’esperienza sinestesica già nel libro Dal tratto alle parole, del 2018. L’opera in cui ha affidato la scrittura a una sorta di sinestesia esistenziale, incrociando i propri componimenti con la fisiognomica dei ritratti di Mario Pugliese, che effigiano i Grandi del Novecento letterario. Sembra che nell’autore abbia preso forma e stia crescendo il bisogno interiore di conquistare nuovo spazio alla scrittura, che per lui non è un esercizio puramente stilistico ma una ragione di vita, appunto una condizione esistenziale. In questo senso si possono rinvenire alcune analogie con l’arte contemporanea, installatoria e performativa, dove l’esigenza di contaminazione, di associazione, di interazione tra forme, materie, gesti, cromie, movimenti e parole è radicata da tempo. Un intreccio di codici comunicativi che Vacca continua a sperimentare, per risolvere, si può ritenere, i disequilibri della postmodernità, non allontanandosi dall’inattuale ma diluendolo nell’esperienza: come in un percorso circolare che si avvita verso l’alto, con il nuovo libro associa le proprie riflessioni poetiche al tratteggio icastico delle illustrazioni di Alfonso Avagliano e, splendidamente, alla sfera sensoriale della musica. Del jazz, non a caso. La struttura del libro si articola in quattro sezioni: Le bocche d’oro del jazz, Donne che cantano il jazz, Le grandi mani del jazz, Perché amo il jazz. Si chiude con una playlist curata da Tommaso Tucci, quasi una guida emotiva alla lettura. Vacca è un uomo colto, conosce la storia e il significato del jazz, oltre che apprezzarlo da ascoltatore competente. Ne conosce il disperato vissuto di musica degli ultimi, degli emarginati, afroamericani e no. Ne riconosce il simbolismo fonetico e il valore semantico: sin dalle origini (ovvero il ragtime, l’antenato del jazz) è una musica sincopata, a brandelli (la parola in inglese significa tempo stracciato), dove ogni strumento segue un proprio canovaccio e la fusione del tutto assume una forza espressiva straordinaria. La scrittura ne asseconda il ritmo, come da tempo i versi di Vacca esprimono ritmi e suoni inconfondibili, incroci di significato, accostamenti diretti, visioni originali:

Sanguino d’amore
mentre ascolto Chet Baker
le cose sono finite
in un libro del desiderio
dove un domani si potrà leggere
di tutte le passioni che ho vissuto.

Oppure:

C’è una luce che si insinua
nel punto più oscuro della notte
diventa incandescente la tromba di Freddie
che strangola le note.
Gli accordi accendono fuochi d’artificio
nessuna possibilità di domare le fiamme.

Ma nel libro – tuttavia – allo spleen, alla malinconia di cui opportunamente parla Curci si affianca un senso quasi perfetto di stupore, che trasmigra in fiducia verso l’arte, o meglio verso la genialità di cui è comunque capace un essere umano. Come per esempio Miles Davis, in questi versi:

Ogni volta che un tuo assolo
spacca il cielo sotto cui viviamo
la luna e le stelle si incontrano nel sole
e noi ci sentiamo possibilità infinite.

Sorprende e ammira, qui, la capacità di avvicinarsi al lirismo sfiorandolo senza oltrepassarne la linea di confine, evocando visioni e stati d’animo pur restando fedele al verso che squarcia la pagina, con l’improvviso, e inaspettato ma coerente, richiamo al disincanto del cielo sotto cui viviamo. Non perde mai, Vacca, il senso del dubbio esistenziale che fonda sulla dicotomia tra il male e il bene, tracciati a volte dalle allegorie, come quelle alle quali ricorre scrivendo di John Coltrane:

Quando suona John
sembra di stare in chiesa e a casa di Satana
la sua musica è il dappertutto
che si aggira dalle parti dell’anima.

Insomma un libro che esprime ancora una volta la cifra di un poeta che ha sempre saputo, come in Commedia ubriaca per esempio ma in realtà tutto il Trittico non è da meno, guardare in faccia il male senza restarne atterrito, col cuore in mano e con la fronte alta, come scriveva Gozzano. E che nella scrittura ha sempre rifiutato suggestioni estetizzanti nella scelta delle singole parole, preferendo un linguaggio che si svolge dentro ritmi poetici il cui nitore formale, dorico, sobrio, è esso stesso di una indiscutibile eleganza. Una scrittura il cui tono e colore esprimono perfetta coerenza all’argomento e al senso che esprime, oppure al contrario alla decostruzione del senso, così che dal verso discendano immagini, visioni dense e vere.



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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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