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'Chi ha rubato Pecos Bill?' di Giuseppe Fiori
sololibri.net di sabato 6 febbraio 2021
Oltre Edizioni, 2020 - Oltre a un commissario e ai suoi collaboratori, oltre a un ladro e a un collezionista di fumetti, il nuovo poliziesco di Giuseppe Fiori ruota intorno a due protagonisti: Roma e il Tevere

di Elisabetta Bolondi
I protagonisti del piccolo nuovo poliziesco firmato da Giuseppe Fiori, Chi ha rubato Pecos Bill? (Oltre Edizioni, 2020), sono due: Roma e il Tevere. Sì, ci sono il commissario della polizia fluviale Omar Martini, ci sono i suoi pochi collaboratori, c’è la guardia che rema, un ladro professionista ormai in pensione, una bella poliziotta con la coda di cavallo in servizio presso la caserma di polizia a cavallo di via Anicia, un autore e collezionista di fumetti: la storia che li coinvolge tutti però è solo un pretesto per raccontare la città e il suo fiume, che sembrano davvero essere l’obiettivo dell’autore.

Giuseppe Fiori ha scritto molti romanzi, polizieschi per lo più, ma nelle storie che ha in testa e che diventano libri importanti, come il recente Il pasticciaccio del commissario Martini (Manni 2019), il contesto ambientale, la città dove vive e ambienta le sue trame, i personaggi di contorno, il linguaggio colloquiale venato di romanesco prendono un posto preminente nella narrazione.
L’isola Tiberina, i due ponti che la legano alla terraferma, il Cestio e quello dei “giudii”, Trastevere, San Francesco a Ripa, il Gianicolo, la Fontana dell’Acqua Paola, l’enorme parco della Villa Doria Pamphili, sono il palcoscenico su cui lo scrittore fa muovere i suoi attori.

Ma c’è di più, c’è il fiume. Il Tevere è stato di recente tema d’ispirazione di numerosi romanzi: penso a Tevere di Luciana Capretti, a La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, Con il sole negli occhi di Elfriede Gaeng, È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci, Il fiume di Marco Lodoli. Un luogo quasi mitico, che ci riporta alle origini della città e che rivela una vita segreta, lontana dagli sguardi frettolosi dei passanti, una vegetazione selvaggia, una fauna quasi sconosciuta, un mistero che sembra tuttora circondare una metropoli contemporanea che non rinuncia alle sue misteriose origini di fondazione.

Nella personalità del commissario Martini, Omar, anagramma di Roma, che sta vivendo in solitudine il suo anno sabbatico, nel suo atteggiamento un po’ rinunciatario, poco attento alla carriera e allo stile più consueto del mestiere di “sbirro”, si ritrova una delle caratteristiche della personalità di molti nostri concittadini: giustizia sì, ma senza fare del male; indagini sì, ma con intelligenza e senza pregiudizi, guardando in prospettiva, dando il giusto risalto alle caratteristiche delle persone, rispettandole, anche se si tratta di ladri che comunque hanno già pagato il loro debito alla giustizia.

La storia del furto dalla casa di un disegnatore di una collezione di albi di Pecos Bill rilegati con cura, il suo trafugamento su un banco di Porta Portese, la cavalcata notturna a pelo su un cavallo bianco rubato con estrema destrezza dalla caserma trasteverina da parte di un giovanissimo ladro che, imitando Garibaldi, si esibisce galoppando intorno alla sua leggendaria statua, sono immagini quasi cinematografiche che Fiori ci regala in un poliziesco lieve, benissimo raccontato, pieno di citazioni letterarie, di spunti di riflessione, di incontri con le parti più nascoste e meno descritte dei romani e del loro rapporto con i quartieri storici della città. Pecos Bill, a cavallo del suo Turbine, con i calzoni con le frange e il lazo pronto nelle mani, è un personaggio mitico, lontano dall’immaginario dei ragazzi d’oggi, tutti smartphone e videogame, ma riporta noi lettori dell’epoca alla nostalgia per personaggi di carta che avevamo dimenticato.


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di Elisabetta Bolondi
I protagonisti del piccolo nuovo poliziesco firmato da Giuseppe Fiori, Chi ha rubato Pecos Bill? (Oltre Edizioni, 2020), sono due: Roma e il Tevere. Sì, ci sono il commissario della polizia fluviale Omar Martini, ci sono i suoi pochi collaboratori, c’è la guardia che rema, un ladro professionista ormai in pensione, una bella poliziotta con la coda di cavallo in servizio presso la caserma di polizia a cavallo di via Anicia, un autore e collezionista di fumetti: la storia che li coinvolge tutti però è solo un pretesto per raccontare la città e il suo fiume, che sembrano davvero essere l’obiettivo dell’autore.

Giuseppe Fiori ha scritto molti romanzi, polizieschi per lo più, ma nelle storie che ha in testa e che diventano libri importanti, come il recente Il pasticciaccio del commissario Martini (Manni 2019), il contesto ambientale, la città dove vive e ambienta le sue trame, i personaggi di contorno, il linguaggio colloquiale venato di romanesco prendono un posto preminente nella narrazione.
L’isola Tiberina, i due ponti che la legano alla terraferma, il Cestio e quello dei “giudii”, Trastevere, San Francesco a Ripa, il Gianicolo, la Fontana dell’Acqua Paola, l’enorme parco della Villa Doria Pamphili, sono il palcoscenico su cui lo scrittore fa muovere i suoi attori.

Ma c’è di più, c’è il fiume. Il Tevere è stato di recente tema d’ispirazione di numerosi romanzi: penso a Tevere di Luciana Capretti, a La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, Con il sole negli occhi di Elfriede Gaeng, È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci, Il fiume di Marco Lodoli. Un luogo quasi mitico, che ci riporta alle origini della città e che rivela una vita segreta, lontana dagli sguardi frettolosi dei passanti, una vegetazione selvaggia, una fauna quasi sconosciuta, un mistero che sembra tuttora circondare una metropoli contemporanea che non rinuncia alle sue misteriose origini di fondazione.

Nella personalità del commissario Martini, Omar, anagramma di Roma, che sta vivendo in solitudine il suo anno sabbatico, nel suo atteggiamento un po’ rinunciatario, poco attento alla carriera e allo stile più consueto del mestiere di “sbirro”, si ritrova una delle caratteristiche della personalità di molti nostri concittadini: giustizia sì, ma senza fare del male; indagini sì, ma con intelligenza e senza pregiudizi, guardando in prospettiva, dando il giusto risalto alle caratteristiche delle persone, rispettandole, anche se si tratta di ladri che comunque hanno già pagato il loro debito alla giustizia.

La storia del furto dalla casa di un disegnatore di una collezione di albi di Pecos Bill rilegati con cura, il suo trafugamento su un banco di Porta Portese, la cavalcata notturna a pelo su un cavallo bianco rubato con estrema destrezza dalla caserma trasteverina da parte di un giovanissimo ladro che, imitando Garibaldi, si esibisce galoppando intorno alla sua leggendaria statua, sono immagini quasi cinematografiche che Fiori ci regala in un poliziesco lieve, benissimo raccontato, pieno di citazioni letterarie, di spunti di riflessione, di incontri con le parti più nascoste e meno descritte dei romani e del loro rapporto con i quartieri storici della città. Pecos Bill, a cavallo del suo Turbine, con i calzoni con le frange e il lazo pronto nelle mani, è un personaggio mitico, lontano dall’immaginario dei ragazzi d’oggi, tutti smartphone e videogame, ma riporta noi lettori dell’epoca alla nostalgia per personaggi di carta che avevamo dimenticato.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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